
L’Atlético Madrid
Più che di flop stagionale dovremmo parlare di incubo. Perdere il secondo derby in finale di Champions League, e trasformare la possibilità di una rivincita storica, che avrebbe addolcito persino il ricordo della prima finale persa, nel contrario esatto. Perdere subendo gol che era qualcosa di più di una madeleine, ancora Sergio Ramos di testa, sbagliando un rigore prima di pareggiare a pochi minuti dal termine, e poi, proprio quando sarebbe il momento per la fortuna di pareggiare i conti pari per ripagare il dolore passato, no: altro dolore. Dal punto di vista dei tifosi il 2016 dell’Atlético Madrid (3° in campionato a 3 punti dal Barcellona) anche se non privo di soddisfazioni sarà purtroppo ricordato, soprattutto, come l’anno della seconda finale di Champions League persa contro il Real Madrid. Quella che ha tolto senso alla parola rivincita e che ha trasformato un evento sportivamente tanto drammatico quanto eccezionale in una strana abitudine.
(DM)
Oscar
Se il calcio trovasse la sua realizzazione nella ricerca del miglior contratto possibile, potremmo di certo mettere Oscar tra i top del 2016. Il suo passaggio allo Shangai SIPG gli frutterà quella che, in mancanza di numeri chiari, deve essere letteralmente una tonnellata di soldi. Questa scelta invece è proprio quella che lo mette tra i flop del 2016: l’idea che a soli 25 anni abbia rinunciato a trovare il suo spazio all’interno del calcio europeo è deprimente non solo per lui, ma anche per tutto il movimento.
Nel 2016 Oscar ha perso il posto nella selezione brasiliana, ha iniziato ad essere messo in discussione da Hiddink, ha litigato con Diego Costa e infine si è ritrovato ai margini del progetto tecnico di Conte. Tutti eventi spiacevoli, ma non irrimediabili. Le sue qualità non si scontrano con quelle richieste dal calcio europeo, anzi, Oscar aveva tutte le carte in regola per essere importante in qualunque club di livello, e anche se nel 3-4-3 di Conte non trova collocazione, l’idea di rinunciare così è semplicemente stupida. Come ha detto lo stesso allenatore del Chelsea riferendosi ad Oscar, «Credo che la cosa più importante per noi deve essere la passione. Va bene? La passione per il calcio. Se non ce l’hai, non va bene. Non va bene». Il 2016 è l’anno in cui abbiamo scoperto che Oscar questa passione non ce l’ha.
(MDO)
Fabio Aru
Il ciclismo è uno sport che vive di tempi lunghi per questo non è mai facile prevedere la crescita di un corridore, come avviene in altre discipline. Detto questo erano in molti a guardare al 2016 come l’anno della definitiva consacrazione di Fabio Aru, liberatosi dalle catene del gregariato, ma così non è stato. Dopo due giri d’Italia da podio e una vittoria alla Vuelta, il 2016 del sardo era tutto incentrato sul Tour de France coi gradi di capitano dell’Astana.
Investito di grandi responsabilità Aru ha fornito una prova anonima, mostrandosi ancora carente nei suoi punti deboli e mai in grado di fare la differenza in salita, quello che dovrebbe essere il suo più grande pregio. Forse Aru ha sofferto l’idea di essere uno dei favoriti nella corsa a tappe più competitiva del mondo, messo a confronto con corridori che hanno una maggiore esperienza di lui e che probabilmente oggi sono anche più forti. La crisi dell’ultima tappa gli ha tolto anche la consolazione di un sesto posto, con la speranza che in futuro non possa mai essere una consolazione per lui, relegandolo fuori dai primi 10.
La caduta di Nibali nella discesa finale della gara olimpica gli ha poi impedito anche il possibile riscatto di squadra, in una giornata in cui Aru aveva dimostrato di essere ancora una volta il miglior gregario possibile per il messinese.
Il 2016 è stato quindi un anno sicuramente negativo per Aru e per noi che pendiamo dalle labbra degli italiani che volano in salita, ma come detto il ciclismo ha tempi lunghi e spesso dai fallimenti partono le grandi carriere. Per questo sono pronto a riporre ancora grandi aspettative nel 2017 di Aru, convinto di trovarlo presto nella classifica dei migliori sportivi.
(MDO)
Valentino Rossi
Inserire Valentino Rossi nella categoria dei flop poteva essere un esercizio ambiguo. A fine 2015, per colpa soprattutto di Marc Márquez, Rossi aveva perso un’opportunità di vincere il decimo titolo nel motomondiale che molti consideravano irripetibile. Eppure alle soglie dei 37 anni si è nuovamente presentato in una versione smagliante, soprattutto dopo l’utilizzo delle alette sulla carena implementate inizialmente solo dalla Ducati. Lo stesso Márquez lo ha definito come il miglior Rossi contro cui mai avesse battagliato.
Eppure restano grandissimi rimpianti. Ad Assen il pesarese nella prima parte di gara aveva fatto il vuoto su tutti gli altri rivali del Mondiale, rimanendo in lotta per la vittoria soltanto contro le Ducati di Petrucci, Redding e Dovizioso, con il quartetto minacciato solo dal feroce rientro di Pedrosa. La bandiera rossa ha azzerato tutto, facendo ripartire la corsa e creando una gara-sprint nella quale Rossi è caduto mentre era in testa, consegnando a Márquez un regalo di 20 punti guadagnati che lo spagnolo non aveva minimamente messo in preventivo. Al Sachsenring, la gara dopo, i famosi 5 giri di ritardo nel cambio di moto disobbedendo all’ordine dai box, mentre lo stesso Márquez si ritrovava in testa e vinceva dopo essere stato uno dei primi ad effettuare il cambio di moto.

Motore in fumo, Mondiale in fumo.
A tutto questo si sono aggiunte cadute in Texas e a Motegi, anche se in Giappone il Mondiale era ormai compromesso, e la dolorosissima rottura del motore al Mugello che a Lorenzo era toccata nel warm up della domenica mattina, con molta più fortuna. Valentino Rossi forse non avrebbe vinto lo stesso il titolo, anche perché rimangono ancora troppo indigeste alcune piste come Aragón e Valencia, ma di certo ha contribuito fortemente a ritardare al 2017 le ultime, forse, speranze per il tanto sospirato decimo Mondiale.
(FP)
Fiorentina
Nel 2016 la Fiorentina ha racimolato 56 punti, finendo al settimo posto della classifica di serie A dell’anno solare. Oggettivamente un grosso rallentamento dal secondo posto occupato alla fine del 2015, figlio di ben 75 punti in 39 partite, a soli 6 punti dalla Juventus capolista di questa particolare classifica.
L’ottimo risultato del 2015 era il frutto del campionato 2014/15 terminato da Montella al quarto posto e dell’incredibile girone di andata del 2015/16 giocato alla guida di Paulo Sousa, concluso con 38 punti in 19 partite e in piena lotta scudetto.
La squadra di Sousa aveva mostrato per distacco il calcio migliore e più interessante della serie A. La Fiorentina metteva in mostra principi di gioco e sperimentazioni tattiche originali, basate principalmente, ma non esclusivamente, sul 3-4-2-1 estremamente fluido che in fase difensiva si trasformava in 4-4-1-1.
Proprio all’inizio dell’anno e in coincidenza col mercato invernale, da cui Paulo Sousa si aspettava un allungamento quantitativo di una rosa oggettivamente corta, qualcosa nel giocattolo viola si è rotto. L’allenatore non aveva fatto mistero della sua delusione e i perenni dubbi sulla sua permanenza in panchina, continuati in estate a fronte in un mercato altrettanto deludente, sembrano aver privato il tecnico e la squadra dell’entusiasmo necessario ad andare oltre ai propri limiti e continuare ad esprimere efficacemente un calcio altamente rischioso e dispendioso come quello pensato da Sousa.
La Serie A è una macchina tattica terribile e senza pietà. Tutte le squadre hanno preso le misure all’avanguardistica Fiorentina e giocato sui suoi difetti come solo le squadre italiane sanno fare. Questo ha sicuramente influito sul rendimento dei “viola” e, in effetti, il suo allenatore, tenendo comunque saldi i suoi principi di gioco, non si è mai fermato nel cercare sempre soluzioni nuove per sorprendere ancora gli avversari.
