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Valentino Tola
L'Olanda di David Winner
18 ott 2017
18 ott 2017
Intervista all'autore di Brilliant Orange, un libro sulle radici culturali del calcio totale.
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Valentino Tola
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Il racconto calcistico abituale difficilmente approfondisce le radici culturali del gioco, e anche i tentativi di partire dal calcio per raccontare altre storie spesso risultano semplicemente giustapposti. David Winner, giornalista e scrittore inglese, è riuscito però a superare questo limite con

, libro sul calcio olandese che si svolge lungo una serie di idee-cardine che integrano, non giustappongono, dettagli tecnici del gioco ed excursus sull’arte e la società olandese.

 

Su tutte l’idea di “totalità”, la tendenza a pensare in chiave sistemica non disgiunta, ma anzi incoraggiata dalla creatività individuale. Quando si racconta della scuola architettonica di Amsterdam, in cui ogni elemento separato viene armonizzato come parte di un concetto unico, in realtà si parla anche del Calcio Totale dell’Ajax come unità organica che nasce da decisioni individuali che si compensano grazie all’intelligenza dei giocatori, squisitamente sistemica, nell’interpretare le relazioni spaziali reciproche.

 

La predilezione estetica per il passaggio filtrante come retta o curva che non solo delimita lo spazio, ma lo crea, favorendo l’attaccante, va invece in parallelo con la razionalizzazione del paesaggio strappato al mare dei Paesi Bassi, in cui naturale e artificiale si confondono in un “insieme di punti, linee e superfici, come in un dipinto di Mondrian”, secondo l’architetto paesaggista Dirk Sijmons.

 

In questo libro aneddoti, istantanee e divagazioni sono sparse, ma solo apparentemente, come il terzino che nell’Ajax si trovava di colpo a fare l’attaccante: tutte contribuiscono alla “totalità” del racconto, ma senza la rigidità di tesi chiuse, anzi mantenendo sempre viva la tensione dialettica fra libertà e ordine.

 



 



[reply]Mi preme dire che questa è solo la mia idea di calcio olandese. Identifico una serie di idee astratte, ma non lo ritengo un approccio olandese. Gli olandesi sono molto pragmatici, ma non in una maniera prosaica. C’è della magia, e io ho cercato di spiegarla. In realtà il modo in cui nel libro gioco/speculo con le idee, traccio paralleli con l’arte, il paesaggio etc., hanno infastidito alcuni uomini di calcio olandesi.

 

Il direttore dell’influente rivista Voetbal International mi disse che le mie opinioni non avevano valore perché non ero mai stato un giocatore professionista. Ho visto una recensione scritta da un lettore per una delle grandi case editrici olandesi, e lo puoi notare sempre più adirato. Appena arriva al capitolo “Death Wish”, sul perché gli olandesi perdono quando invece dovrebbero vincere (disastri ai rigori, liti interne, sottovalutazione degli avversari e così via) diventa furioso.

 

Ma nel corso degli anni, gli olandesi sembrano aver fatto loro ciò che ho scritto. Una delle cose più belle mai dette sul mio libro l’ha detta Ruud van Nistelrooy. Ha detto che da olandese leggere il libro è stato come guardarsi allo specchio perché “mostra cose su te stesso che non avevi mai notato prima”. Una volta poi mi sono imbattuto per caso in Wim Suurbier in un caffè di Amsterdam. Giocò nel grande Ajax e nella grande Olanda, ma non ci eravamo mai incontrati, né lo avevo mai intervistato, ma mi salutò come un fratello che non vedeva da tempo. Il libro è diventato parte del modo in cui gli olandesi vedono loro stessi. Quando l’Olanda sconfisse la Spagna 5-1 all’ultimo Mondiale De Telegraaf titolò in inglese “BRILLIANT ORANGE”.

 



 

Mi sono sempre chiesto perché un libro di questo tipo non l’abbia mai scritto un olandese. Credo sia un fatto culturale. Se l’Ajax dei ’70 fosse stato inglese ci sarebbero state dozzine di film e libri a riguardo. Ma questo perché gli inglesi tendono a vivere più di altri in un mondo di parole. L’olandese è una lingua più secca, più pratica, e gli olandesi non sono particolarmente inclini al filosofare, almeno nel senso che intendi tu. Se il Calcio Totale davvero fosse nato da qualche filosofia astratta, forse sarebbe stato un prodotto francese o tedesco.

