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Matteo Trevisani
Tyson Fury o della decadenza
29 apr 2016
29 apr 2016
Brutale, rozzo, senza filtri: Tyson Fury boxa come vive.
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Matteo Trevisani
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In nessun caso il nome che diamo alle cose rappresenta il destino che spetta loro. I romani, con la locuzione latina

, intendevano questo: il nome di ognuno è la codificazione di un aspetto di quello che è possibile diventare, delle nostre ambizioni, dei nostri fallimenti, delle nostre possibilità. In questo l’etimologia aiuta: il significato dei nostri nomi affonda nei recessi delle stratificazioni della lingua ma niente avrà più significato di quello che noi stessi gli decidiamo.

 

Ora, col potere di dare il senso che volete alle cose, immaginate di fare parte di una famiglia di pugili gitani e di essere perfettamente a vostro agio con quello che questo comporta. Vostra moglie ha appena partorito un ennesimo figlio che è poco più di qualcosa di abbozzato, prematuro di sei mesi, che pesa meno di mezzo chilo e con pochissime speranze di sopravvivere. Mettiamo che sia il 1988, che Mike Tyson sia il campione in carica e che voi col tempo abbiate imparato a credere alla forza dei nomi. Decidete di dare a quel figlio minuscolo il nome di Tyson, perché il nome stavolta sia un presagio. Solo dopo vi ricordate del vostro cognome, e pensate che avete avuto una grande idea, che il destino di quel figlio non potrà essere più segnato di così, e che voi comunque ce l’avete messa tutta, a dare una spinta per volgerlo al vostro volere. Voi vi chiamate Gipsy John, e vostro figlio si chiamerà Tyson, Tyson Fury.

 

Poi qualcosa lo fa anche il DNA, certo. Il figlio che nasce ha alle spalle due storie parallele che spesso si sovrappongono: da una parte una tradizione di camminanti irlandesi (pavee) che dura da un migliaio d’anni, dall’altra il pugilato, che è come una piega rossa che si inerpica nella sua genealogia, tra cugini campioni del mondo e tradizioni gitane di combattimenti a mani nude. Tyson cresce quasi per dispetto, a quattordici anni entra in palestra, chiede al padre di fargli indossare i guantoni e crescendo ha una carriera fulminante. Debutta da professionista nel 2008: da quell’anno inizia una serie di venticinque vittorie, di cui diciotto per KO. Nell’ultimo incontro, a Düsseldorf, diventa campione dei pesi massimi battendo clamorosamente il campione in carica, Wladimir Klitschko, interrompendo un regno che durava da undici anni.

 


Una storia lineare, che funziona.


No.



 



La tentazione, per parlare di Fury, è quella di trovargli un suo corrispettivo, qualcosa

cui raccontarlo. Ma è un’impresa impossibile quando il protagonista della narrazione è evidentemente il cattivo di turno, l’antagonista: c’è il rischio di santificarne gli aspetti inquietanti e farlo brillare di quella luce cupa che avvolge i cattivi nei fumetti.

 

Di storie come quelle di Tyson nello sport ce ne sono tante, e nella boxe spesso arrivano al parossismo: l’abilità nel dare i pugni e nel fare a botte diventa la metafora del farsi strada nel mondo, di sconfiggere i tuoi nemici e l’amarezza di un destino ingrato.


 

Nonostante il riscatto sociale, le origini umili, un contesto sociale degradato, quella di Fury è l’ascesa di un antieroe. Ogni outsider ha almeno questo dalla sua parte: la rottura dell’equilibrio iniziale, il rifiuto delle origini, la voglia di evolvere in ottica migliorativa, non si può fare altrimenti: per Fury è il contrario.

 

Per far capire il livello tecnico di Tyson Fury si può ricorrere a un incontro del 2009 contro Lee Swaby, il suo quarto da professionista. È il quarto round, Fury ha costretto il suo avversario nell’angolo, si prepara a vincere il match con facilità: Lee Swaby è un pugile modesto, a fine carriera. Fury colpisce ripetutamente l’avversario che si ripara con entrambe le mani, prima di caricare vistosamente un micidiale montante destro che però scivola sui guantoni di Swaby e

. Quando si dice la potenza senza controllo. Per completezza bisogna dire che

, questo dà comunque un’idea della bontà tecnica dei massimi di oggi.

