Manca l’ultimo passo dopo un cammino perfetto: per alcuni è qualcosa di simile a una formalità, ma andatelo spiegare – a chi deve rompere una maledizione lunga ventitré anni – che vincere l’ultima partita, vincere una finale dopo che nelle due estati precedenti ne hai perse altrettante, è una formalità. Chi pensa che ormai la missione argentina sia compiuta si sbaglia di grosso, però ha ragione su una cosa: questa squadra, fin qui, è sembrata veramente inarrestabile.
Per raccontare questa Argentina, per raccontare come sia arrivata al punto in cui il risultato, inevitabilmente, ne decreterà il ruolo nella storia, bisogna partire da Gerardo Martino. Perché il primo motivo per il quale sembra essere davvero arrivato il momento di rompere il sortilegio, è che finalmente l’Argentina gioca a calcio molto bene. È merito del “Tata”, bravo due volte: perché per lui questo può essere un grande riscatto e la dimostrazione (si spera definitiva) di essere un grande allenatore, ma anche perché ha portato negli Stati Uniti un progetto di gioco che si ispira alla traccia tecnica disegnata dalla squadra che fa il miglior calcio al mondo (il Barça), e che riesce ad esprimersi rispettando a pieno il dna proprio e dei propri giocatori. In puro stile bielsista, ma con una punta di praticità e di umiltà in più (d’altra parte, Martino era il serbatoio di sostanza nel Newell’s del Loco che fece la storia).
La spina dorsale
La Seleccion parte dall’idea del 4-3-3 barcellonista e, avendo Messi, si muove allo stesso modo verso una sorta di 4-2-3-1 fluido, bello e perfettamente adatto a chi lo interpreta. La colonna centrale del gioco argentino è formata da Mascherano, Banega e Messi: i tre che sostengono la manovra, poi gli altri la completano. Ma va sottolineata da subito l’importanza della difesa, molto ben assemblata per le necessità di questa Copa: la coppia Otamendi-Funes Mori era la miglior opzione possibile in questo momento, Martino l’ha scelta puntando sulla forza fisica e soprattutto la personalità dei due sceriffi, che oltretutto possono contare su laterali fatti della stessa pasta, Mercado e Rojo.
Davanti a loro, il “Jefecito” Mascherano, che in Nazionale è il motore e anche la centralina, quello che regola il ritmo delle meccaniche e fornisce anche la potenza necessaria per creare il movimento. Il fatto di giocare nel suo ruolo naturale gli permette di essere ancora più efficace rispetto a quando gioca nel club, perché è sempre nella zona di campo in cui si svolge l’azione. Un leader del genere sempre in un punto focale, in fase difensiva come in quella di costruzione, vuol dire tantissimo nel calcio di Martino, specialmente se intuisci che vicino a lui ci sta alla perfezione uno come Augusto Fernandez. Il Cholo Simeone lo ha plasmato e consacrato, ma Augusto Fernandez deve ringraziare anche Eduardo “el Toto” Berizzo (assistente di Marcelo Bielsa nell’avventura cilena) che al Celta Vigo lo ha trasformato da ottimo martello di centrodestra a fantastico equilibratore della mediana, allungandogli e migliorandogli la carriera.
Banega, invece, è il responsabile massimo dei raccordi, fondamentali per chi parte dal postulato che il pallone deve appartenergli. E infatti l’Argentina arriva in finale avendo conquistato mediamente il 66% del possesso nelle cinque partite fin qui sostenute e il “nuovo” Banega, arrivato a questo livello decisamente in ritardo rispetto alle previsioni, è un giocatore che non solo ricama, ma costruisce davvero. Il suo calcio rimane pieno di riccioli (meno male) e non è mai scarico d’intensità, però ora ha anche quella cosa che prima del suo secondo incontro con Unai Emery non aveva mai trovato: la continuità, sia nei 90 minuti che sull’arco temporale di una competizione. Peso specifico altissimo.
Il Re Sole e la sua corte
Messi è la luce: un neon che si accende pian piano e diventa subito accecante appena gli si apre il campo davanti. In termini di gol (ora Batistuta è il numero due) ma anche di assist. Se nel 2016 nessuno ha servito più assistenze di lui è perché Messi sembra aver deciso che è arrivato il momento di un cambiamento nella strada della sua ineguagliabile carriera.
Messi dà l’impressione di aver deciso di togliersi definitivamente la grande scimmia del palmares con la Nazionale, e forse ci sta dando un antipasto di quello che sarà nell’ultima parte della sua carriera. Non è più solo una ricerca sfrenata del gol, dei numeri e dei trofei, è fare arte a tutti i livelli, svincolato da ogni obbligo. Questo Messi parte largo a destra per entrare in scena centralmente, di solito tramite un movimento elegante a mezzaluna, ed è molto intenso, anche se più lontano dalla porta. Prende palla per dribblare e poi lavorare nello stretto, dove compie quello che nessuno ha mai saputo fare in questo modo: partire da un pensiero sempre illuminato perché frutto del genio creativo e della spinta ad andare oltre i limiti, avere i mezzi tecnici per poterlo concretizzare e farlo alla più alta velocità mai registrata.
Nel Barça, come in Nazionale, gli serve una punta che abbia anche forza e brutalità agonistica, al fine di farsi aprire degli spazi per entrare in azione negli ultimi venti metri. E sempre per questo, Higuain ha cancellato Aguero da questa Copa America, prendendosi il gran finale di una stagione leggendaria, da vero campione. Sull’altro fianco serve invece un’ala vera, e in questo settore il “Tata” Martino si è trovato costretto a dover trasformare quella che in molti casi sarebbe stata un’emergenza in una grande opportunità: è partito con Di Maria – che però ancora una volta (lui sì) è stato appiedato dalla personale maledizione estiva – per poi puntare sul neo-colchonero Gaitan, che promette di formare con Carrasco e Koke un trio di inventori di gioco pazzeschi per il Cholismo che verrà. Ci sono state le comparsate di Lavezzi – umile, utile e letale oltre che enormemente sfortunato – Lamela, l’unico nel roster delle mezzepunte ad aver giocato tutte le partite.
Contro il Cile il copione sembra talmente perfetto da essere quasi scontato: l’esorcismo definitivo con la vendetta sui campioni in carica (peraltro già battuti due volte nell’ultimo anno, prima nelle Qualificazioni al Mondiale e poi nel girone della Copa America). Ma di scontato non c’è nulla: non solo perché il Cile ha alzato il proprio livello clamorosamente una volta superata la fase a gruppi, ma perché in ballo c’è anche la fine del più grande paradosso calcistico dell’ultimo quarto di secolo: la squadra con più talento del continente sudamericano, e forse del mondo, eppure perdente.
Non ci resta che aspettare di vedere, se l’alba di lunedì ci porterà davvero il battesimo della Nazionale più forte del mondo non più solo sulla carta; e del giocatore che, da lì, può diventare definitivamente il più grande di sempre.