Siamo tutti CT
La redazione si è esposta scegliendo ognuno il proprio undici ideale.
La Nazionale pratica di Alfredo Giacobbe
Dopo la formazione iper-associativa e provocatoria di Emanuele, io vorrei cominciare da una provocazione di tipo opposto: e se invece l’associatività fosse un lusso che, semplicemente, non possiamo permetterci?
Non intendo dire che a non poterselo permettere sia questa generazione di calciatori, ma proprio il nostro movimento, forse per intero e addirittura da sempre. Sono andato a rileggere alcuni vecchi articoli di Gianni Brera, che verso la fine degli anni Cinquanta auspicava l’adozione, per la Nazionale, di quella che all’epoca era la nuova frontiera della tattica: il catenaccio.
In estrema sintesi, il catenaccio risolveva una delle ambasce che si veniva a creare quando entrambe le squadre si sistemavano con il WM, il modulo imperante a quei tempi: quando cioè le tre punte in alto della W di una squadra (che corrispondono all’attacco: al centravanti e alle due ali) collimavano con i tre piedini della M dell’altra squadra (che corrispondono ai tre difensori). Così i difensori si trovavano praticamente sempre uno contro uno col diretto avversario molto vicino alla propria porta (se ripensate ai record di prolificità dell’epoca di attaccanti forti tecnicamente, ma soprattutto fisicamente, come Nordahl, capirete anche quanto era difficile la vita del difensore). Il catenaccio permetteva di avere sempre un uomo in più sull’ultima linea rispetto al numero di attaccanti avversari.
Tutti giocavano con il WM, ma perché secondo Brera non andava bene per la Nazionale? Quel modulo era nato in Inghilterra e Brera riteneva che il calcio a quelle latitudini era profondamente diverso dal nostro, addirittura lo erano anche gli uomini. Cito Brera: “Gli inglesi applicavano un calcio congeniale alla loro natura di lottatori irruenti ma anche adatto al clima nel quale giocavano. […] Il dribbling era loro vietato: era in effetti proibitivo su terreni bagnati e pericoloso per la comune abitudine di portare il tackle con battute energiche, spesso violente”.
Il WM insomma era inadatto agli italiani “per indole e per costituzione morfologica”. Il gioco sviluppato intorno a quel modulo richiedeva molta resistenza per coprire il campo largo, una tecnica sopraffina per vincere i duelli individuali, e doti atletiche per spuntarla sui duelli aerei.
Siamo qui, sessant’anni dopo, ancora ad arrovellarci sull’identità tattica più idonea alla nostra Nazionale. E se ci arrendessimo alla nostra natura? Se ci facessimo attirare dal sapore nostalgico di un calcio rozzo, basato solo sulla difesa e agganciato speranzosamente a poche veloci, improvvise fiammate in contropiede?
Allora la mia proposta è quella di tornare alla madeleine del 5-3-2 con Buffon, Barzagli, Bonucci e Chiellini a vestire i panni che furono di Zoff, Gentile, Scirea e Collovati nell’estate del ‘82. Sulle fasce la spinta di Spinazzola da un lato e l’eclettismo di Darmian dall’altro. Al centro, una cerniera formata da due mezzali atletiche, come Parolo e Pellegrini, ai lati di un regista di lotta e di governo, come Daniele De Rossi. Il capitano romanista sarebbe capace sì di spezzare e di ripartire ragionando, ma saprebbe trovare le punte anche con sua capacità di calciare lungo. Davanti mi affiderei senza dubbio alla vigoria fisica di Belotti e Immobile, se tengono la forma che hanno oggi. In aggiunta a questo, se fossi io l’allenatore della Nazionale, mi affiderei senz’altro ad un’abbondante quantità di preghiere e riti apotropaici.