 

https://www.youtube.com/watch?v=WLW2oA_FkSU&feature=youtu.be

Per completezza bisogna dire che è successo anche all’ex campione ucraino, questo dà comunque un’idea della bontà tecnica dei massimi di oggi.



 

Quando non ci si vuole o non ci si riesce a staccare da ciò che ci tiene prigionieri ci si comincia a inorgoglire della prigione che si abita, la si arricchisce. È la condizione del prigioniero contro il muro della caverna platonica, abituato per tutta la sua vita a riconoscere nelle ombre delle cose la realtà degli oggetti. È uno scambio che funziona, che ti tiene in vita quel tanto che basta: non c’è nessuna differenza tra il tuo io pubblico e il tuo io privato, hai un’opinione su ogni cosa e puoi anche vantarti di fare uso di un personalissimo tipo di onestà radicale che consiste nella rivendicazione di una volgarità preculturale, di

e valutazioni

sul ruolo, per dire, della donna oggi.

 

All’inizio il sentirsi parte di un ambiente è stato protettivo e insieme assolutorio: «Quando abbiamo qualche problema noi non andiamo dalla polizia, dobbiamo toglierci le magliette, andare fuori e fare a cazzotti. Essere un uomo che fa bene a botte è la cosa migliore che puoi essere nella vita». La contrapposizione tra “noi” e il resto del mondo è uno dei tanti aspetti di Fury, tanto da farne una questione politica o sociale, quando ha pensato di candidarsi alle elezioni nel Lancashire, col nobile intento di migliorare la situazione nelle periferie e combattere l’antiziganismo.

 

Anche la spontaneità nobile del pugilato delle origini con Fury si trasforma in una volgare riproposizione sensazionalistica del personaggio. Nessuno degli incontri che gli hanno dato la possibilità di contendere il titolo al pugile ucraino lo hanno impensierito: il secondo match contro Chisora ne è l’esempio perfetto. Dopo averlo già battuto una volta nel 2011 (un incontro noioso, nel quale l’arbitrò invitò i due pugili a un maggiore agonismo) Fury aveva controllato tutto il match dietro il suo jab segnando profondamente il viso di Chisora, approfittando della sua altezza e della sua maggiore portata sulla lunga distanza. Alla fine del decimo round Chisora nemmeno si siede, dal suo angolo

Fury vince l’incontro e dichiara: «I'm ready to challenge Klitschko, bring it on».

 



 

Fin dalla sua ascesa agli onori delle cronache Fury è stato al centro dell’attenzione mediatica per le sue dichiarazioni omofobe, razziste e misogine. È perfino stato indagato per istigazione all’odio. Ogni incontro è preceduto da una sua uscita sensazionale da migliaia di retweet tanto da essere diventato monotono, e in questo caso non è nemmeno spendibile il concetto del “tutto purché se ne parli”, perché Fury sembra del tutto omogeneo con ciò che afferma.

 

La sicurezza in sé stesso lo rende praticamente indifferente a ogni tipo di critica o provvedimento: non sembrano averlo intaccato le proteste contro le sue affermazioni né le centomila firme che hanno chiesto il ritiro della sua candidatura al premio come sportivo dell’anno. Semplicemente le cose gli scivolano addosso, il bigottismo, la famiglia, persino la moglie lo proteggono da ogni tentativo accusatorio, o di presa di coscienza.

 

Anche il pugilato che fai è praticamente come te. Brutale, rozzo, lento; con un eufemismo potremmo definirlo “naturale”. Sei il magnifico emblema splendente della decadenza del pugilato dei massimi. Sembra che gli atleti che popolano la categoria regina della boxe abbiano dimenticato la tecnica e la cultura pugilistica per focalizzarsi soltanto sull’aspetto fisico e la potenza dei colpi. Le categorie minori, con pugili più agili e più veloci, offrono uno spettacolo più alto e incontri più completi, che esaltano le diverse caratteristiche degli atleti.

