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Valerio Moggia
Il problema della Liga con il razzismo
22 apr 2024
22 apr 2024
Il lungo e ambiguo rapporto del campionato spagnolo con le discriminazioni razziali.
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Valerio Moggia
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IMAGO / Samuel Carreno
(foto) IMAGO / Samuel Carreno
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«Se ti dicessi quello che penso mi metterei in un guaio», rispondeva Iñaki Williams in un estratto del programma TV spagnolo Salvados, nel febbraio 2021. Il conduttore della trasmissione giornalistica di La Sexta, Fernando González González detto "Gonzo", gli stava mostrando il video di un comizio del leader di Vox, Santiago Abascal, in cui si scagliava contro gli immigrati africani. Cinque anni prima, Vox raccoglieva appena lo 0,20% dei voti alle elezioni generali, ma già nelle elezioni di aprile 2019 era balzato oltre il 10% per poi superare il 15% nelle nuove votazioni in autunno. Secondo l’associazione SOS Racismo, tra il 2017 e il 2021 c’è stato un deciso aumento delle denunce di episodi di razzismo in Spagna, da 347 a 523, con la gran parte dei casi che non vengono neppure segnalati.

Da questo punto di vista, la Spagna non è diversa dalla maggior parte dei paesi europei, in cui un aumento dei casi di discriminazione nella società è andato di pari passo con la crescita dei partiti della destra populista, che hanno progressivamente normalizzato certi discorsi. I campi da calcio sono la valvola di sfogo principale per comportamenti di questo tipo. Negli ultimi anni, le prese di posizione di Vinícius Jr. hanno portato molto l’attenzione sul tema, venendo accusato da molti di essere preso di mira non per razzismo ma per il suo comportamento provocatorio. Una tesi che appariva già fragile, ma che ha mostrato la crepa più grande lo scorso 30 marzo.

Nel giro di un paio d’ore si sono registrati tre differenti episodi razzisti tra la prima e la terza divisione. Due durante Getafe-Siviglia, con alcuni esponenti del pubblico di casa che hanno rivolto insulti razzisti sia all’argentino Marcos Acuña sia al tecnico Quique Sánchez Flores, per via delle sue origini gitane. A Sestao, nella terza serie, il portiere senegalese dal Rayo Majadahonda Cheikh Sarr ha ricevuto insulti razzisti, ha reagito, è stato espulso, e i suoi compagni di squadra hanno abbandonato il campo per protesta. Quando si guarda con maggiore attenzione agli episodi di razzismo nel calcio spagnolo, ci si accorge che il fenomeno è molto più diffuso di quanto non sembri.

No conoce esta afición”: le origini del fenomeno

In Italia, per giustificare il razzismo, si dice spesso che fino al 1981 non c’era mai stato un giocatore nero in Serie A (non del tutto vero, per la verità, vista la carriera in Italia di Miguel Montuori, alla Fiorentina dal 1955 al 1961, e addirittura capitano della Nazionale alla fine degli anni Cinquanta). Il pubblico avrebbe iniziato a reagire in maniera discriminatoria, quindi, perché “non abituato” ai calciatori neri. Se questa giustificazione è fragile in Italia, lo è ancora di più in Spagna: il marocchino Larbi Ben Barek era già la stella dell’Atlético Madrid tra il 1948 e il 1953; il maliano Salif Keita incantava i tifosi del Valencia tra il 1973 e il 1976; il gambiano Biri Biri divenne un idolo del Siviglia tra il 1973 e il 1978 (gli ultras del club andaluso si chiamano Biris Norte in suo onore).

