Raúl González Blanco: l’icona del Real Madrid
In occasione dei 115 anni del Real Madrid, rendiamo omaggio al giocatore che ne rappresenta meglio la storia recente.
Parte II. Maturo
Capello ritaglia per Raúl una posizione già intravista con Arsenio Iglesias, non più di punta (primo o secondo attaccante che fosse) ma esterno sinistro a centrocampo nel 4-4-2. Esterno sui generis, posto che Raúl fedele alle proprie caratteristiche più che cercare il fondo taglia in diagonale verso l’area di rigore, alle spalle dei due attaccanti, Šuker e Mijatović. Questo micidiale trio totalizza circa il 75% delle reti stagionali del Madrid, e per Raúl sono 21 in 42 partite (41 dall’inizio; invece 1 in 5 partite di Copa del Rey), con alcune prove d’autore, come quella sul campo dell’Atlético, ancora una pugnalata a suo padre, anzi due, doppietta con uno dei gol più belli della carriera , forse quello con la maggior quantità di dribbling considerato il suo stile di gioco solitamente scarno.
“Raúl è la grande stella e il miglior gregario, il cittadino Stachanov e, allo stesso tempo, un poeta di periferia con due gambe di filo di ferro che si piegano, si arrestano e scelgono per il pallone un destino che si chiama gol: liberando un compagno davanti alla porta o centrando l’angolino più invisibile. Accontenta le statistiche e l’intelligenza”. (Jorge Valdano)
Capello lascia dopo una sola stagione, e per Raúl il ‘97-’98 rappresenta una delle annate più difficili della carriera: non ci sono problemi col nuovo tecnico, Jupp Heynckes, che ne modifica il ruolo, perché il centrocampo passa al rombo e Raúl fa il trequartista sempre dietro il duo serbo-croato (ma proseguendo la stagione Šuker perderà il posto e Raúl avanzerà), ma il canterano trova i primi ostacoli.
La pubalgia è insidiosa, perché non impedisce di giocare ma mina il rendimento, che nei primi mesi è molto deludente. Raúl si ferma un mese, ma le insidie non finiscono: ora è la chiacchiera un po’meschina che, come sempre succede in questi casi, al cattivo rendimento in campo accompagna le insinuazioni su quello che succede fuori. Così arriva qualche fischio, uscire la notte diventa una colpa, e sulla stampa scandalistica Raúl si trasforma in bevitore e addirittura drogato. Il diretto interessato accusa il colpo e si chiude in sé al punto da entrare in silenzio stampa. Reagisce male a un paio di sostituzioni, e dopo poco più di un mese rompe il silenzio convocando una conferenza stampa nella quale chiede scusa al tecnico, ai compagni e ai tifosi, impegnandosi a maturare.
Le prestazioni continuano a non essere le più brillanti, anche se si ha un progresso con l’avvicinarsi della fine della stagione. Intanto, il Real Madrid si laurea campione d’Europa battendo la Juventus ad Amsterdam (Raúl gioca trequartista dietro Morientes e il match-winner Mijatović). Il bottino personale però è uno dei più magri della carriera, solo 10 gol in Liga (su 35 gare tutte dall’inizio), la miseria di 2 su 11 in Champions e nessun gol nell’unica presenza nella coppa nazionale.
Dopo la delusione del mondiale (la prima di una lunga serie con la maglia della nazionale), Raúl ricarica però le batterie: stagione nuova, allenatore nuovo (Guus Hiddink) e un nuovo importante successo. È lui il mattatore nella Coppa Intercontinentale col Vasco Da Gama: è suo il gol decisivo, uno dei più belli, “più raúleschi” che si ricordino, con quel caratteristico tocco di genialità applicato a finalizzazioni chirurgiche.
L’aggancio sul lancio di Seedorf è chirurgico, geniale è l’attesa, l’esitazione con la quale manda a vuoto il ritorno del difensore brasiliano, prima di un’altra piccola pausa davanti al portiere che assicura la stoccata finale col destro.
Sul piano individuale è un’annata magnifica, 25 gol in 37 partite (tutte dall’inizio), primo titolo di capocannoniere, davanti a Rivaldo, in un Real Madrid un po’ più alterno invece, secondo in Liga ma a ben 11 punti di distanza dal Barça, e in mezzo c’è stato l’esonero di Hiddink, sostituito da John Toshack. In Champions il Madrid esce ai quarti con la Dinamo Kiyv, e Raúl si ferma a 3 gol in 8 presenze (0 su 2 in Copa del Rey).
Nei primi mesi del 1999-2000 la polarità si accentua: Raúl encomiabile, Real miserabile. Il talento madridista da seconda punta ha ormai consolidato una grande intesa con Fernando Morientes, e regala un momento epico nel Clásico al Camp Nou, finito 2-2 con due reti di Raúl, uno dei quali è un’altra perla marca de la casa: in corsa, senza la possibilità di dare forza alla conclusione, col portiere Hesp subito addosso, Raúl pizzica appena il pallone, il tanto giusto per scavalcare il portiere e farlo rotolare lento e beffardo in fondo al sacco.