Se confrontato con il 2015 questo è certamente un anno flop per la Fiorentina, incapace di mantenersi ai livelli dell’anno precedente. Ma per rispetto del lavoro di un allenatore onesto e coraggioso è bene sottolineare come la squadra di Sousa sia stata all’avanguardia in Serie A in alcune soluzioni tattiche, una su tutte: la fluidità dei moduli nelle due fasi, adottati in seguito da tante altre squadre. La Fiorentina, al di là dei risultati e della qualità della propria rosa, sviluppa quasi sempre un calcio propositivo e tatticamente ricercato e rimane forse la più interessante squadra di Serie A per chi ama vedere in campo idee chiare e originali.
(FB)
Draymond Green
Come detto nel pezzo di ieri nella parte su Steph Curry, ci sarebbe la tentazione di inserire gli interi Golden State Warriors tra i flop dell’anno. Perché nonostante lo storico record di vittorie e l’essere andati a tanto così dal titolo, è inevitabile che la loro sconfitta da un vantaggio di 3-1 nella serie sia stato il crollo più clamoroso di tutto l’anno. Tra tutti gli Warriors, però, ce n’è uno che spicca in particolare — perché se c’è un capro espiatorio per tutti i peccati di Golden State, quello non può che essere Draymond Green. Di lui abbiamo parlato a lungo in questo pezzo, ma lasciate che vi riassuma rapidamente i termini della sua candidatura: i suoi ripetutitentativi di colpire gli avversarinelle parti basse, culminato nel pugnetto a LeBron James che gli è valso la squalifica in gara-5 delle Finali, lo hanno reso il principale colpevole della disfatta di Golden State — sebbene sia stato l’unico a giocare sopra le proprie possibilità in gara-7. Se a questo aggiungiamo l’arresto estivo dopo una zuffa in un ristorante nel Michigan, le foto delle sue parti basse spedite su Snapchat e il ruolo a dir poco marginale avuto nella spedizione olimpica di Team USA, ci sono abbastanza motivi per considerarlo il vero perdente del 2016 della NBA. Solo tenete bene in mente che tra dodici mesi potremmo ritrovarcelo tra i top, perché il ragazzo tende ad affrontare la vita come un continuo giro sulle montagne russe.
(DV)
Jeff Fisher
Il 2016 per Jeff Fisher e i suoi Rams sembrava l’anno della definitiva consacrazione, o quantomeno l’anno che avrebbe sancito l’uscita dalle sabbie mobili della mediocrità che aveva accompagnato il binomio negli ultimi 4 anni. Il trasferimento dalla piccola e innocua St.Louis alle luci della ribalta di Los Angeles, un nuovo giovane quarterback californiano draftato alla #1, un’estensione del contratto fino al 2018: c’erano tutti gli elementi per evitare l’ennesima “7-9 season”. Ma appena raggiunta la nona sconfitta stagionale (dopo appena 13 partite), e raggiunta la matematicità dell’ennesima stagione da 7-9 (o ben peggio come si stava avviando ad essere), la spada di Damocle sulla sua testa è caduta.
La discutibile scelta di far accomodare in panchina la prima scelta assoluta per metà stagione e la completa involuzione di quel poco che aveva funzionato offensivamente nel 2015 (con un Todd Gurley completamente asettico) sono stati, insieme alla carenza di risultati, i due punti focali per suo licenziamento.
Fisher lascia così i Rams dopo 5 stagioni negative, dopo aver raccolto appena 31 vittorie e dopo aver raggiunto Dan Reeves come allenatore con più sconfitte della storia della NFL (centosessantacinque). E deve ringraziare i Rams per il licenziamento anticipato: gli hanno evitato il primato solitario.
(MT)
Nick Kyrgios
In realtà attualmente Nick Kyrgios ha il miglior ranking della sua carriera. È tredicesimo della classifica ATP e nel 2016 ha vinto i suoi primi tre titoli: Marsiglia, Atlanta e Tokyo. Il punto è che dovremmo accettare certe vittorie di Kyrgios come una conseguenza naturale del talento più debordante del circuito e tutte le sue sconfitte - a parte rare eccezioni (Murray a Wimbledon) - come occasioni perse. Stiamo tutti aspettando che Kyrgios risolva i suoi problemi di mitomania, bipolarismo e arroganza, e il 2016 è stato l’anno in cui, in questo senso, ha toccato il fondo. È l’anno delle tre racchette spaccate consecutivamente; è l’anno dello sbrocco contro la musica agli Australian Open contro Berdych. Soprattutto è l’anno in cui ha mancato di rispetto al pubblico, al suo avversario e al tennis in generale nell’incontro con Mischa Zverev:
Dopo questa incredibile sceneggiata Kyrgios è stato squalificato per otto settimane, finendo in anticipo la stagione. Ha dichiarato che si servirà delle cure di uno psicologo per rimettersi a posto.
(EA)
Jorge Mendes
Per la santa trinità calcistica lusitana Mourinho-Cristiano Ronaldo-Mendes (rispettivamente padre, figlio e spirito santo) il 2016 potrebbe essere stato l’anno del canto del cigno. È vero: il Portogallo ha vinto gli Europei per la prima volta nella sua storia, CR7 è tornato a mettere le sue mani sul Pallone d’Oro e Mourinho, alla fine, rimane l’allenatore di una delle squadre più importanti al mondo.
Ma se ci spostiamo dall’attualità alla futuribilità, questo affresco rappresenta davvero un successo o nasconde in realtà un sorriso malinconico à-la-Monna Lisa? Non possiamo avere certezze oggi, ovviamente, ma se Mourinho e Cristiano Ronaldo avessero davvero iniziato la discesa verso il declino sportivo cosa ne rimarrebbe dello spirito santo Mendes?
Già oggi l’agente portoghese non se la passa benissimo. Mendes nell’immaginario collettivo è passato da essere il più vincente, ricco e invidiato agente calcistico ad essere un’entità oscura, losca e poco raccomandabile. Football Leaks ha messo ancora di più in luce la sua torbida relazione con le TPO e col concetto di elusione fiscale, che sono state il vero e proprio bersaglio della indignazione calcistica globale dopo lo scandalo Allardyce.
Sportivamente, anche al di là delle situazioni Mourinho e CR7, Mendes sembra non riuscire più a trasformare tutto ciò che tocca in oro: James Rodriguez è in rotta di collisione da mesi con il Real, Di Maria non riesce più a ritrovare se stesso da quando ha abbandonato la Casa Blanca, e anche le stelline, Renato Sanches e Bernardo Silva, non sono finite in rampa di lancio come ci si aspettava. Mendes in estate è passato dalla mirabolante possibilità di acquistare il Milan alla triste realtà di controllare il mercato del Middlesbrough, il tutto condito con alcune operazioni surreali come quella che ha portato Negredo in Premier.
La trinità non esiste senza unità. Venendo meno padre e figlio, anche lo spirito santo potrebbe presto dissolversi.
(DS)
Geoffrey Kondogbia
«Ah, ma è come Kondogbia!». Può darsi che in fondo il 2016 sia solo l’anno in cui sono diventato vecchio, e ho iniziato a scambiare le metafore pallonare per raffinata forma di umorismo, ma quando un amico, qualche giorno fa, mi ha introdotto il concetto di «credito deteriorato», io non ho potuto fare a meno di figurarmi il numero 7 in maglia neroazzurra. Non che fosse un concetto particolarmente complesso, ma è un concetto che torna utile per spiegare l’unicità dell’operazione Kondogbia, ciò che la rende autenticamente speciale.
I crediti deteriorati sono crediti che le banche non riescono a liquidare parzialmente o completamente per insolvenza del debitore, e rimangono lì ad appesantire il bilancio fin quando un investitore decide di acquistare quel credito, indicativamente per una cifra tra il 20% e il 40% del valore lordo. Molte banche conservano a bilancio questi crediti, di conseguenza la Banca d’Italia registra una presenza di crediti deteriorati che è quattro, cinque volte superiore rispetto alle altre potenze europee.

Nel 2016, Kondogbia ha giocato 22 partite, e in queste l’Inter ha raccolto 34 punti, ovvero una media inferiore dell’1,86% (poco, a dire il vero) alla media punti complessiva nell’anno solare, 61 punti in 39 partite. Ha ricoperto tutti i ruoli possibili, mezzala sinistra, mezzala destra, vertice basso, all’interno di un centrocampo a tre o di un centrocampo a due. Sicuramente è parso «un giocatore fuori posto, nella squadra e nel campionato sbagliato», ma le sue caratteristiche peculiari, ovvero la protezione della palla, praticamente l’unico fondamentale del gioco del calcio in cui eccelle, non sono sufficienti a spiegare la sensazione di amarezza che si prova nel vedergli passare il pallone, che dai suoi piedi esce sempre un po’ più sporco, un po’ più lento, un po’ più impreciso. È una sensazione simile a quella che si prova quando deve difendere in campo aperto, quando deve coprire una linea di passaggio, quando deve attaccare uno spazio vuoto.