Eppure il razzismo negli stadi inizia a diventare evidente solo a partire degli anni Novanta, proprio come avvenuto in Italia. Uno dei primi grossi casi di razzismo nel calcio spagnolo è stato quello che ebbe come vittima il portiere nigeriano del Rayo Vallecano, Wilfred Agbonavbare, alla fine del 1992. Durante un derby contro il Real Madrid, Agbonavbare venne bersagliato da cori come “Negro, cabrón, recoge el algodón!” (“Ne**o bastardo, vai a raccogliere il cotone”) e altri che inneggiavano al Ku Klux Klan. Si tratta di uno dei più efferati casi di razzismo allo stadio nell’intera storia del calcio europeo. Dopo questi cori - e la vittoria finale del Rayo per 2-0 - un sostenitore di mezza età del Real venne intervistato dalla TV spagnola e reiterò l’insulto (“maldito negro de los cojones”), e nello stesso servizio un ragazzino di appena 13 anni aggiungeva: “Vamos a ir el domingo a machacar al negro, al hijo de puta ese a Vallecas” (“Domenica andremo a pestare il ne**o, quel figlio di puttana a Vallecas”).

Cosa era cambiato nella società spagnola per scatenare comportamenti così aggressivi, che prima non erano mai stati registrati? Una risposta univoca non è semplice da dare, e l’aumento dei giocatori neri - e in generale delle persone nere nel paese - da solo non basta a spiegare il fenomeno. Aiuta a capire meglio il contesto, invece, considerare l’ascesa dei moderni gruppi del tifo organizzato, che in Spagna iniziano a diffondersi a partire dall’inizio degli anni Ottanta. Nel giro di pochi anni, quasi tutti i club delle grandi città si ritrovano ad avere nelle proprie tifoserie gruppi di estrema destra: gli Ultras Sur del Real Madrid nascono nel 1980, i Boixos Nois del Barcellona nel 1981 (inizialmente sono di sinistra, ma in pochi anni vengono egemonizzati dagli skinhead neonazisti), il Frente Atlético dei "Colchoneros" nel 1982, gli Ultras Yomus del Valencia nel 1983, le Brigadas Blanquiazules dell’Espanyol nel 1985, e i Supporters Gol Sur del Betis nel 1986 (anche loro nati come gruppo di sinistra ma passati al neofascismo non più tardi del 1991).

L’affermazione dell’estrema destra nel tifo calcistico ha motivazioni precise: la fine del regime franchista nel 1975 aveva lasciato i fascisti senza legittimità politica, così gli spalti dei campi da calcio divennero un nuovo luogo per fare proseliti, in maniera simile a quanto fatto nel decennio precedente dal National Front britannico. È significativo che nel novembre 1982, pochi mesi dopo la fine dei Mondiali e mentre stavano nascendo i primi gruppi ultras spagnoli, il principale partito dell’estrema destra iberica, Fuerza Nueva, decideva di sciogliersi (sarebbe rinato come Frente Nacional nel 1986, durando però appena sette anni). A quel tempo, uno dei più importanti esponenti della sezione giovanile del partito era uno studente di Legge dell’Università di Zaragoza, Javier Tebas, che oggi è il presidente della Liga. «Sulla maggior parte delle tematiche, la penso ancora come quando stavo in Fuerza Nueva. Però non sono di estrema destra», ha dichiarato nel 2016 a El Mundo. Non stupirà sapere che oggi Tebas è dichiaratamente un elettore di Vox.

L’ascesa di questi gruppi del tifo organizzato è una fattore chiave per comprendere l’aumento dei casi di razzismo negli stadi spagnoli. Il resto lo ha fatto la totale sottovalutazione del fenomeno da parte dei media e di tutto l’ambiente del calcio. Nel 1998, per esempio, Roberto Carlos denunciò di aver ricevuto spesso insulti razzisti a Barcellona («È l’unica città in Spagna in cui mi è successo», disse) e uno dei leader della squadra blaugrana, Pep Guardiola, gli rispose: «Parla troppo, non conosce questi tifosi». Ma le immagini sono piuttosto indiscutibili: addirittura su uno striscione dei tifosi del Barça avevano chiamato “macaco” il brasiliano.