 



 

Anche il campione in carica prima del match del 28 novembre, Wladimir Klitschko fa parte di questa schiera: dieci anni di round vinti che però non hanno regalato al pubblico prestazioni memorabili o match da ricordare. L’incontro che ha messo in palio il titolo e che ha visto Fury vincente è stato un canto del cigno lamentoso e poco spettacolare. Basti pensare che nel terzo round, anche a dispetto dei match tattici in cui le fasi di studio durano più a lungo che quelle di scambio, i due pugili hanno messo a segno solo tre colpi. Tre colpi in tre minuti. Probabilmente sarebbe stato lecito aspettarsi di più da un match a quel livello, con Fury dato perdente con 4 a 1 e con 55000 spettatori a riempire l’arena. Sono lontani i tempi in cui il

di Fury, Mike Tyson, divideva il ring con gli altri campioni. Il pugile inglese controlla il match cercando di muoversi molto, confidando nella sua altezza, nella sua forma fisica e soprattutto negli undici anni di differenza d’età con l’ucraino. Klitschko invece non riesce a portare a segno il suo destro, e anche se al decimo round i pugili sono in parità, Fury nel finale riesce a portare dei colpi che alla fine ne decretano l’unanime vittoria ai punti. Quarta sconfitta in carriera per Klitschko, che ammette la sconfitta e si congratula con l’avversario. Fury invece prende il microfono e

I don’t want miss a thing, che dedica alla devota moglie Paris.

 



Benché sia riconosciuto da molti come un pugile con uno stile orrendo, raffazzonato e per niente tecnico, Fury non sembra farci caso. L’idea di essere dalla parte dei giusti e di combattere con onore per la propria gente lo rende pericolosamente centrato sul suo ruolo di giustiziere. Non solo: un giustiziere che ha una personalissima relazione con Dio stesso, di cui si sente una specie di chierico di guerra; se non hai mai perso nessuno dei tuoi venticinque incontri puoi cominciare a crederti invincibile, di avere qualcuno dalla tua parte, allora puoi presentarti

, puoi passare un weekend in prigione per non esserti presentato a un processo per guida pericolosa, e puoi dire, durante un’intervista, frasi come «Dio non permetterà che Klitschko vinca» e «So che lui è un adoratore del diavolo».

 

Non si tratta solo di fondamentalismo cristiano in salsa gypsy, né di un’eccentricità coltivata e portata a livelli ormai incontrollabili: ogni tentativo di dirimere e incasellare la personalità di Tyson Fury è fuorviante. Molte personalità albergano insieme dentro la sua testa, proteggendosi a vicenda, e su tutte regna quella che utilizza l’orgoglio gitano per giustificare e decolpevolizzare il cattivo gusto, i modi rozzi e un atteggiamento per così dire combattivo di fronte alle cose del mondo. È come se dicesse ridendo: io sono questo e non posso essere nient’altro che questo.

 

Invece non è sempre stato così. Tra le molte interviste che si trovano in internet ne salta fuori una, dove Fury si manifesta con un candore strano, che non gli daresti, che non sembra per niente affettato o artificiale. Ha ventitré anni, sta per combattere contro Derek Chisora, il padre è in carcere per aver accecato un uomo durante una rissa. Fury sembra voler prendere le distanze da quella genìa, dice «sono un uomo molto diverso da mio padre, più vulnerabile» e nelle foto il suo sguardo è ancora giovane, perfino affascinante, ti viene l’idea che non ci sia niente che non possa essere rimediabile, che quel nome pesante possa davvero essere il simbolo di una rinascita qualsiasi. Ma riesce a trovare una sorta di rifugio solo sul ring, a fare quello che gli riesce meglio, quello per cui deve

essere nato.

 



 

Oggi quel tipo di debolezza se ne è andata dietro i lineamenti scomposti del viso, nella linea dura della mascella, nel ghigno beffardo di chi ama troppo parlare e nella presunzione arrogante di chi non ha paura di niente. Ha capito in tempo che si vive meglio all’interno dell’idea che uno ha di se stesso, e che non importa se questo vuol dire giocare la parte del cattivo o rimbalzare continuamente tra dichiarazioni che si contraddicono a vicenda tra omofobia e attesa della fine del mondo.

