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Euro 2020 Daniele Manusia 14 luglio 2021 7'

Diario Italia: Campioni

Ce l’abbiamo fatta.

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E così, abbiamo vinto. Con merito? Senza dubbio. Dominando? No. Con un po’ di fortuna? Senza quella, come si dice, non si va da nessuna parte in ogni caso. Ecco però una cosa indiscutibile, con cui anche gli analisti meno entusiasti devono fare i conti: non abbiamo perso. Nessuna squadra è stata in grado di batterci, né le piccole e agguerrite (Austria) né quelle grandi sulla carta ma che, insomma, a conti fatti poca roba (Belgio e Inghilterra) né l’unica squadra che è sembrata esserci superiore (la Spagna, ovviamente). Neanche la squadra di casa, neanche con lo stadio pieno, neanche partendo praticamente con un gol di vantaggio, è riuscita a sconfiggere l’Italia giovane e inesperta di Roberto Mancini. Un’Italia evidentemente più resistente di quello che si pensava, che ha saputo restare in partita anche quando la davano per spacciata. Come contro la Spagna (dopo che la differenza di qualità nella pressione e nel recupero palla era diventata chiara), così contro l’Inghilterra (dopo essere andata sotto di un gol alla prima azione della partita) la nazionale italiana è rimasta in campo con l’aria magari smarrita, con la paura iniziale di prenderne altri, di fare una figuraccia, ma senza agitarsi, senza andare nel panico. Cosa dovremmo fare, uscire dal campo? Darvi la coppa? Quanto meno giochiamola per intero questa finale.

 

E l’hanno giocata. A mio avviso neanche benissimo, ma con coraggio e tranquillità. Si sono presi ogni metro che l’Inghilterra lasciava loro, e poi mezzo metro in più, per semplice sfacciataggine. L’Inghilterra col suo italianissimo 5-4-1 (anche il gol è mazzarriano, col cross di un esterno per l’esterno dal lato opposto) ha finito col lasciargli quasi tutto il campo, calciando alto e lungo ogni volta che potevano, perché tutto ciò che contava per loro era finirla, quella partita. Fosse stato per l’Inghilterra, anzi, neanche sarebbe dovuta cominciare. O almeno questa era l’impressione che davano, una strana combinazione di arroganza e fragilità. Poi ogni tanto si ricordavano di giocare un po’ anche loro, ma non c’era gioia, non c’era divertimento, sembrava una questione puramente formale. Quanto manca alla fine? Davvero dobbiamo giocare anche il secondo tempo? L’Italia è cresciuta, ha iniziato a crederci, forse si è anche indispettita per l’atteggiamento inglese. Perché una cosa è fidarsi della fisicità dei difensori centrali, un’altra è difendere pensando che in ogni caso sia impossibile che gli avversari ti segnino un gol. Vedi a non subire gol su azione per tutto il torneo che succede? Che poi ti segna Verratti di testa, o quasi.

 

Miei momenti preferiti della finale:

 

– Luke Shaw che perde tempo su una rimessa laterale, sarà stato il settimo minuto, forse l’ottavo o il nono, e l’arbitro lo rimprovera.

 

– Jorginho che evita con un sombrero Kalvin Phillips.

 

– L’azione da pazzo di Chiesa, il primo tiro in porta dell’Italia, con Chiesa che parte da centrocampo palla al piede e poi mira il primo palo di sinistro. Fosse entrato, sarebbe stato il gol più bello dell’Europeo e Mbappé sarebbe stato geloso.

 

– Roberto Mancini a fine primo tempo, per la prima volta in tutto il torneo leggermente arrabbiato, nervoso. Southgate in compenso poteva mandare ad allenare la sua statua di cera del Madame Tussauds (se gliene hanno già dedicata una) che non sarebbe cambiato niente (forse la statua avrebbe preso decisioni migliori).

 

– La faccia di Saka dopo il fallo di Chiellini, come a dire che c’è un limite a tutto. Chiellini gli dà la mano come se non fosse successo niente di eccezionale perché, beh, il suo limite è mooooooolto più in là di quel fallo da WWE. Lui una volta si è persino preso un morso sulla spalla in un Mondiale. Che carriera.

 

– Donnarumma che muove leggermente la gamba quando Rashford fa una pausa in mezzo alla rincorsa per il rigore. La finta sulla finta, non te l’aspettavi vero? Così presente, così concentrato Donnarumma, che alla fine neanche si era accorto di aver vinto.

 

Donnarumma-rigore-Saka

 

Resta il mistero di cosa abbia detto Mancini alla squadra tra primo e secondo tempo. Al rientro dalla pausa ogni timore reverenziale è svanito e anche quando l’Inghilterra è tornata a farsi avanti dopo il pareggio – difficile entrare e uscire dalle partite a piacimento, finché i giocatori non avranno l’interruttore on/off – l’Italia ormai era in grado di giocare una partita normale, e tanto bastava.

 

Non è stato un torneo trasformativo, l’Italia non ha trovato una nuova identità, una nuova dimensione. Ha vinto perché, a conti fatti, quasi nessuna squadra era preparata e motivata quanto lei, ma anche se può sembrare paradossale è più o meno nello stesso punto del proprio percorso in cui era prima che il torneo iniziasse. Ha scoperto risorse mentali che non poteva sapere di avere prima di affrontare momenti difficili e duri, e questa è un’ottima notizia, e ha vissuto quattro serate straordinarie, indimenticabili, ma se vorrà farla crescere Mancini dovrà fare autocritica.