Con ogni probabilità, nel 2017 Kondogbia rimarrà all’Inter. Io credo possa rimanerci anche nel 2018. Il quadriennale che ha firmato è vincolante: all’Inter non conviene cederlo per non andare incontro a minusvalenza certa, al mercato estero non conviene accettare le cifre dell’Inter finché Kondogbia non dimostrerà di poter valere l’investimento. È il differenziale domanda-offerta che provavano a spiegarmi, quello che ha intasato il sistema bancario italiano contemporaneamente alla rosa dell’Inter (di quelli che vale la pena cedere, quindi certamente non Icardi e Brozovic, quanti in questo momento hanno un vero mercato?). In questo momento, Kondogbia trova più spazio sui quotidiani per le indiscrezioni comiche saltate fuori da Football Leaks che nelle rotazioni del centrocampo di Pioli: quando si dice che le etichette ti si incollano addosso, ecco, a Kondogbia è rimasto incollato il cartellino del prezzo.
(FL)
Ronda Rousey
In realtà il 2016 di Ronda Rousey è ancora il 2015 di Ronda Rousey, quello della prima sconfitta in carriera, dei pensieri più oscuri che un essere umano possa avere e della cattiveria di internet che si è abbattuta su di lei. Ronda in realtà combatterà il 30 dicembre contro Amanda Nunes e potrebbe uscire all’ultimo momento da questa classifica riprendendosi la sua cintura. Ma il 2016 passato nell’ombra a covare rancore e allenarsi - a giudicare dal suo atteggiamento il giorno della presenza stampa dell’incontro con Nunes, quando è scappata senza rilasciare neanche l’intervista di rito, non è chiaro quale delle due cose abbia fatto con più passione - resterà come una macchia scura sul suo passato non solo sportivo. L’UFC tifa per lei (nei promo Nunes è praticamente assente) ma tifare veramente per lei significa augurarle un 2017 anche in caso di sconfitta.
(DM)
Di María
Il semplice fatto che un giocatore con il talento per essere costantemente tra i primi 20 giocatori al mondo non sia entrato neanche nella lista preliminare del Pallone d’Oro 2016, premio mainstream per eccellenza, ci dice in modo abbastanza chiaro che l’anno di Di María non sia stato positivo.
Più che il girone d’andata della Ligue 1 chiuso incredibilmente al terzo posto, il motivo per cui Di María è in questa classifica è che proprio quest’anno che Ibrahimovic ha tolto le tende liberando lo spot di leader tecnico e mentale della squadra, lasciando a Di María tutta la libertà per poter tornare ad essere il Di María di Madrid, lui ha scelto di limitare al minimo il numero di volte in cui gioca sul serio dimostrandosi incapace di prendersi la leadership di una squadra d’alto livello.
Quel giocatore dinamico, creativo e tecnico che aveva fatto innamorare l’Europa solo tre anni fa con la maglia del Real Madrid e il cui fallimento a Manchester poteva essere ascritto alla gestione di Van Gaal, ora che ha tutte le libertà del mondo per dominare, si concede con il contagocce. Nel 2016 ha alternato partite maestose come quella contro il Chelsea agli ottavi di Champions League a partite scialbe da ragioniere della fascia come ai quarti contro un Manchester City, o ai gironi contro l’Arsenal, o contro il Monaco in campionato. E se non riesce ad essere leader con il PSG, non riesce neanche a fare da spalla in Nazionale: come in finale di Copa América, dove ha lasciato Messi in balia della difesa del Cile prima di essere sostituito all’ora di gioco.
(DVM)
Il Newcastle

Ad inizio 2015 il calciomercato del Newcastle era stato, come in tutti gli ultimi anni, tanto pomposo quanto senza costrutto. Erano arrivati Aleksandar Mitrovic, Georginio Winijadum e Chancel Mbemba per una cifra complessiva di 36 milioni di sterline. A questi si sono aggiunti, a gennaio, con la squadra già nel baratro della classifica, Jonjo Shelvey, Henry Saivet e Andros Townsend, per altri 29 milioni. Nel mezzo il licenziamento di Steve McLaren per Rafa Benitez, che con dieci partite rimanenti non è riuscito ad evitare la retrocessione più cara della storia della Premier League. Quest’anno, con la preparazione estiva a disposizione, Benitez - a cui quest’anno il fantasma del natale passato chiederà conto della sua scelta - è riuscito a rimettere la squadra in asse e ora il Newcastle è primo in Championship. Ma non basta ad attenuare il senso di catastrofe della scorsa stagione, e ad evitare al Newcastle di finire in questa classifica.
(EA)
I Saint Louis Cardinals
È stato un 2016 da dimenticare per i Saint Louis Cardinals. La squadra del Missouri è finita fuori dai playoff dell’Mlb nonostante abbia ottenuto un record vincente (86 vittorie e 76 sconfitte) e abbia chiuso al secondo posto nella Nl Central, dietro solo agli inarrivabili Cubs. Ma per un team che ha raggiunto i playoff 5 volte nelle precedenti 5 stagioni (addirittura 12 volte nelle ultime 16 stagioni), con un titolo (2011), una sconfitta in finale (2013) ed un record di 100 partite vinte soltanto lo scorso anno, il pollice verso è inevitabile.
Sul banco degli imputati è finito il reparto lanciatori, artefice nelle scorse stagioni dei successi dei Cardinals, ma che quest’anno ha collezionato a livello di squadra una Era di 4,08 (12esimo posto dell’Mlb); peggio sono andati i partenti che hanno racimolato una poco invidiabile Era di 4,33 (13esimo posto Mlb). Dati impietosi se confrontati con la Era del 2015: 2,94 di squadra e 2,99 dei partenti. Storicamente la forza dei Cardinals risiede nel cosiddetto farm-system, ovvero nella capacità di tirare fuori giovani talenti dalle squadre delle leghe minori, capaci di imporsi tra i big dell’Mlb. Quest’anno però non è andata esattamente così. Le delusioni maggiori sono arrivate proprio da due potenziali stelle nascenti come Kolten Wong e Randall Grichuk. Ma l’età è dalla loro, si rifaranno presto, magari già dal 2017.
(NP)
Maria Sharapova
A inizio marzo Maria Sharapova è dovuta discendere fra noi umani per ammettere di aver fatto uso di sostanze che la WADA aveva etichettato come “dopanti”. Il Meldonium, il farmaco che è stato al centro del mega scandalo che ha coinvolto la federazione russa. Lo ha fatto cercando di sporcarsi il meno possibile, scegliendo l’equilibrio migliore tra leggera mortificazione e aristocratico disincanto: «So che molti di voi pensavano che oggi avrei annunciato il mio ritiro, ma se mai lo avessi fatto non sarebbe certo stato in un hotel a Los Angeles downtown, con questo tappeto orribile». Ad ottobre la squalifica ha preso la sua forma definitiva: un anno e tre mesi, con possibile ritorno in campo ad aprile 2017. La russa ha definito il giorno della notizia: “il più bello della sua vita”.
Maria Sharapova ad inizio 2016 aveva perso l’ennesima sfida con Serena Williams, portando il bilancio a 2 vittorie e 19 sconfitte. Non vince uno slam da più di due anni e ne ha vinti appena tre negli ultimi dieci. Nel 2016 ha perso però anche parte di quella grazia ultraterrena che aveva fatto sembrare le sue sconfitte in un certo senso colpa della volgarità del mondo.
(EA)
Manolo Gabbiadini
Nel 2016 la nostra percezione su Gabbiadini si è completamente ribaltata. Fino a dodici mesi fa era considerato semplicemente molto sfortunato: la migliore riserva di lusso per il miglior centravanti del nostro campionato. Capace di tenere una media gol irreale nelle finestre di partita che il Napoli gli concedeva. Al punto che sembrava potesse essere lui, in fondo, la migliore garanzia per la sostituzione di Higuain: dopo essersi lavorato il posto per due anni doveva essere il suo momento. Ma quella che sembrava essere una bella opportunità si è trasformata nella più luminosa prova della sua inadeguatezza, esplosa in due momenti:
Quando il Napoli ha deciso di investire più di 30 milioni per Milik, declassando di nuovo Gabbiadini a fare la riserva di un centravanti persino più giovane di lui.
Quando, dopo l’infortunio di Milik, Gabbiadini ha giocato così male da portare Sarri a scegliere di schierare addirittura Mertens da falso nove.

