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Valentina Forlin
Elena Schiavo, ragazza ribelle
11 apr 2024
11 apr 2024
Intervista all'ex capitana dell'Italia, che nel 1971 partecipò a un Mondiale che nessun uomo voleva.
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Valentina Forlin
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Con Elena Schiavo parleremo anche domani, a Pordenone, nell'ambito del Pordenone Docs Fest. Sarà l'anteprima della nostra rassegna di documentari, In Campo, e ci saranno Dario Saltari e Valentina Forlin (potete acquistare i biglietti qui). Potete controllare tutte le date finora confermate di In Campo a questo link.Nel 1973 una donna andò a Teatro 10, allora un famoso programma televisivo della Rai. Il conduttore le chiese: «E lei, invece, cosa fa nella vita?», e lei rispose: «Io faccio l’ala sinistra».Quella donna, intervistata da La Stampa qualche tempo dopo, parlò dei pregiudizi attorno alla figura delle donne nel calcio in quegli anni: «Non è tanto l’insulto che mi disturba piuttosto l’ottusa ironia che il pubblico il più delle volte mostra nei nostri riguardi. Quando una persona mi fischia perché gioco male pazienza, questo fa parte del mondo della mia professione e dello sport, ma quando uno mi dice con un sorriso da ebete di andare a casa a fare la calza allora l’insulto mi ferisce profondamente perché svilisce la mia condizione di donna all’interno della società».Il nome di quella donna è Elena Schiavo. Oggi ha 76 anni e nel 1971 ha indossato la fascia da capitano della Nazionale italiana nel primo Mondiale di calcio femminile della storia, anche se non è ancora ufficialmente riconosciuto dalla FIFA e fino ad oggi in pochi lo conoscevano. Schiavo ha indossato la fascia davanti a centomila persone allo stadio Azteca a Città del Messico, l'ha indossata in uno dei momenti più incredibili nella storia del calcio femminile. Ha indossato le maglie di diverse squadre tra cui ACF Roma, Real Torino, Astro Corsetterie, Falchi Astro, Valdobbiadene, Padova, Bologna e Gorgonzola, vincendo in tutto quattro scudetti e due Coppe Italia. Per la verità il Mondiale messicano non fu il primo torneo internazionale della storia del calcio femminile. Ce n'è uno ancora precedente, e fu organizzato l’anno prima in Italia. Oggi è ricordato con il nome “Trofeo Martini & Rossi”, per via del nome dello sponsor che lo aveva promosso, quella Martini & Rossi che oggi conosciamo soprattutto per la celebre bevanda alcolica, e che allora, attraverso la società Martini International Club, provava a farsi un nome sostenendo e supportando economicamente gli eventi sportivi. Quello giocato in Messico l’anno successivo è la seconda edizione del Trofeo Martini & Rossi, ma per il successo che ebbe oggi è considerato di fatto il primo Mondiale femminile della storia.

Il trailer di Copa 71, documentario che racconta quell'incredibile Mondiale in Messico. Copa 71 è uno dei tre documentari che presenteremo con In Campo.