 

Comunque, non si tratta di una distinzione fra astratto e non-astratto. Sono stato abbastanza fortunato da passare un po’ di tempo con Claude Lanzmann qualche anno fa. È stato istruttivo. Quando lo intervistai a proposito di “Shoah”commisi l’errore di iniziare con una domanda filosofica. Mi guardò come se fossi matto. Nutriva un assoluto disprezzo per ogni astrazione riguardo all’Olocausto. Il suo approccio era completamente differente. Era ossessionato da dettagli banali, ma questi ti portavano nel cuore della vicenda. Le sue domande erano del tipo: i treni della morte venivano spinti o tirati sopra la rampa a Birkenau? A quale velocità i furgoni del gas andavano nella foresta di Chelmno? Era ossessionato da questo tipo di cose. E diceva: “Anche questa è filosofia”. E aveva ragione, naturalmente.[/reply]

 



[reply]Questa è la domanda a cui cerca di rispondere tutto il libro! Credo che al fondo si riduca a una questione molto semplice: dietro differenze apparentemente insignificanti nel modo in cui le persone fanno le cose, affiorano mondi diversi e affascinanti/accattivanti. Ed è divertente osservare come persone di culture diverse fanno le cose in maniera leggermente diversa.

 

Per esempio, la prima volta che sono andato a Roma ero con un’amica che aveva preparato un pranzo semplice di pasta al sugo e una piccola insalata come contorno. La pasta era ottima. E allora, con nonchalance, io versai un po’ di insalata nel piatto della pasta. La mia amica rimase scioccata. Se avessi schiaffato un topo morto sul tavolo sarebbe stato meno inopportuno. Per tutta la settimana lei raccontò ai suoi amici quello che avevo combinato, e anche i suoi amici rimasero disgustati. Ma in Inghilterra servire l’insalata nel piatto “sbagliato” non è un errore. Insomma, c’è una differenza culturale interessante. Cosa c’è dietro questa differenza? Allora, per farla breve… ho finito con lo scrivere un libro sulla cultura gastronomica romana.

 

In realtà, è un libro sulle basi culturali in senso lato della cultura gastronomica. Questo mi ha portato a tuffarmi a capofitto negli insegnamenti della Chiesa, nel Satyricon, e Donizetti, i magnifici libri di Piero Camporesi, San Girolamo che pensa che il cibo sia male, Caterina da Siena che si autoinfligge torture, e il bizzarro cannibalismo dell’Eucarestia, e tutti i poveri romani che hanno sofferto la fame nel corso dei secoli. Poi scopri il “Balletto delle castagne”. E ti accorgi che il cibo nei film di Dario Argento è orribile, così gli chiedi perché e lui ti risponde che è perché è celiaco, e ti racconta storie fantastiche su Visconti, Leone, Fellini, Mastroianni e il loro rapporto col cibo. Poi Pasolini che ti porta a “La Ricotta”, che ti porta alle antiche rovine che a loro volta ti portano alla roba strana della Caffarella, così scopri che la tradizione gastronomica romana è sostanzialmente ebraica, così vai al Ghetto… e tutto questo comincia con un po’ di insalata nel piatto sbagliato. Il libro è uscito bene. Penso sia meglio di Brilliant Orange, in realtà. Ma va contro ciò che agli inglesi piace pensare dell’Italia. Gli inglesi credono che tutti gli italiani vivano in cima a colline toscane soleggiate e passano le giornate a mangiare cibo magnifico, a fare sesso fantastico e a cantare arie da Puccini… scusa. Mi avevi fatto una domanda sul calcio?[/reply]

 



[reply]Lo spazio è una componente fondamentale di qualsiasi calcio. Ma è un’altra questione nominarlo, parlarne e concepirlo come la cosa più importante. Gli inglesi hanno inventato il calcio come una specie di battaglia. Nella concezione inglese si tratta di combattere e vincere duelli individuali per tutto il campo. I tedeschi hanno il loro kampfgeist (spirito combattivo). In Spagna, si parla di furia: passione, intensità, duro lavoro e coraggio. Gli olandesi sono arrivati relativamente tardi. Non consentirono il professionismo fino al 1954. Nei primi anni ’60, l’Ajax giocava ancora con il WM, sin dagli anni ’20.

 

In Olanda, per un colpo di fortuna, sono capitati due personaggi straordinari nello stesso periodo. Rinus Michels, un ex giocatore diventato tecnico, che studiava il calcio di altri paesi, e Johan Cruyff, un ragazzo di Betondorp (che significa “villaggio di cemento”), un quartiere operaio lungo la strada per lo stadio dell’Ajax, che è stato forse il più grande genio naturale nella storia del gioco. Il piano iniziale di Michels era un 4-2-4 alla brasiliana. Gradualmente, sulla scia di ciò che Cruyff e gli altri facevano in campo, è evoluto verso un ultra-flessibile 4-3-3 con giocatori che si scambiavano le posizioni costantemente.