Uno dei rari fotogrammi di un Gabbiadini sorridente.
A 24 anni Gabbiadini era stato acquistato dal Napoli per 13 milioni di euro. Due mesi dopo ha esordito in una partita ufficiale con la Nazionale. Due anni dopo non si capisce neanche che giocatore è e in che cosa potrebbe essere utile. Troppo bravo nei fondamentali calcistici per considerarlo davvero scarso; troppo inadeguato nei movimenti senza palla per poter giocare da unico centravanti. Anche nei momenti migliori della sua carriera, Gabbiadini sta al mondo con quest’aria così seria da arrivare al confine con la vera e propria depressione. Un tipo di presenza particolarmente stonata nel contesto napoletano, e che in questo momento amplifica la complessiva negatività che lo circonda. Guardate se questa non è la faccia di uno che ha perso il 2016. Nel 2017 il Napoli proverà a venderlo, e lui proverà a tornare ad essere un giocatore di calcio: non dovrebbe teoricamente essere difficile per uno che calcia la palla in questo modo.
(EA)
L’Inghilterra
Visto che parliamo dell’estate in cui il Regno Unito ha votato per la Brexit, diciamo che ovviamente l’uscita dagli Europei della nazionale inglese ha avuto una magnitudo di choc collettivo decisamente bassa. Contestualizzando l'eliminazione, però, siamo di fronte alla delusione perfetta di Euro16: una nazionale arrivata sul più classico treno dell’hype che deraglia già alla prima partita in uno scialbo pareggio contro una Russia alquanto mediocre, che passa il turno di puro talento e che poi si schianta in modo definitivo uscendo già agli ottavi contro l’Islanda. La versione giovane, talentuosa e ambiziosa della nazionale inglese pronta a stupire l’Europa che esce contro una squadra poi stritolata dalla Francia nel turno successivo. E lo fa nel modo peggiore: mostrandosi inadeguata dal punto di vista tattico e incapace di esprimere il proprio talento tecnico che tanto aveva fatto fantasticare in sede di pronostici. Novanta minuti che sono stati un breve riassunto della storia recente della nazionale inglese e in cui il CT Hodgson vede la propria carriera ad alti livelli arrivare al capolinea.
Di lui Emiliano Battazzi scriveva così: “Roy Hodgson aveva deciso di puntare sul blocco Tottenham (ben 5 titolari), sfruttando le capacità di Pochettino nel far crescere i giovani: ma poi anche un gruppo del genere va inserito in un contesto, e quello della Nazionale inglese era come una montagna di gelatina. I giovani si sono dissolti, il caos ha trionfato e il gol dell’unica vittoria (contro il Galles) sembra da manuale del rugby. L’uso di Rooney da mezzala-regista grida ancora vendetta, con le sue salide lavolpiane disperate e i suoi passaggi orizzontali già derisi da Mourinho. All’Inghilterra non mancava nulla a livello offensivo (qualità tra le linee, velocità, profondità, gol) ed è sembrato mancare tutto.”
(DVM)
Paul Pogba
La redazione ha scelto che Pogba quest’anno deve far parte dei flop. Lo so, lo so, lo trovo scandaloso anche io. Ma da direttore di quella che considero un’utopia democratica non posso che accettare il giudizio del popolo e assumermi le mie responsabilità. Che consistono nello scrivere questo contributo come forma di compensazione per le parole di zucchero che gli abbiamo dedicato più volte nel corso dell’anno.
Si può definire flop un calciatore determinante nella vittoria del 5° Scudetto consecutivo della propria squadra, che arriva in finale di un Europeo e che poi viene pagato più di 100 milioni dalla stessa squadra che qualche anno prima lo aveva snobbato? Possiamo definirlo flop perché i primi mesi a Manchester si sono rivelati difficili (per chi non lo sono stati; e poi per lui meno che per altri se si guardano i numeri )?
Pogba può essere considerato uno dei flop del 2016 solo se gli si rimprovera di non essersi trasformato in qualcosa di diverso, magari proprio sulla base dei 100 milioni che è stato pagato, di non essersi trasformato in, che ne so, Steven Gerrard nel suo momento migliore.
Ecco, forse il motivo per cui personalmente mi sento di poter inserire Pogba nei flop è che quest’anno è diventato perfettamente chiaro, grazie a lui, che il valore di un calciatore non è più solo quello che è capace di esprimere in campo, e Pogba non è solo il simbolo dell’importanza del marketing calcistico, ma è l’emanazione stessa di una generazione talmente a suo agio con il capitalismo da non farsi neanche una domanda su quale sia il suo ruolo nel mondo. Pogba si esprime in campo e nelle pubblicità, Pogba con la maglia del Manchester - almeno per me - è una bellissima statua alla fine della comunicazione sincera tra sportivi e pubblico. Non è colpa sua, certo, ma anche le statue abbattute alla fine dei regimi non hanno fatto niente di male.
(DM)
Tyson Fury
Sembra passato molto più di un anno da quando Tyson Fury ha vinto il titolo mondiale dei pesi massimi nell’incontro tenutosi il 28 novembre del 2015 a Düsseldorf contro Wladimir Klitschko. Il fatto che fosse arrivato finalista tra le migliori personalità sportive dell’anno scelte dalla BBC sembra oggi quasi una farsa, visto tutto quello che gli è successo nel 2016. Qui una lista molto sintetica del tornado abbattutosi sulla vita sportiva di Fury:
- 8 aprile: viene ufficialmente annunciato il rematch contro Klitschko, dopo che la prima finale era stata annullata per inadempienze contrattuali.
- 28 aprile: Fury annuncia di volersi trasferire dall’Inghilterra agli Stati Uniti dopo il rematch, dove “le persone ammirano il successo”.
- 13 maggio: viene pubblicato un video in cui Fury fa commenti transfobici, razzisti e antisemiti. La CAA (The Campaign Against Antisemitism) chiede che venga squalificato a vita.
- 24 giugno: l’agenzia britannica anti-doping accusa Fury e suo cugino di aver assunto sostanze proibite.
- 23 settembre: il rematch con Klitschko viene posticipato una seconda volta.
- 30 settembre: Fury viene trovato positivo alla cocaina.
- 12 ottobre: Fury rinuncia ai suoi titoli per iniziare un percorso di disintossicazione, dichiara di essere diventato dipendente per curare la depressione.
- 13 ottobre: la British Boxing Board of Control decide di ritirare a Fury la licenza da pugile.
(DS)
Il Valencia
Nell’anno solare 2016 il Valencia ha ottenuto solamente 34 punti in 36 giornate di campionato: un ritmo da retrocessione. Non c’è quasi niente che si possa davvero paragonare al disastro valenciano del 2016: come se Brexit e Trump fossero accaduti nello stesso posto. Un crollo che ci confonde, perché nasce da grandi premesse: nel maggio 2014 il club era stato salvato dalla bancarotta, grazie al magnate singaporiano Peter Lim. La pallina ha iniziato a rotolare sul piano inclinato con l’esonero di Nuno, a fine 2015, e il successivo ingaggio di Neville: il peggior allenatore dell’anno, senza dubbio alcuno. L’inglese è riuscito nell’impresa di umiliarsi, umiliare la squadra, distruggere la tifoseria e mettere in ridicolo anche il proprietario Lim, suo socio in affari.
A livello sportivo, i fallimenti del 2016 sono impressionanti: eliminazione agli ottavi di finale di Europa League al Mestalla per colpa di un gol di Aduriz a 15 minuti dalla fine, quando la rimonta sull’Athletic era stata completata; sconfitta nel derby contro il Levante, squadra messa persino peggio e infatti retrocessa da ultima in classifica; eliminazione dalla Coppa del Re in semifinale, dopo la sconfitta per 7-0 contro il Barça. L’incubo è proseguito anche senza partite: l’ennesimo mercato fatto di molti, troppi movimenti di giocatori, dovuti alla gestione dietro le quinte di Jorge Mendes; e la delusione di veder partire un idolo di casa, Paco Alcácer, cresciuto proprio nella cantera valenciana, verso Barcellona (insieme al campione d’Europa André Gomes). Con la cessione di Mustafi all’Arsenal, praticamente il Valencia è stato smembrato, e gli arrivi di Mangala, Garay, Nani e Munir non hanno suscitato grandi entusiasmi. Anche perché l’allenatore che aveva sostituito Neville pro-tempore, Pako Ayestarán, era stato confermato senza apparenti meriti.