 

Non dovremo ripetere l’errore fatto nel 2006, cioè. E d’accordo questa squadra non è a fine ciclo, a differenza di quella, ma Mancini non dovrà sentirsi in debito con nessuno. Dovrà continuare a sperimentare, a fare ricerca. Come ha fatto durante il torneo, d’altra parte: la mossa di Insigne falso nove, ad esempio, è stata utile e ci ha detto qualcosa sulle qualità necessarie per giocare al centro dell’attacco di questa squadra (oppure, se volete vederla dal punto di vista di Immobile, ci ha detto che bisogna cambiare qualcosa per giocare con lui, magari mettere un trequartista e lasciargli fare la punta da profondità). Se davvero vogliamo fare di questa vittoria storica un punto di partenza, dobbiamo guardare in faccia anche quello che non ha funzionato.

 

Con l’Austria non abbiamo resistito alla loro intensità, ci siamo allungati e ci siamo stancati. Con la Spagna il nostro palleggio e il nostro pressing sono stati inferiori ai loro: culture diverse, ha detto qualcuno, bene allora se vogliamo giocare come loro cominciamo ad educare e selezionare calciatori per fare gioco di posizione, a cominciare dalle nazionali giovanili (vedi l’Under-21 che gioca un calcio opposto, del tutto speculativo). Con l’Inghilterra poi abbiamo avuto grandi difficoltà a perforare il loro blocco, a giocargli tra le linee e a costruire occasioni pulite. Sono tutte cose su cui si può lavorare, con l’aiuto dei club italiani, ovviamente.

 

Ecco, diciamo che dopo questo Europeo nessuno potrà più dire che avere un’organizzazione sia un vezzo frivolo da “giochisti”, che costruire dal basso sia più rischioso che conveniente, che per vincere servono i campioni. Soprattutto, non sono cose in contraddizione con uno spirito di squadra che ti permetta anche di resistere una partita intera in difesa o che ti spinga alla ricerca di un gol in mischia come quello che ci ha regalato la finale (perché non fai un gol del genere se non hai voglia di vincere nonostante tutto, in qualsiasi modo sia possibile). Costruire dal basso serve semplicemente a mettere gli attaccanti nelle condizioni migliori. Avere un piano chiaro su come gestire la palla e recuperarla vicino alla porta avversaria, semplicemente, è meglio che non averlo.

 

Adesso torneremo al calcio che amiamo più intimamente, quello del calciomercato e delle polemiche ogni settimana. Cerchiamo però di non dimenticarci di questo momento in cui siamo stati in grado di prendere solo il meglio da quello che vedevamo nella Nazionale. Siamo passati sopra l’antipatia per i giocatori di  squadre “nemiche”, siamo andati oltre la polemica per l’inginocchiamento (certo, sarebbe stato meglio parlarne con maggiore chiarezza), abbiamo persino discusso pochissimo di chi avrebbe dovuto far giocare Mancini. Ci siamo fidati, per una volta nella nostra vita di allenatori immaginari. E ci siamo fidati di questi giocatori, perché magari non era una squadra perfetta ma, anche se avessero perso in finale, o prima, sarebbe stato difficile trovare qualcosa da rimproverargli.

 

Non so se c’è una lezione da imparare da questo Europeo. Se questa squadra incosciente e fortunata può esserci da esempio in qualche modo. So solo che non voglio tornare a vivere in un’Italia divisa su ogni minimo argomento, in cui non è chiaro neanche cosa sia giusto e cosa sbagliato, in cui non c’è niente di semplice, in cui non si fa mai autocritica, in cui ognuno pensa solo ai cazzi propri e se qualcuno ci muore vicino l’importante è che non siamo stati noi a ucciderlo, oppure, in caso siamo stati effettivamente noi, che nessuno ci abbia visto. Mi è piaciuta questa Italia in cui ognuno si prendeva le proprie responsabilità, e dove non arrivava uno ci pensava un altro. Dove se Chiellini non riesce a calciare la palla, trascinato a terra da Stones, ci pensa Verratti a lanciarsi in tuffo per colpire di testa, e se ancora non basta, se Pickford manda la palla sul palo, è Bonucci a sbatterla dentro. Dove se Jorginho sbaglia il rigore decisivo, ci pensa Donnarumma a parare quello dopo. Quest’Italia che non si accorge neanche di aver vinto, perché in fondo tra vincere e perdere c’è una differenza sottile e non sempre dipende da noi.

 

Mi è piaciuta anche la dedica di Chiellini ad Astori. Perché un’Italia che non dimentica i propri drammi, che non passa da un argomento di discussione all’altro, e che si porta dentro i drammi della propria contemporaneità, è un’Italia più matura di quella che ogni giorno sui social cavalca un’onda diversa. Da Genova a Stefano Cucchi, da Seid Visin ai morti sul lavoro, dai lavoratori schiavizzati nei campi ai rifugiati morti in mare, dai giovani senza un lavoro e senza speranza, dalle leggi ingiuste nei confronti delle minoranze alle aggressioni vigliacche nei confronti di gay, lesbiche, trans e tutto ciò che non è conforme ai codici di un Paese che qualcuno vorrebbe fermo a trenta o quaranta anni fa. Portiamoci tutto dentro, controlliamo la rabbia e giochiamo la nostra partita. Senza fretta e senza darci per vinti perché le partite, anche se prendi gol dopo un minuto, ne durano altri ottantanove (o centodiciannove, insomma ci siamo capiti).

 

Caro diario, ci rivediamo al prossimo torneo internazionale. Con la stesso spirito, mi raccomando.

 

Tags : euro 2020italia

Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).

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