Rispetto ai decenni precedenti, negli ultimi cinque anni le delusioni nate dai fallimenti della Nazionale sono state vittime di un cambiamento stagionale. Ce le ricordavamo associate alle nostre estati, più all’afa di luglio che al caldo di giugno, più alle sfide a eliminazione diretta che ai gironi. Come un uccello disorientato, in cerca di un clima più freddo invece di uno più caldo, le delusioni sono volate via da quei mesi; sono migrate verso stagioni meno abituali, in pieno autunno, come nel 2017, o a inizio primavera, come quest’anno. Le eliminazioni sono regredite a uno stadio anteriore, non più durante le competizioni ma ai loro prodromi, le qualificazioni. È una sensazione di fallimento ancora più acuta. E se nei playoff contro la Svezia sembrava di essere inciampati in un evento raro e drammatico, uno di quelli che nell’arco della vita di un tifoso italiano si potrebbe ripetere non prima di altri cinquant’anni, nel playoff contro la Macedonia del Nord la storia si è ripresentata come tragedia aumentata. Per la seconda volta di seguito l’Italia è fuori dal Mondiale prima che questo abbia inizio, stavolta da campione d’Europa, uno status che rende il dolore se possibile ancora più acuto.
Attorno all’80’ del secondo tempo della partita di giovedì scorso mi sono chiesto se questa volta avessi contemplato un risultato diverso dalla vittoria. E mi ero detto di no, nonostante conoscessi bene i problemi offensivi della nostra Nazionale, nonostante le sostituzioni dei tre uomini d’attacco si fossero trasformate in un turbine irrazionale – Mancini arriverà a fine partita avendo provato quattro diversi tridenti – nonostante la serie di sfortunati eventi che ci aveva portato a questo punto faceva già capire l’aria che tirava. La differenza tra le due squadre era troppo evidente, eppure, dopo il gol di Aleksandar Trajkovski – un tiro secco finito nel primo lembo di rete alla destra di Gianluigi Donnarumma – il fallimento si è palesato di nuovo, forse era già lì che galleggiava chissà da quanto tempo tra i corpi disorientati dei giocatori e non l’avevamo visto. Di sicuro era arrivato troppo presto rispetto a quanto ci aspettassimo.
I sintomi della débâcle erano già tutti presenti davanti ai nostri occhi: una squadra stanca, da mesi in crisi di risultati e di gol, a cui infatti stavamo preparando un “onorevole” funerale contro il Portogallo martedì sera, giorno in cui, invece, giocheremo contro la Turchia una partita priva di senso tra due squadre già eliminate.
Nel 1929 Aby Warburg espose alla Biblioteca Hertziana di Roma il suo progetto per un atlante figurativo, il Bilderatlas Mnemosyne, una serie di tavole in cui erano montate una accanto all’altra immagini provenienti da epoche e culture differenti ma simili per gestualità e posture: fotografie di reperti archeologici e di opere d’arte dei secoli precedenti, ritagli di giornali e francobolli a lui contemporanei che mostrassero la ripetizione degli archetipi del comportamento umano. Montaggi che ricercavano il senso delle immagini non sulla loro singola superficie ma pescando a piene mani dall’archivio della nostra memoria collettiva, storica e iconografica. Quello di Warburg era contemporaneamente una geologia e una biologia delle immagini, un metodo per evidenziare come lo spettro delle emozioni umane si sedimentasse nelle differenti epoche e le sopravanzasse sopravvivendo nelle nuove immagini prodotte.
Nei minuti successivi alla partita contro la Macedonia del Nord ho cominciato ad associare i ricordi delle precedenti eliminazioni ai Mondiali con le immagini di quest’ultima, come se fosse possibile, per unione o contrapposizione, un’espansione della mia memoria, un mio atlante audiovisivo dei fallimenti della Nazionale. Ho cominciato a ritroso dalle ultime immagini che scorrevano sulla TV, quelle delle dichiarazioni a bordo campo, per poi passare alle lacrime dopo il fischio finale, ai gol subiti, fino alle occasioni da gol mancate.