Il bubbone è scoppiato subito: quattro sconfitte nelle prime quattro giornate di Liga, esonero dell’allenatore, rimpiazzato prima da Voro e poi da Cesare Prandelli, che per volare da Peter Lim a Singapore ha dovuto posticipare il suo esordio sulla panchina del Mestalla. Prandelli per ora ha raccolto 6 punti in 8 partite, e sembra anche molto preoccupato dalla situazione: le sue conferenze stampa stanno già diventando leggendarie e riecheggiano quelle del Trap a Monaco di Baviera. Da terz’ultima in classifica, la retrocessione, anche se folle, comincia ad essere una prospettiva con cui fare i conti. Il 2016 del Valencia ci ricorda il disastro di un club gestito da un agente, per quanto potente (forse il più potente), in cui gli interessi del club e dei tifosi arrivano per ultimi: un’umiliazione ingiusta per una squadra di così grande tradizione.
(EB)
Genzebe Dibaba
Doveva essere la stagione della consacrazione, in cui diventare il volto più importante dell’atletica femminile. E invece, per Genzebe Dibaba, il 2016 è stato un anno nero. Sembrava iniziato bene, con una stagione indoor in cui aveva subito messo a segno un primato mondiale indoor (4’13’’31, battuto di quasi quattro secondi il 4’17’’14 della romena Dointa Melinte che resisteva da 26 anni) e un oro al coperto ai Mondiali di Portland nei 3.000. Poi è iniziata la stagione outdoor, da lì, sono iniziati i problemi. Il più grosso, di natura giudiziaria, non riguarda tanto lei quanto il suo allenatore, il somalo Jama Aden, arrestato a giugno in Catalogna perché in possesso di epo, steroidi e siringhe.

Dibaba ha gareggiato poco e, a Pechino, ha rinunciato fin dall’inizio al sogno di doppiare 1.500 e 5.000, impresa che le avrebbe permesso di entrare nella storia dalla porta principale, come la cugina Derartu Tulu e la sorella maggiore Tirunesh Dibaba. Ha deciso di concentrarsi solo sui 1.500 e ha comunque perso. In pista, a Rio, gli spettatori hanno visto il fantasma della Genzebe Dibaba ammirata nel 2015. L’etiope ha chiuso seconda, sconfitta dalla kenyana Faith Chepngetich Kipyegon. A fine stagione, al meeting di Rovereto, ha cercato di conquistare il record del miglio. Ha chiuso in 4’14’’30, a quasi due secondi dal suo obiettivo. È secondo miglior crono di sempre su questa distanza, ma non basta a risollevare un’annata nera. La Genzebe Dibaba del 2015 faceva un record mondiale dei 1.500 considerato impossibile, puntava i 5.000 e annunciava di volersi preparare anche per battere il primato degli 800, quell’1’53’’28 di Jarmila Kratochvilova che rappresenta il record più vecchio dell’atletica. Quella di un anno dopo ha rimesso un bel po’ di sogni nel cassetto, è finita sui giornali soprattutto per i fatti di cronaca legati al suo allenatore e guarda ancora dal basso verso l’alto sua sorella.
Tra le due Genzebe viste nell’ultimo biennio c’è uno spartiacque, almeno a livello simbolico: è quella finale dei 5.000 ai Mondiali di Pechino, in cui la nemica giurata Almaz Ayana l’ha colta di sorpresa e, attaccandola da lontano, l’ha sconfitta. Relegandola al ruolo di numero due.
(RR)
Wayne Rooney
Siamo abituati a un disfacimento progressivo delle abilità prima fisiche, poi tecniche, di un calciatore che invecchia. Ma siamo anche abituati a spostare sempre più in là il limite temporale della fine di una carriera agonistica. Il decadimento delle prestazioni di Wayne Rooney invece è stato deciso e precoce. Wayne ha compiuto 31 anni appena a fine ottobre, ma già da un anno si ha la netta sensazione che le sue stagioni migliori siano ormai alle spalle. A Rooney manca ormai da tempo lo spunto, la brillantezza sotto porta che lo contraddistingueva. Via via ha arretrato il suo raggio d’azione, il centrocampo è diventato la sua comfort zone, prima per le necessità altrui (can you hear me, Louis?) poi per le sue.
Mourinho, stretto tra la morsa delle promesse che non avrebbe potuto mantenere (“Con me non sarà mai né un ‘8’ e nemmeno un ‘10’, Rooney sarà sempre numero 9”), è stato costretto a ridurlo al ruolo di capitano non-giocatore. E il record di segnature all-time di Bobby Charlton in maglia rossa, con un solo gol mancante per eguagliarlo, da traguardo di prestigio per Rooney si è trasformato in spada di Damocle. Il tempo a sua disposizione è ridottissimo: il 2017 potrebbe vederlo protagonista di un campionato meno competitivo, ma adeguato alle sue attuali possibilità.
(AG)
La nazionale italiana di atletica
L’importante è partecipare.
E dopo aver analizzato gli aspetti positivi, passiamo a quelli negativi del 2016 dell’atletica italiana. Al 21 giugno i colori azzurri potevano sperare in due medaglie pregiate (diciamo anche tre) da conquistare ai Giochi di Rio. La squalifica di Alex Schwazer prima e l’infortunio di Gianmarco Tamberi poi le hanno azzerate nel giro di venti giorni. Ci siamo ritrovati così a bocca asciutta, come al Mondiale cinese dello scorso anno. A scanso di equivoci vanno considerati deficitari anche i medaglieri dei Mondiali indor di Portland (con l’unica soddisfazione del solito Tamberi) e il nono posto nel medagliere degli Europei di Amsterdam.
Zero titoli a Rio, come non accadeva da Melbourne 1956, dopo un bronzo striminzito a Londra, vuol dire fallimento di un intero movimento che, cosa forse più grave, non dà segnali di riscossa. In un paese che ha ormai privatizzato quasi tutto (sulla carta), l’atletica rimane in mano allo Stato, delegata ai corpi militari che non sanno creare un sistema vincente. Il centro federale rimane uno, quello di Formia, ma poi i nostri atleti si allenano su 38 campi diversi sparsi in 12 regioni. Molto spesso sono in mano ad allenatori scelti da loro stessi, quasi sempre i genitori. Un modo di lavorare che non per forza rappresenta una scelta sbagliata, ma che rappresenta plasticamente la mancanza di progettualità, e in ogni caso l’esempio della gestione scellerata del talento Andrew Howe grida ancora vendetta.
Doveva essere l’inizio di una splendida carriera, ne è stato lo zenit.
Più in generale non funziona una gestione delle risorse umane e di capitali priva di razionalità. Sulla strada per Rio sono stati dilapidati quasi 3 milioni di euro di fondi pubblici (fonte Corriere della Sera) per stage tra il Sudafrica e la California, mentre a Gemona si è costruito Van Niekerk e Lignano Sabbiadoro ha fatto volare i giamaicani. I soldi insomma c’erano e si sono spesi, ma i risultati non sono arrivati.
Ora ripartiamo per il prossimo quadriennio, tutti sulle spalle di Gimbo che sogna ogni notte Tokyo, ma Tokyo è lontanissima anche se sei un aspirante fuoriclasse di 24 anni. Ripartiamo da qualche ottimo giovane, ma soprattutto ripartiamo da Alfio Giomi. Il presidente federale che ha governato lo sfacelo del quadriennio passato e che è stato rieletto con oltre il 60% dei voti.
(GC)
Roger Federer
La carriera di Roger Federer ha avuto una coda lunga. Non c’è stato un momento drammatico, una grave sconfitta, un terribile infortunio, che ne ha decretato alla fine. Non assomiglia a un inverno improvviso ma a un lungo autunno in cui pezzi della sua straordinarietà divina si staccano da lui come foglie dagli alberi, lasciandolo un po’ più nudo e terreno. Una parabola stagnante triste ma non priva di momenti di luce purissimi. Su cui ha più volte scritto Brian Phillips, e che nel 2016 ha conosciuto una flessione più netta e riconoscibile.
Ad inizio anno la programmazione appariva più spoglia del solito, a sancire l’inizio della coscienza della propria limitatezza, e alla fine è stata praticamente ridotta all’osso dai problemi fisici. Nel 2015 lo svizzero aveva raggiunto una luminosissima sintesi hegeliana del suo gioco offensivo, espressa soprattutto nella partita contro Murray a Wimbledon. Nel 2016 l’oscurità ha quasi completamente sovrastato i pochi, remoti momenti di luce, mettendoci di fronte alla sua mortalità. Agli Australian Open ha perso in semifinale contro Djokovic, portando il bilancio 23 a 22 in favore del serbo. Il suo ritiro al Roland Garros è stato il primo da un Grande Slam dopo 65 partecipazioni consecutive. Per la prima volta dal 2000 si è presentato a Wimbledon senza aver vinto un titolo. Il ritiro dalle Olimpiadi si porta dietro il ritiro dal resto della stagione, chiusa con zero titoli vinti.