 

Fury sembra sapere bene che tutto quello gli succede è transitorio. Una cieca fede nel futuro, la parola di Dio dalla sua parte e un intero ambiente familiare lo rendono praticamente inscalfibile, un golem assoggettato alle leggi di un mercato pugilistico, seguendo la lezione di Floyd Mayweather, che non gli permette nemmeno di esprimere uno stile preciso di boxe. Ma la cosa che lo ossessiona di più sembra essere cercare di evangelizzare il mondo, prima che sia troppo tardi: questo, secondo lui, è il senso delle sue frasi più discusse. Quando Oliver Holt, il Chief Sport Writer del DailyMail gli ha chiesto se davvero credesse nell’Apocallise imminente Fury ha risposto: «Viviamo in un mondo malvagio, il diavolo è molto forte in questo momento, molto forte, e credo che la fine sia vicina. È la Bibbia che me lo dice. È il mondo che me lo dice. Credo che manchino pochi anni perché ciò accada» e «Ci sono solo tre cose che devono essere completato per fare in modo che il diavolo arrivi sulla terra: la legalizzazione del matrimonio omosessuale, l’aborto e la pedofilia».

 



 

In un mondo ipotetico dove è possibile credere di buon cuore a tutto quello che si vede, ci limiteremmo a dare di Tyson Fury un giudizio più morale che estetico, ne discuteremmo i limiti, le prossimità, chiameremmo in causa le teorie dell’adattamento ambientale e qualcosa di preciso che si trasmette con le generazioni: la riproposizione continua e inconscia di un mito antico. È ovvio però che in questo caso l’indifendibilità dei messaggi di Fury siano utilizzati anche come una precisa tecnica intimidatoria, per snervare l’avversario, far aumentare le borse dei match e il numero degli haters. In qualche modo, anche se non è stato ricercato, è stato per lui naturale seguire il percorso che gli indicava il nome che aveva addosso. Quando ha potuto cambiarlo se ne è scelto un altro, quello che fu di suo padre: Gyspsy King, che è anche il suo nickname sui molti social che utilizza. Avrebbe voluto chiamare suo figlio Jesus, ma a quanto pare non gliel’hanno permesso. Allora l’ha chiamato Prince, quasi per rimarcare il fatto che per ora, di re degli zingari, ce n’è uno soltanto. Alla figlia invece è stato dato il nome di Venezuela, arrivatogli in sogno, chissà che vuol dire.

 

A Manchester, la sua città natale, il 9 luglio prossimo Fury difenderà i suoi titoli nel rematch contro Klitschko. Durante la conferenza stampa di presentazione del match, lo scorso 27 aprile, Tyson si è mostrato stranamente lucido nel suo ruolo di provocatore transeunte. Si è presentato infatti all’incontro coi giornalisti sovrappeso, con una maglietta che promuove il turismo inglese in Sicilia. In quell’occasione Fury ha dichiarato che odia la boxe e ogni secondo di allenamento, ma che è troppo bravo per smettere di farla: «Faccio soldi facili mettendo KO dei buoni a nulla» e, rivolgendosi all’ex campione ucraino, alzando la maglietta per mostrare un addome visibilmente fuori forma: «Guarda con chi hai perso, dovresti vergognarti. Hai perso con un ciccione». (tutto questo dopo aver parlato di possibile

)

 

Da mesi ormai si parla di un suo coinvolgimento contro pugili in ascesa, come Antony Joshua. Inglese di origini nigeriane e di un anno più giovane di Fury, Joshua è stato oro olimpico a Londra 2012, con verdetti controversi, battendo tra gli altri Roberto Cammarelle. Joshua, 16 KO in 16 match, il 9 aprile scorso ha conquistato la cintura IBF dei massimi battendo al secondo round l’americano Charles Martin, dopo averlo mandato al tappeto due volte. Joshua ha un fisico imponente e sarebbe una personalità nuovo nel mesto ambiente dei massimi.

 

Interrogato su questa possibilità, qualche giorno fa Fury ha dichiarato: «Metterei tranquillamente KO Joshua in un solo round. Lui parla molto, ma mai quando ci sono io vicino. È un idiota, un figlio di papà, gli darei uno schiaffo, come facciamo con le nostre troie».

 

 

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