Nel 2004, la tv spagnola mandò in onda alcune immagini di un allenamento della nazionale in cui il CT Luis Aragonés incitava José Antonio Reyes dicendogli di dimostrare di essere migliore di Thierry Henry, suo compagno all’Arsenal: «Demuestra que eres mejor que ese negro de mierda» (che penso si capisca anche senza traduzione letterale). L’episodio causò grandi polemiche in Inghilterra ma non in Spagna, e quando in seguito le due squadre si affrontarono a Madrid i tifosi spagnoli bersagliarono i giocatori neri inglesi con cori da scimmia. Da allora, l’Inghilterra non ha più voluto giocare a Madrid, chiedendo esplicitamente di spostare un incontro del 2009 a Siviglia. Alla fine, Aragonés non venne mai sanzionato per la sua frase, e dopo la vittoria dell’Europeo del 2008 venne innalzato ad eroe del calcio nazionale.

Eres un mono”: imparare a reagire

Un momento di svolta, nel rapporto della Spagna calcistica con il razzismo è stato probabilmente quello che è accaduto a Samuel Eto’o a Saragozza, nel gennaio 2005. In risposta ai cori da scimmia ricevuti dal pubblico locale, l’attaccante camerunese minacciò di lasciare il terreno di gioco, alla fine fu convinto a continuare, segnò e festeggiò imitando appunto una scimmia. Il caos fece molto scalpore, dato che la vittima era uno dei calciatori più forti e amati della Liga. La polizia identificò alcuni dei tifosi responsabili, e il Real Zaragoza li bandì dallo stadio. Da lì in avanti, qualcosa iniziò a cambiare. Già nel 2003 Joan Laporta aveva espulso i Boixos Nois dal Camp Nou; nel 2013, sia il Real che l’Atlético Madrid fecero lo stesso con gli Ultras Sur e il Frente Atlético.

Si tratta di un momento simbolico, che dimostra che gradualmente il sistema stava iniziando a reagire invece di lasciar correre. Nei fatti, però, Ultras Sur e Boixos Nois continuarono a farsi vedere dove i loro club non potevano intervenire, ovvero in trasferta. Il Frente Atlético venne lentamente e tacitamente riammesso allo stadio, tanto che nel 2022 la Commissione Statale sulla Violenza propose una sanzione di 60mila euro contro il club di Madrid, accusandolo di collaborare e sostenere il gruppo. Il caso degli ultras dei "Colchoneros" è piuttosto importante, dato che si tratta di quelli che hanno “inaugurato” la stagione degli insulti contro Vinícius, quando il 18 settembre 2022 hanno intonato prima di un derby, fuori dal Wanda Metropolitano, «Vinícius sei una scimmia». Il gennaio successivo hanno impiccato un manichino raffigurante il brasiliano a un viadotto di Madrid. Il 13 marzo, prima della gara interna di Champions League contro l’Inter - quindi, in un partita in cui l’attaccante non era neppure in campo - hanno rinnovato il coro: «Alè alè, Vinícius scimpanzé!». L'ala del Real Madrid si è espresso più volte sul tema, in interviste o sui propri profili social, eppure non tutti nemmeno dentro la sua squadra sembrano stare dalla sua parte. «Non credo che la Spagna sia un Paese razzista», ha detto una volta Dani Carvajalgiocatore vicino a Vox e agli Ultras Sur «Ho amici con un colore della pelle diverso dal mio, e non c’è mai stato alcun problema».

I tifosi, però, non sono gli unici responsabili e il sistema mediatico è ancora troppo spesso parte in causa in queste situazioni. Molti hanno celebrato la recente prima pagina di Marca a sostegno di Cheikh Sarr del Rayo Majadahonda, ma si tratta di un caso più unico che raro. I media, per esempio, hanno avuto una responsabilità per i cori dei tifosi dell’Atlético che nel 2022 chiamavano “scimmia” Vinícius. Solo due giorni prima di quei fatti, il procuratore Pedro Bravo era andato in tv a El Chiringuito, sul canale Mega, a dire che il brasiliano doveva smetterla di “fare la scimmia”, ballando dopo aver segnato un gol. Quell’insulto razzista è stato normalizzato in televisione, e solo in seguito fatto proprio dai tifosi dell’Atlético, implicitamente legittimati dai media.