Della gente in fermento per le strade di Guadalajara, dei 110mila spettatori per la finale tra Messico e Danimarca, delle donne arrivate da Italia, Inghilterra, Germania, Argentina e Francia, delle loro storie e il loro calcio, oggi non rimangono che delle foto in bianconero su ritagli di giornale. Per ricordare quei momenti e restituirci un ritratto a colori ho pensato quindi di andare a parlare con Elena Schiavo, all’epoca capitana dell'Italia nonché una delle migliori giocatrici al mondo. Iniziamo con i suoi primi passi nel mondo dell'atletica.Da mezzofondista a calciatrice, perché scelse il calcio?[reply]Ho giocato a calcio fin da piccola ma non c’erano squadre quindi mi sono buttata sull’atletica. Ho stabilito il record regionale sui 400 e sugli 800, mi chiamarono in Nazionale e conobbi anche Maria Stella Masocco, la mamma di Buffon. Comunque il calcio non l’ho mai dimenticato. Un’estate andammo in ritiro ad Asiago con la squadra di atletica, c’era un campetto. Chiesi al professore di mettersi in porta, gli tirai due, tre staffilate micidiali, a quel punto lui mi disse che dovevo giocare a calcio e che a Roma stavano cercando una ragazza perché una giocatrice si era fatta male. Andai a Roma e vinsi lo scudetto anche se in realtà non avevo alcun merito. Arrivai a tre giornate dalla fine del campionato.[/reply]Una sua collega dice di lei che «con la sua potenza fisica era l’Ira di Dio». Ci si ritrova?[reply]Fisicamente ero forte, all’epoca io mi allenavo veramente da atleta e poche lo facevano davvero. Mangiavo bene, andavo a dormire presto e non mi fermavo la sera a giocare a carte. Poi avevo una mentalità forte, questo lo devo molto all’atletica. Il mio allenatore mi faceva fare così tante volte le ripetute sui 200 metri che le ultime due le facevo piangendo, è così che ho imparato a correre contro il tempo, sia letteralmente sia in senso lato. So di esser stata una giocatrice temuta, quando entravo in spogliatoio tutte si zittivano, non volava più una mosca. Qualche anno fa ho ricevuto un messaggio da un numero che non avevo salvato in rubrica quindi non sapevo chi fosse. Ho capito che era qualcuno che mi conosceva bene quando mi ha scritto: «Ciao belva». Era una ex compagna di squadra, per me è un complimento.[/reply]Dicono che lei sia stata di fatto la prima calciatrice professionista in Italia.[reply]Mi aveva cercata il Real Torino. All’epoca [era il 1969, nda] non giravano soldi, quindi io dissi a loro: sentite cari, io devo lasciare Udine dove ho l’atletica, la mia famiglia, le mie amicizie, i miei amori, non vorrete mica che venga lì per vivere di pane e acqua? Sono andata da un notaio e abbiamo messo tutto per iscritto, loro mi davano un appartamento e mi stipendiavano. Io sono stata un’apripista in tal senso, ho fatto capire alle ragazze che potevano avere un futuro. Comunque trasferirmi non è stato facile, immagina passare da un paese tranquillo a un città come Torino dove senti il rumore delle rotaie del tram tutto il tempo. Immagina vivere per cinque anni da sola in un posto che non conosci. Come dico sempre, sono partita da Udine che cantavo, sono tornata che non cantavo più.[/reply]Qualcuno ha cercato di ostacolarla nel fare la calciatrice?[reply]Sì, ma non me n’è mai fregato nulla perché una volta superato il giudizio di mia madre potevo superare qualsiasi cosa. Mia madre era la società. Per lei dovevo sposarmi e fare figli, un po’ quello che tutti si aspettavano al tempo. Io vincendo mia madre ho vinto la società, così facendo nulla poteva abbattermi, andavo in giro per il mondo e facevo quello che volevo. Quando la gente in paese chiedeva a mia mamma dove fossi lei rispondeva che solo l’FBI poteva saperlo. Nessuno mi ha mai domato e nessuno mi ha mai soffiato sul collo. Io sono sempre stata una ragazza senza targa, libera di fare, pensare, decidere e sbagliare.[/reply]E qual era la reazione delle persone quando negli anni ’70 diceva che giocava a calcio?[reply]Lasciamo stare. A me comunque non importava nulla, già solo per il fatto di essere una donna nello sport ne sentivo di tutti i colori, tutti i giorni. Noi però non ci lasciavamo scalfire altrimenti avremmo smesso molto presto di giocare. Nel 1970 ho sbagliato un rigore davanti a 60mila spettatori, era la finale [del trofeo Martini & Rossi, giocata a Torino, nda] contro la Danimarca, e mi sono beccata 60mila insulti. Abbiamo invaso un campo prettamente maschile, questo dava fastidio a tutti e non mi sembra che oggi le cose siano cambiate.[/reply]Cosa ricorda di quella partita?[reply]Al di là dell’amarezza per quel rigore sbagliato, un errore che mi porto dietro da tutta la vita, ricordo lo stupore provato per la quantità di gente allo stadio. In un giorno gli organizzatori avevano venduto 25mila biglietti e il giorno della partita le persone si accalcavano e si spingevano ai cancelli pur di entrare, per questo iniziammo addirittura in ritardo. Poi comunque bisogna dire che noi abbiamo perso quella partita perché le danesi erano più forti, ma solo perché all’epoca in Italia c’erano due federazioni nel calcio femminile e le calciatrici più forti giocavano nell’altra federazione, che non diede il permesso alle tesserate di essere convocate per quella competizione. [in quegli anni il calcio femminile non era ancora riconosciuto dalla FIGC e esistevano due Federazioni: la FFIGC, con sede a Roma, e la FICF, con sede a Torino; le due federazioni organizzavano due campionati diversi e vivevano un rapporto particolarmente conflittuale. L’organizzazione del Trofeo Martini & Rossi venne promosso dalla federazione di Torino, ragion per cui la federazione di Roma non diede il permesso alle atlete di essere convocate dal CT Giuseppe Cavicchi, nda][/reply]Nelle partite di campionato invece che genere di seguito avevate?[reply]Non so dirti di preciso quante persone venivano a vederci ma ce n’erano. La squadra che faceva più spettatori di tutti era il Gamma 3 di Padova, facevano spesso 5-6mila spettatori all’Appiani [lo stadio Silvio Appiani, casa anche del Padova maschile fino al 1994, nda]. A Padova amavano la squadra, la città e le giocatrici.[/reply]La Coppa del Mondo in Italia fu un successo e spinse i messicani a replicare la competizione l’anno dopo, qual è il ricordo più bello che ancora oggi porta con sé di quel Mondiale?[reply]È stato incredibile, un’organizzazione pazzesca. Abbiamo dormito nei migliori hotel, visto posti bellissimi. A Città del Messico abbiamo giocato con l’ossigeno il primo giorno perché la città è a 2200 metri sul livello del mare. Le città erano in fermento per questo Mondiale, la gente per strada cercava di comprare i biglietti e le maglie delle giocatrici, sono rimasta impressionata soprattutto dai messicani, un attaccamento alla maglia e al Paese notevoli. Pensa che la sera prima della semifinale i tifosi si sono messi sotto il nostro hotel e hanno fatto casino tutta la notte per non farci dormire. Il giorno della partita poi è stata un’emozione a sé, noi sapevamo di essere più forti delle messicane quando siamo entrate in campo, all’Azteca. Quando abbiamo visto centomila persone sugli spalti però è subentrata l’emozione. Immagina centomila persone che battono mani e piedi. Il campo trema, sembra che stia per crollare tutto da un momento all’altro ed è una sensazione difficile da descrivere se non la vivi.[/reply]