Il successivo dito davanti alla bocca, a zittire l’arena blaugrana, è una delle istantanee degli ultimi venti anni di calcio spagnolo.
Però il Madrid resta un pasticcio, Toshack litiga con tutti, a novembre l’esonero, e così sulla panchina approda Vicente Del Bosque, uomo del club, tecnico delle squadre giovanili, fin lì utilizzato come traghettatore un paio di volte, prima nel ’94 dopo Benito Floro e poi nel ’95, fra Valdano e Iglesias.
Proprio con Valdano e Capello, Del Bosque può essere considerato il terzo allenatore fondamentale di Raúl. Non per quello che aggiunge al bagaglio tecnico di un fenomeno conclamato, ma per il suo lato umano, elogiato fino alla noia: “Lo conobbi quando avevo 15 anni, era il coordinatore delle giovanili. Lo vedevo passeggiare, osservare, parlare col mio tecnico di allora ma mai con me. Mi incuteva rispetto e timore. Me lo ritrovai sette anni dopo. Un uomo stupendo, perché ha evitato ogni protagonismo, lasciando a noi giocatori ogni vetrina, ha evitato ogni attrito”.
Beh, a dire il vero non è che le cose vadano subito a meraviglia, se è vero che anche con Don Vicente il Madrid arriva a toccare il fondo di una sconfitta casalinga per 5-1 con il Zaragoza, e a stazionare in zone di classifica inusualmente basse. Alla fine arriverà solo quinto, ma a portare il bilancio ampiamente in attivo c’è la Champions League, la coppa del Madrid, la coppa di Raúl (il massimo realizzatore nella storia della competizione, 66 gol davanti ai 60 di Van Nistelrooy; il conto totale delle coppe europee invece lo vede a quota 67, secondo a due gol da Gerd Mueller). I merengues passano due fasi a gironi a fari spenti. Ci arrivano così, ma una volta lì la camiseta e il talento riacquistano il loro peso, e te la giochi tutta.
Il quarto di ritorno, a Old Trafford, contro lo stratosferico Manchester United del centrocampo Beckham-Keane-Scholes-Giggs è una delle più belle partite della storia recente, per intensità e livello tecnico. E a sorpresa la vince il Real Madrid, che addirittura si porta su un triplo vantaggio prima del 2-3 finale.
Del Bosque ha virato sui tre difensori centrali (con l’infortunio di Hierro, Iván Campo, Helguera e Karanka) accentrando Steve McManaman vicino a Redondo, mentre Raúl è sobrio, leggero ed affilato come nelle sue migliori versioni, gioca in appoggio a Morientes ma in quel suo indefesso sguazzare fra trequarti e area di rigore è irrintracciabile per il sistema difensivo avversario. Poi mette i due gol che tagliano le gambe allo United: il primo una perla, per il controllo in corsa con l’esterno a seguire e il sinistro a girare piazzato sul secondo palo, il secondo idem, ma per meriti esclusivamente di l’arcinoto tunnel di tacco a Berg prima di smarcare a porta vuota Raúl.
Finisce impronosticabilmente in gloria: superato anche il Bayern in semifinale, e poi regolato il Valencia di Cúper, rivelazione entusiasmante ma evidentemente ancora poco scafata. Raúl finisce la Champions da trequartista, alle spalle di Morientes e dell’ingestibile indigeribile Anelka, e in finale segna un altro dei suoi gol, classe+freddezza, freddezza+classe=Raúl. Una rete semplice semplice, ma con le modalità avvincenti di un western di Sergio Leone: contropiede con la metacampo spalancata, prima del colpo finale Raúl e Cañizares hanno tutto il tempo per guiardarsi in faccia e pensare alle rispettive mosse, e questo tempo può giocare anche a sfavore di Raúl, tante possibili opzioni possono generare alla fine imbarazzo e indecisione, invece sterzata decisa verso destra, portiere dribblato e conclusione defilata nella porta vuota, con l’angolazione astuta che beffa il ritorno di Djukic.
Con questo fanno 10 in 15 partite, capocannoniere della Champions, mentre in campionato il bottino è più contenuto, 17 gol in 34 gare (32 dall’inizio; ormai consueta la scena muta nelle 4 partite di Copa del Rey; mentre arrivano 2 gol nelle 4 gare dell’improvvisato Mondiale per club disputato in Brasile).
“Nessuno ha mai capito da dove abbia tirato fuori, questo magrolino con le gambe di filo di ferro e la faccia da uomo qualunque, la sua sicurezza quasi insolente. Nato con una intelligenza portentosa per il calcio, accetta ogni sfida, si adatta a tutte le posizioni, e risolve i problemi in modo ogni giorno più semplice. È un giocatore di sostanza, capace di distinguere con tanta chiarezza le cose importanti da quelle secondarie che non lo vedremo mai perdersi in chiacchiere, fare grosse sciocchezze o lasciarsi distrarre da polemiche assurde. Sa bene quali sono l’importanza e lo sforzo che merita ogni partita, qual è il momento chiave per dare il colpo del knock out, quando bisogna trasmettere un messaggio emozionale per contagiare il pubblico e i compagni.” (Jorge Valdano)