Questo è solo un caso tra i tanti. Nell’ottobre 2020, il giornalista del quotidiano ABC Salvador Sostres descriveva la velocità di Ansu Fati paragonandolo a un “giovane ambulante nero” che scappa dalla polizia. Quasi la stessa cosa che, pochi giorni fa, ha detto Germán Burgos commentando l’abilità nel palleggio di Lamine Yamal su Movistar: «Se non gli va bene col calcio, finisce a un semaforo», parole che in Spagna sono state percepite come un riferimento ai venditori ambulanti o ai giocolieri che chiedono l’elemosina per le strade, spesso immigrati. Sia Sostres che Burgos si sono scusati sostenendo che i loro erano dei complimenti, non degli insulti, e che si è trattato di un malinteso. Burgos è stato rimosso dai commenti delle partite su Movistar, ma Sostres continua tranquillamente a scrivere su ABC: a volerla vedere ottimisticamente, potremmo dire che la differenza tra i due casi dimostra che sta aumentando la sensibilità sulla lotta al razzismo anche nei media. Oppure dobbiamo considerare che è più facile sostituire un opinionista ed ex-calciatore in tv piuttosto che un editorialista conosciuto (e da molti anche apprezzato) proprio per posizioni di destra radicale.

Negli ultimi anni, la Spagna sta provando a seguire l’esempio britannico nel contrasto alle discriminazioni negli stadi. Sempre più spesso i responsabili di questi insulti vengono identificati, banditi dai club e sottoposti a processo penale: le quattro persone identificate per il caso del manichino di Vinícius a Madrid rischiano fino a 4 anni di prigione. Tuttavia, in molti casi le identificazioni si rivelano più problematiche, e per questo le autorità politiche spagnole stanno ora lavorando a una nuova legge contro il razzismo negli stadi. Le contromisure, qui come altrove, sono però essenzialmente pensate nei confronti dei tifosi, ignorando totalmente il fatto che spesso i comportamenti razzisti sono alimentati anche dai media. Il sistema trova comprensibilmente molto più comodo punire i tifosi, sempre percepiti come un “soggetto altro” all’interno del calcio e un elemento di frequente conflitto, piuttosto che rimettere in discussione un intero modo di affrontare e anche di raccontare lo sport. Per esempio, è possibile condurre una seria battaglia contro le discriminazioni quando ai vertici del campionato c’è una persona che sostiene un partito xenofobo?

Oggi Vinícius sembra aver raccolto l’eredità spirituale di Eto’o come simbolo antirazzista: la reazione del camerunese di 19 anni fa portò per la prima volta a considerare seriamente il problema, proprio come sta accadendo adesso il brasiliano del Real Madrid, grazie alle sue proteste. Non a caso, Cheikh Sarr ha indicato proprio l’attaccante del Real Madrid come un esempio da seguire.

L’opposizione al razzismo in Spagna ha dunque due facce: da un lato, delle istituzioni che stanno affrontando il problema ancora con resistenze e difficoltà; dall’altro, dei giocatori che forse più di qualunque altro Paese in Europa stanno prendendo l’iniziativa in prima persona. L’azione diretta dei tesserati, fino anche all’interruzione delle partite (come fatto dai giocatori del Rayo Majadahonda, ma anche da quelli del Valencia nell’aprile 2021, dopo gli insulti a Mouctar Diakhaby a Cadice), è forse l’unico modo per forzare la mano alle istituzioni, costrette ad intervenire per non mettere in pericolo gli introiti derivanti dal "prodotto calcio", come viene chiamato in quegli ambienti. Di fatto, è una forma di sciopero, storicamente il metodo di lotta pacifica più efficace.

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