Potrebbe però non essere finita. Se da una parte il corpo del Re è sempre più fragile, dall’altra la sua sopravvivenza nel circuito è garantita dalla sovrannaturale naturalezza dei suoi movimenti in campo, una dote che non perderà mai e che gli consente di economizzare al massimo le energie fisiche. Per questo ha dichiarato che al ritiro non ci pensa nemmeno, che è ancora “affamato”, e per questo tutti continuano ad aspettare il suo definitivo, struggente canto del cigno. Lo aspettavamo a Wimbledon 2016, dove ha giocato un grande torneo, pur senza andare oltre i propri attuali limiti, lo aspetteremo soprattutto a Wimbledon 2017, dove si pensa possa finalmente sfruttare un calo di tensione di Novak Djokovic. Nella cornice di annate di transizione, il pubblico del tennis si augura che ci possa ancora essere spazio per un tributo finale al tennista.
(EA)
Sam Allardyce
Quella di Allardyce è stata la panchina più breve e disastrosa nella storia della nazionale inglese. Big Sam è rimasto in carica per appena 67 giorni, un periodo di tempo comunque sufficiente per:
- Sporcare l’immagine della Premier League con accuse di corruzione.
- Far sprofondare in una crisi ancora più profonda la nazionale inglese, che già veniva da un Europeo disastroso.
- Vincere a stento la prima partita di qualificazione ai Mondiali del 2018 contro la Slovacchia, la sua unica partita ufficiale da allenatore dell’Inghilterra.
Per sua fortuna, la federazione inglese ha gestito magistralmente il caso e adesso quello che poteva essere il più grande scandalo della storia del calcio inglese sembra rientrato. La nazionale ha trovato il suo erede in Southgate e anche lo stesso Allardyce sembra addirittura già pronto a tornare in pista, visto che, a quanto pare, sembra essere lui l’allenatore scelto dal Crystal Palace per sostituire Alan Pardew. Forse una punizione un po’ troppo mite dalla storia per Big Sam, visto il disastro che aveva lasciato in dote.
(DS)
Federica Pellegrini
Non è semplice parlare di flop di fronte ad una nuotatrice che a 28 anni ha disputato la sua quarta Olimpiade, giungendo ai piedi del podio nella gara che l’ha resa la Divina delle piscine e della quale ancora detiene il record mondiale. Eppure Federica Pellegrini in questo 2016 ha fallito.
Ha fallito perché ha fatto la sua gara migliore al Trofeo Sette Colli, poco più di un mese prima dei Giochi. Secondo miglior crono stagionale sulle quattro vasche (1’54’’55) e addirittura record italiano sui 100 stile libero (53’’18). Ha fallito perché poi a Rio, nella finale è andata mezzo secondo più piano, risultando più lenta persino rispetto alla batteria. Segno che il suo corpo aveva ancora qualcosa da dare, ma è stata la testa a non funzionare a dovere.
La lettura della gara, prima ancora che la gara, è stata deficitaria.
Probabilmente anche l’annuncio di voler arrivare a Tokyo 2020 si rivelerà un errore, perché parliamo di una nuotatrice che ha vissuto i suoi anni migliori a cavallo tra il 2008 e il 2009, nei quali ha trionfato a Olimpiadi e Mondiali e fatto segnare i suoi record più grandi. Poi il mondo del nuoto è andato avanti, la narrazione italiana di esso no. Oggi le coetanee di Federica fanno altro da tempo, e coloro che stanno in vasca al suo fianco molto probabilmente tenevano il suo poster appeso in camera. Tirare a campare non si addice a chi ha visto l’Olimpo.
Ormai siamo fermi al racconto dei suoi amorazzi, delle sue ospitate nel mondo dello spettacolo televisivo, ai red carpet, alle sue passioni per scarpe e vestiti, alle copertine dei rotocalchi. Pellegrini dovrebbe finalmente scegliere tra l’immortalità che le imprese sportive regalano e il continuo presente di quella risacca umana che è il gossip.
(GC)
La Cina alle Olimpiadi di Rio
“A pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”, diceva lo statista. La Cina alle Olimpiadi di Rio ha deluso, prima di tutti i suoi stessi cittadini che hanno mugugnato sui social network dell’Impero (non c’è più religione, si fa per dire). Persino l’account Twitter di China News si è scatenato: «Ci supera negli ori persino la Gran Bretagna», la stessa che qualche tempo prima veniva definita «Un vecchio impero in declino».
I fatto dicono che quelli brasiliani sono stati i primi Giochi dove non è arrivato neppure un titolo individuale nella ginnastica, solo argenti e bronzi. L’atletica ha regalato appena sei podi, unico punto fermo il tennistavolo e ci mancherebbe. I freddi numeri parlano di 70 podi raggiunti (26 ori), terzo posto nel medagliere dietro ai sudditi di Sua Maestà e gli inarrivabili Usa. Un calo drastico rispetto a otto anni fa, quando nei giochi di casa i cinesi si assicurarono 100 medaglie tonde con il pazzesco risultato di 51 ori, prima e unica volta in vetta alla classifica finale. A Londra i titoli furono 39 e i podi 89.
Il dragone in ritirata se da una parte mostra una generazione di sportivi esplosi nel 2008, ancora competitivi quattro anni dopo, ma privi di ricambio oggi, dall’altra fa crescere il sospetto che l’aver puntato molto sullo sport prima di ospitare i Giochi non si trattasse soltanto di investimenti in infrastrutture e squadre. D’altronde la Cina non è nuova alla creazione in vitro di atleti e interi movimenti sportivi nati e finiti nel giro di qualche stagione (ricordate i mezzofondisti nutriti a zuppa di tartaruga?).

Alcuni media di Stato hanno detto che è si tratta di un piano che prevede un ricambio generazionale e una riforma del modo in cui lo sport è gestito in Cina. Altri commentatori sempre cinesi hanno parlato della sconfitta come di una componente importante dello sport, utile a far crescere il movimento sportivo cinese. Insomma va tutto bene nel celeste impero. Da queste parti ci teniamo il dubbio e diamo appuntamento a Tokyo 2020.
(GC)
Marc Wilmots
La fortuna aiuta gli audaci, ma spesso la sfortuna si accanisce con i più deboli. Marc Wilmots ha avuto l’opportunità di allenare la nazionale belga della generazione d’oro e, se il mondiale in Brasile poteva essere considerato una tappa di avvicinamento di un gruppo di giovani calciatori di talento verso la piena maturità, l’Europeo in Francia era davvero la prima occasione per vincere qualcosa o comunque provare seriamente a farlo. La prima sfortuna per l’inadeguato Wilmots è stata quella di incontrare subito, alla partita di esordio, l’Italia di Antonio Conte, su cui pochi avrebbero scommesso, ma in realtà, non troppo sorprendentemente, la migliore nazionale del continente per organizzazione tattica. La peggiore squadra possibile per mettere in evidenza tutte le carenze tattiche del Belgio e spostare la partita dal campo del talento individuale a quello della strategia. La latente convinzione che il Belgio fosse allenato male era quindi confermata dal match con l’Italia. Con i riflettori puntati addosso e stavolta, con un pizzico di fortuna nell’accoppiamento agli ottavi, la squadra di Wilmots giungeva ai quarti di finale contro il Galles e nemmeno il vantaggio iniziale segnato da Nainggolan evitava una clamorosa sconfitta per i Diavoli Rossi.
Avere a disposizione De Bruyne, Hazard, Ferreira Carrasco, Mertens, Lukaku, Witsel, Demebelè, Alderweireld e altri ancora può essere davvero una fortuna per un allenatore, ma può trasformarsi in una vera iattura, se il talento a disposizione evidenzia per contrasto l’incapacità di fornire un piano razionale per sfruttarlo in campo. In altro periodo Marc Wilmots sarebbe stato solamente uno dei tanti allenatori che passano inosservati di una nazionale di medio livello europeo. Sfortunatamente per lui, le enormi doti di questa generazione di calciatori belgi cristallizzeranno Marc Wilmots nell’emblema del fatto che in un gioco di strategia qual è il calcio, l’allenatore conta sempre qualcosa.