La Nazionale italiana ai Mondiali in Messico nel 1971.

Quella partita però non finì bene.[reply]No, infatti, ricordo ancora tutti i pezzi di ghiaccio che mi hanno lanciato in testa dagli spalti a fine partita. Eravamo furibonde, ci avevano rubato la partita annullandoci quei gol. Tra l’altro l’arbitro ha fischiato la fine dieci minuti prima e c’erano tutti i presupposti per far rigiocare la gara, ovviamente non accadde. Quel Mondiale è stato organizzato dai messicani, loro volevano guadagnare, secondo te chi doveva passare, noi o il Messico? Non avrebbero riempito lo stadio per la finale se il Messico non si fosse qualificato e di conseguenza non avrebbero guadagnato. Comunque noi e le messicane ce le siamo date di santa ragione. Qualche mese fa ho visto un video dove dicono che a distanza di anni la squadra che è rimasta più impressa è l’Italia. Quando hanno chiesto loro chi fosse la giocatrice italiana di cui si ricordavano di più, hanno detto: «Elena Schiavo, muy fuerte, muy rápida, muy cattiva». Poi mi hanno mandato un altro video dove tutte mi salutavano e l’ho apprezzato tanto.[/reply]Si dice che la squadra messicana aveva minacciato di non giocare la finale se la federazione non avesse corrisposto una cifra in denaro alle giocatrici. Di fatto tutti stavano guadagnando da quel Mondiale tranne loro. Lei che avrebbe fatto? [reply]Non lo so perché nemmeno noi abbiamo mai guadagnato qualcosa ma dico proprio in generale, in tutti gli anni di Nazionale non abbiamo mai ricevuto nulla, giocavamo tutte per la gloria e basta. Tra l’altro la cosa che mi ha fatto rimanere più male è che quando siamo tornate in Italia dopo il Mondiale nessuno ci ha più considerate, come se dall’oggi al domani il calcio femminile avesse smesso di esistere. Per carità, sapevamo di esser solamente una palla al piede per il maschile, però prima i giornali ne parlavano, nel bene e nel male, poi nemmeno più quello. Due anni dopo, però, abbiamo riempito San Siro [per un’amichevole contro la Scozia, nda].[/reply]È stato difficile lasciare il calcio?[reply]Piuttosto che il calcio desse l’addio a me, l’ho dato io a lui. Diciamo che un conto è lasciare quando sei nel pieno della salute e della carriera, un conto invece è lasciare quando hai problemi fisici. Io entravo e uscivo dagli ospedali, il mio fisico non reggeva più tutti gli infortuni avuti. Contro la Scozia a San Siro mi sono rotta il ginocchio e da lì è iniziato il mio calvario, ho fatto tredici interventi. Tra l’altro, siccome non avevo un contratto, ho pagato tutto di tasca mia. Io ho avuto tanto dallo sport ma oggi posso dire che ci ho rimesso in soldi e salute.[/reply]Cos’ha pensato quando ha saputo che alle giocatrici italiane sarebbe stato riconosciuto lo status di professioniste?[reply]Eh, lì mi sono girate un po’ le scatole, non lo nego. Ovviamente ero felice per loro e per tutte le ragazze che vogliono fare la calciatrice nella vita, però mi sarebbe piaciuto accadesse tanti anni fa. Noi ci abbiamo rimesso soldi, gambe, salute e abbiamo lottato per ricevere delle briciole ma non siamo mai state riconosciute. Anche il fatto che il Mondiale di Messico ’71 non sia mai stato riconosciuto dalla FIFA fa male. Nessuno ci ha mai chiamato per offrirci alcun riconoscimento anche simbolico nonostante siamo state delle pioniere.[/reply]Quanto le è costato nella vita e nel calcio essere una ragazza ribelle?[reply]Un po’. Intanto mi è costato otto giornate di squalifica prima di chiudere la carriera. Quando ti esponi per gli altri e cerchi di far sentire la tua voce ti assumi sempre dei rischi. Io ho sempre lottato contro il tempo, contro le avversità e contro i giudizi della gente.[/reply]Oggi è ancora una ragazza ribelle?[reply]Sempre.[/reply]

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