 

Tra il 1965 e il 1971, hanno cambiato tutto. Fu un processo collaborativo. Anche altri contribuirono. C’è un capitolo in cui personaggi chiave come il vice allenatore Bobby Haarms o Velibor Vasović, difensore jugoslavo, discutono su chi ha contribuito di più, se Michels o i giocatori. Provo uno strano sentimento: quando scrissi il libro, tutte queste persone erano vive. Ora non ci sono più.[/reply]

 



[reply]Nel corso dei secoli gli olandesi hanno sviluppato maniere ingegnose di affrontare il problema di un territorio pianeggiante esposto alle inondazioni. Una cultura basata sulla cooperazione e volta a trarre il massimo dalla più piccola porzione utilizzabile di spazio. E poi c’è questa cultura olandese colorata. La puoi vedere nella loro architettura, nei loro assunti politici, nelle politiche di gestione dello spazio. L’abitudine a misurare lo spazio con precisione c’è nei dipinti dei paesaggi e anche nei dipinti degli interni delle chiese. Per quanto ne so, Cruyff e Michels non hanno mai parlato direttamente di queste cose. Ma non ne avevano bisogno. Era tutto intorno a loro, e lo hanno assorbito.[/reply]

 



[reply]Sì, c’è sempre una tensione. Individui di spicco che possono risaltare solo all’interno di un collettivo. Chi decide? Chi ha il potere? Cruyff è un po’ nietzschiano. Pensa che i giocatori speciali siano i più importanti, e che il resto della squadra debba aiutarli a essere speciali. Dennis Bergkamp è un caso interessante. È uno dei più grandi giocatori olandesi. È stato uno dei pupilli di Cruyff. Abbiamo scritto un libro insieme, “Stillness and Speed”. È una biografia, ma anche una sorta di seguito di “Brilliant Orange”. Lo vedo come un artista individuale, ma riporta sempre tutto al collettivo.

 



 

Sul campo non apprezzava le giocate a effetto o i dribbling, non ci crede. Ciò che lo preoccupava erano il movimento, la posizione, le trame del gioco e lo sviluppo di un’intesa quasi telepatica fra i giocatori. Invecchiando era sempre più preso dall’idea di creare l’assist perfetto per gli altri, o il passaggio decisivo prima dell’assist. Thierry Henry, che ha giocato anche con Zidane, Messi, Xavi, Iniesta e Ronaldinho, mi ha detto che Dennis era meglio di tutti questi. All’Inter non lo capirono. Volevano che giocasse in maniera individualista. Semplicemente dargli la palla e lasciargli creare i gol da solo. All’Inter preferivano Rubén Sosa. Un po’ come dire che la “Macarena” è meglio di Mozart.[/reply]

 



[reply]C’era un sistema, ma le briglie erano allentate. Non c’era il culto del sistema. L’Ajax di Louis van Gaal degli anni ’90 era più orientato verso il sistema, ma comunque era un sistema volto a far emergere le individualità e la creatività più che restringerla. Pochi club nella storia sono stati più creativi dell’Olanda del 1974.[/reply]

 



 

[reply]Michels era inflessibile solo nel contesto olandese, ma era una femminuccia al confronto con certi tecnici italiani, tedeschi o sudamericani. Comunque, la sua immagine in qualche modo nasconde la realtà. Nel 1974 tornò in Spagna durante il torneo per condurre il Barcellona che giocava la finale della Coppa di Spagna. Grazie a un grande libro intitolato “1974: We Were The Best” pubblicato nel 2004 dal giornalista olandese Auke Kok, sappiamo che il più grande problema nel 1974 fu un rilassamento della disciplina all’interno della Nazionale olandese: dopo la vittoria contro il Brasile, non presero sul serio la Germania. Politicamente… nel ’74 erano dei rivoluzionari in campo, ma non fuori. Il più politicizzato dei giocatori olandesi è stato Ruud Gullit, con la sua amicizia con Mandela. Ma questo è stato più tardi.[/reply]

 



 

[reply]Non farei una distinzione rigida fra arte e scienza. È un po’ tutti e due. Certo, c’è un forte elemento cerebrale, ma è lì grazie a Cruyff e Michels. Van Gaal lo eredita. Cruyff disse: «Non occorre correre così tanto. Il calcio si gioca col cervello». La versione di Bergkamp invece è: «Dietro ogni azione deve esserci un pensiero».

 

L’intelligenza in Olanda è rispettata e premiata. I giocatori sono spinti a pensare in campo. Sono sempre stato affascinato da questo, perché non è la stessa cosa del “Joga Bonito” brasiliano. Non è nemmeno l’estetica argentina, tedesca o italiana. Ed è lontano anni luce dall’Inghilterra in cui la mentalità è più militaresca, e sono la passione, l’orgoglio e l’impegno a essere apprezzati per primi.[/reply]

 



 

[reply]Apprezzo la definizione di Simon Kuper, la definisce “la bellezza del passaggio”.[/reply]

 



 

[reply]Cruyff è stato la personalità più importante della parte finale del XX secolo olandese. Ma quando era vivo suscitò molta ostilità e aveva sempre discussioni/liti. Questo ora viene dimenticato. Da morto, è diventato una figura semi-religiosa. Come con tutte le religioni, assistiamo ora alle dispute sulla sua successione. Chi rappresenta più fedelmente la sua visione? Chi è l’interprete più autentico del “Cruyffismo”? È l’Ajax? Bergkamp? Bosz? È suo figlio Jordi e la Fondazione Cruyff? Pep Guardiola? La Federazione olandese? Sarà affascinante vedere come si sviluppa la sua eredità.[/reply]

 

 

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