(FB)
Simone Zaza
Come molte delle cose che ci hanno colpito quest’anno, quello che ha colpito Simone Zaza è tanto surreale, quanto stupido e alla fine piccolo: un calcio di rigore. Un evento così slegato dalle altre dinamiche di gioco – quelle che servirebbero a giudicare un calciatore - da aver ispirato anche una canzone.
È però difficile spiegare la parabola che ha portato Simone Zaza nella categoria dei flop senza cadere nella trappola retorica da cantautorato. Una parabola che ha toccato il suo punto più alto sempre nel 2016 quando il suo sinistro secco ha certificato il sorpasso della Juventus sul Napoli indirizzando la corsa scudetto e che è rimasta alta anche quando Zaza ha smesso di segnare (da quel giorno Zaza ha segnato solo un altro gol, al Carpi) tanto da poter alzare la voce con Allegri e guadagnarsi l’Europeo, fino a precipitare rovinosamente a causa della giustapposizione di una serie di eventi catastrofici quali l’entrata al centoventesimo minuto appositamente per tirare uno dei cinque rigori che dovevano permettere all’Italia di battere la Germania e il successivo errore; ma soprattutto che l’errore sia stato preceduto da una buffa rincorsa perfetta per i meme,
Eppure non possiamo pensare che sia tutto qui, che Zaza sia diventato un flop dopo uno sciagurato rigore, perché non è tutto qui. Zaza sta in questa categoria soprattutto perché ha scelto – o qualcuno ha scelto per lui – di passare dall’essere il quarto attaccante che entrava per mandare a fuoco gli ultimi quindici minuti di una partita di Serie A (cosa per cui sembra essere nato) ad essere una falsa speranza per una nave che sta affondando nella tempesta della Premier League.
Forse perché l’esplosività di Zaza è eccezionale in Italia ma non in Inghilterra, forse perché si è ritrovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, forse perché Zaza ha dei limiti palesi, ma non l’umiltà per riconoscere questi limiti; forse per una somma di tutte queste cose, l’esperienza a Londra ha ridotto le quotazioni del giocatore ai minimi termini. Mentre noi festeggiamo il Santo Natale Simone Zaza è diventato uno di quei regali che nessuno vuole, una insalatiera parecchio grossa e brutta, da riciclare allo zio lontano che non vedi da tanto e che tanto somiglia a Prandelli. Nella speranza che lui sappia come usarla, perché è pur sempre un’insalatiera che può pressare chiunque.
(MDO)
Frank de Boer
Ogni anno è “il peggior anno di sempre”. È un difetto di prospettiva che ci portiamo dietro da sempre, come hanno fatto notare sia il New Yorker che Newsweek, e che in questo 2016 sembra aver acquisito una risonanza ancora superiore. Sono tanti gli avvenimenti di quest’anno che in effetti sono stati un vero disastro, ma il più delle volte è un tic e non esiste nessun parametro oggettivo per stabilire che un anno è peggiore del precedente. Questo non vale per Frank de Boer, per cui questo 2016 è stato davvero un anno di merda.
Lo avrebbe dovuto capire quando è marzo si è rotto il tendine d’achille giocando a calcio-tennis, costringendolo ad allenare a bordo di un motorino.
Però fino a maggio le cose sembravano andare bene. De Boer aveva già deciso di lasciare i “lancieri” ma nel frattempo era vicinissimo a vincere il suo quinto campionato. All’ultima giornata bastava vincere contro il De Graafshaap. Ma l’Ajax è riuscito a pareggiare e a farsi scippare il titolo dal PSV. De Boer in conferenza stampa ha definito l’esperienza un incubo paragonabile alla sconfitta della sua Olanda nel 2000 contro l’Italia. Questo qui sotto è il momento in cui ci ripensa:
Il peggio, che doveva ancora venire, è arrivato sotto forma di Inter: incarico accettato a due settimane dalla fine del mercato con un esonero pendente sopra la testa praticamente dal primo allenamento. È stato un conto alla rovescia. L’ultima apparizione pubblica di Frank de Boer risale a pochi giorni fa: è il galà dello sport olandese. De Boer deve annunciare lo sportivo olandese dell’anno, ma apre la busta al contrario spoilerandone il contenuto fra le risate generali.
(EA)
Sebastian Vettel e la Ferrari
La Ferrari era attesa come la grande antagonista della Mercedes per il 2016 e, dopo un’ottima stagione di rilancio nel 2015, Raikkonen e soprattutto Vettel sembravano poter contendere ad armi quasi pari il titolo alle Mercedes di Hamilton e Rosberg. Non è andata così per svariati motivi.
- Innanzitutto la grande rivoluzione di progetto rispetto alla vecchia vettura ha portato inizialmente un oggettivo incremento di prestazione (non sufficiente comunque per raggiungere le Mercedes) ma al contempo una serie di problemi di affidabilità. Dapprima al turbo, con una turbina troppo grande che costringeva a tagliare potenza a fine rettilineo per non andare in crisi con l’affidabilità, e successivamente al cambio, reso unanimemente il migliore a livello prestazionale (insieme alla frizione rendeva anche le partenze della Ferrari le migliori in assoluto, alla pari di quelle di Alonso) ma fragilissimo fino a fine stagione (Suzuka, quintultima gara).
- Il rimpianto per la mancata vittoria di Vettel in Australia all’esordio non ha giovato all’autostima dell’ambiente. Anche se forse una vittoria così precoce avrebbe potuto creare un effetto boomerang ancora maggiore.
- A questo si è aggiunto un grave lutto che ha colpito il capo-progettista James Allison (la morte della moglie) e forse una diminuzione del suo impegno anche per altri motivi: Allison è stato preso dalla Mercedes per il 2017 e questo alimenta maliziosi sospetti.
- Inoltre rispetto al 2015 la Ferrari non ha avuto più la possibilità di fare test aerodinamici illimitati sottobanco con il team Haas, che dopo il debutto in Formula 1 ha subìto le stesse restrizioni di tutti gli altri. Nonostante questo, la cacciata di James Allison a metà Mondiale ha oggettivamente giovato alle prestazioni della Ferrari che, soprattutto in gara, a fine stagione ha ripreso un buon passo dopo la crisi di metà stagione, soprattutto grazie a un nuovo diffusore più rotondo implementato dal Gran Premio del Belgio. Ma non è bastato per battere la Red Bull nel Mondiale Costruttori.
Tutta questa frustrazione nell’ambiente ha trascinato verso il basso la concentrazione e il rendimento di Vettel. Errori in duelli con Hamilton sia ravvicinati (Australia) che a distanza (Canada), collisioni causate in partenza (Belgio e Malesia, escludo la Cina dove ha meno colpe), testacoda su chiazze bagnate (Gran Bretagna e Brasile), errore nel giro buono in qualifica in Cina, grosso rischio corso nel finale a Montecarlo di finire contro le barriere. A questo si aggiunge un confronto diretto sempre più negativo in qualifica contro Raikkonen, quello che era il suo porto sicuro nel 2015. Un gran rendimento nel passo gara da metà gara in poi nel finale di Mondiale ha salvato parzialmente la sua difficile stagione.
(FP)
José Mourinho
“Mourinho at war”: un titolo per riassumere il 2016 di José da Setubal. I sei mesi di gardening al quale è stato costretto dall’esonero subito al Chelsea non lo hanno aiutato a canalizzare la sua rabbia. Che invece è sembrata accumularsi settimana dopo settimana, fino a travolgere chiunque, incolpevole, si ponesse sulla sua strada: ne ha fatto le spese Schweinsteiger, pretoriano di van Gaal, isolato prima del ritiro pre-campionato; poi è stato il turno di Mkhitaryan, prima fortemente voluto, poi ripudiato, poi ancora riammesso nelle grazie del portoghese; il solito battibecco semestrale con Wenger; un numero ormai incalcolabile di giornalisti.
Mourinho è in difficoltà ed ogni sua mossa sembra solo ingrossare il gorgo che sta per inghiottirlo. Le sue ultime squadre sono state ensemble perfettibili (il suo Chelsea iniziò la sua parabola discendente già verso la fine della stagione 2014-15 che li vide vincitori della Premier League). I suoi mind games non fanno più presa sugli altri allenatori, anzi gli si rivolgono contro.
Le cause del declino di José possono essere molteplici e nelle indiscrezioni di stampa ognuno ha individuato un problema differente: alcuni suoi ex giocatori hanno denigrato la sua scarsa varietà nella tattica offensiva; qualcun’altro ha ipotizzato che Mou non abbia sui giocatori di questa generazione lo stesso potere persuasivo che aveva su quella precedente. Io ho supposto che la separazione da Villas Boas lo avesse indebolito, ma sono stato smentito dai numeri: la media punti in campionato delle squadre di Mourinho nel periodo antecedente e seguente al divorzio è esattamente la stessa.
Mou sta rimettendo faticosamente insieme i pezzi del Manchester United dell’era post-Ferguson. Ad inizio stagione ha sbagliato delle scelte, ne ha pagato le conseguenze, ma ha saputo tornare sui suoi passi. Ora gonfia il petto, augurando a sé stesso un periodo allo United più lungo dell’attuale contratto e invitando i diseredati a restare nonostante la sessione di mercato di gennaio. Un mercato che potrebbe regalargli ancora qualche altro pezzo prezioso da mettere nella sua prestigiosa vetrina, e permettergli di dare l’assalto ad un posto Champions. José Mourinho potrebbe essere all’ultima chiamata importante della sua carriera.
(AG)
Italbasket
Almeno fino al 31 agosto, giorno dell'inizio di EuroBasket 2017, l'ItalBasket resta la Nazionale più incompiuta di sempre. Con una quantità di talento individuale che poche volte abbiamo visto tutto insieme, questo gruppo anche nel 2016 non è riuscito a compiere quello step – più o meno lungo, mentale prima ancora che tecnico – che l'ha separato dal raggiungimento dell'obiettivo. Se in Francia nel 2015 un supplementare contro la Lituania è stato fatale per l'accesso alle semifinali continentali, un supplementare contro la Croazia a Torino si è frapposto tra gli azzurri e il sogno olimpico di Rio Quando il confine tra vittoria e sconfitta è così labile non è semplice metabolizzare il ko, anche a distanza di giorni, di settimane, di mesi.
Era il 5 agosto e Messina non aveva digerito l'eliminazione, ovviamente.
Ma ora bisogna mettere tutto alle spalle. Anche perché Belinelli, Gallinari, Bargnani, Datome – insomma gli over-29 - alla fine della prossima estate avranno l'ultima chiamata per portare a casa una medaglia. La grande difficoltà sarà trasformare questa pressione in energia positiva. Sperando di avere davvero tutti al top della condizione.
(DR)
Graziano Pellé
È discutibile la posizione di Pellé, perché ha giocato un ottimo Europeo diventando forse il giocatore più rappresentativo dell’Italia di Conte… e però con quel rigore e la scelta di andare in Cina (anche se a cifre molto probabilmente diverse da quelle pubblicate dai giornali è salito senza che neanche ce ne accorgessimo al primo posto nel ranking Nemici del Popolo Italiano. Lui peggio di Zaza, che si è reso ridicolo ma non ha incarnato il peggiore dei vizi, l’unica cosa che il pubblico italiano non è disposto a perdonare: la mancanza di umiltà.
La ciliegina sulla torta è stata il litigio con il nuovo c.t. Ventura dopo una sostituzione, e Ventura che quasi a furor di popolo non lo ha più chiamato in Nazionale. Pellé è passato nel giro di pochi mesi da: “Oh ma quanto fatica Pellé! E poi hai visto come pulisce ogni lancio della difesa? Fa reparto da solo!”; a: “Il solito mercenario, e poi è pure una pippa che si crede un fenomeno”. Da idolo a nemesi, da versione migliore delle qualità italiche - il lavoratore che fa gavetta e mattone dopo mattone si costruisce una vita - alla peggiore rappresentazione della nostra vanità, a tronista senza talento in cerca di facile fama. Perfetta aderenza, quindi, alla parabola flop, che si deve prima innalzare sopra le teste degli spettatori e poi improvvisamente piegarsi su stessa, scendere sempre più in basso fino a sparire dalla nostra vista.
(AG)
L’Argentina
di Fabrizio Gabrielli
L’ultimo colpo di machete sul corpo già martoriato del fútbol argentino l’ha dato l’AFIP, l’Administración Federal de Ingresos Públicos, l’Agenzia delle Entrate per intenderci, che ha deciso di sporgere denuncia penale sull’AFA, la federcalcio albiceleste, per una presunta evasione di più di 84 milioni di pesos, una cifra attorno ai 4 milioni di euro.
È difficile capire quanto la crisi della federcalcio - che se nel momento in cui l’ho fotografata l’estate scorsa preannunciava già sintomi di irreversibilità, ora va somigliando ogni istante che passa sempre di più a un coma farmacologico - sia più causa o conseguenza dell’annus horribilis del calcio argentino.
Né il Boca né il River sono riuscite a raggiungere l’obiettivo minimo stagionale, minimo in termini di mantenimento dell’autorevolezza continentale, che sarebbe stata la finale di Libertadores, travolte dai propri limiti quanto dalla portata mitopoietica dell’Independiente del Valle. L’anno prossimo, in seguito all’esilio forzato delle squadre messicane dalla Libertadores, tre posti rimarranno vacanti: Armando Pérez, il presidente del Comitato Normalizzatore, ne ha chiesto almeno uno per l’Argentina. Difficilmente lo otterrà.
I migliori calciatori della Primera Division stanno già mollando le cime, tutti più o meno in fuga da questo corralito dell’anima: Lo Celso sbarcherà in Europa, Carlitos in Cina insieme a Oscar Romero, D’Alessandro chi lo sa. Il Chacho Coudet, l’allenatore più interessante del campionato, ha rassegnato le dimissioni dal Rosario Central.
Ma l’ecatombe argentina di quest’anno è soprattutto, e fondamentalmente, nell’esplosione in rivoli di delusione malmostosa della grande bolla di sapone delle aspettative per la Copa América Centenario, alla quale arrivava da protagonista conclamata e vincitrice annunciata, e che ha invece perso, malamente, ancora una volta, in finale.
Ed è nel mese in cui abbiamo seriamente rischiato, senza rassegnarci mai davvero, che un contesto così malato, e una sindrome da complesso di inferiorità, potesse condurre all’inconcepibile ritiro del più forte calciatore del mondo dai palcoscenici internazionali.
Poteva essere nella tragedia, fortunatamente solo sfiorata, di un volo maldestramente cheap (due settimane prima della Chapecoense su quello stesso velivolo della LiMia, a prezzi stracciati, era salita la Selección). Ma è anche nell’abbandono del Tata Martino, e nelle difficoltà quasi patologiche di risalire la china del girone qualificatorio per i prossimi Mondiali con Bauza.
Insomma, questo è stato davvero l’anno peggiore della storia del calcio argentino.
Almeno fino al prossimo.
Il movimento sportivo russo
Il 2016 è stato probabilmente il peggior anno della storia per la Russia sportiva. Tutto è nato dal cosiddetto rapporto MacLaren, cioè i risultati dell’investigazione promossa dalla WADA (la World Anti-Doping Agency) che hanno di fatto provato un sistema di “doping di Stato” in Russia. L’investigazione, coordinata dall’avvocato canadese Richard McLaren sulla base delle prove fornite da Grigory Rodchenkov (ex direttore del laboratorio anti-doping di Mosca, oggi in esilio volontario negli Stati Uniti) ha avuto effetti devastanti sullo sport russo come: la squalifica di 111 atleti alle Olimpiadi di Rio (tra cui l’intera nazionale d’atletica), il coinvolgimento potenziale di oltre mille atleti totali, il rifiuto da parte del Comitato Olimpico Internazionale ad organizzare eventi in Russia nel prossimo futuro.
Uno scandalo talmente ampio che ha iniziato anche a confluire in diversi rivoli secondari come quelli che hanno colpito alcuni dei simboli sportivi della Russia putiniana, come Maria Sharapova e le Olimpiadi di Sochi, adesso sotto osservazione dal Comitato Olimpico Internazionale per decine di campioni di urina manomessi. Non è un caso che proprio oggi Putin, nella sua abituale conferenza stampa di fine anno, abbia deciso di ritagliare un grosso spazio alla questione dichiarando che “la Russia non ha mai avuto un problema col doping” e che Rodchenkov “ha forzato gli atleti a prendere quelle sostanze”.
Ma il disastro russo nel 2016 non si chiude con le investigazioni della WADA. Bisogna aggiungere, infatti, le grosse difficoltà a completare gli stadi necessari per i Mondiali del 2018, la brutta figura rimediata dalla Russia sia dentro che fuori dal campo all’Europeo ed infine la sconfitta del campione russo Sergei Karjakin (uno degli atleti in assoluto più vicino a Putin) da parte di Magnus Carlsen nella finale dei mondiali di scacchi. Una disfatta su tutti i fronti.
(DS)