A che punto è il calcio in Asia?
Il movimento calcistico asiatico è in forte espansione: romperà il duopolio Europa-Sudamerica?
Sydney, Seoul, Tokyo
Se la Cina guarda ai suoi vicini, c’è un motivo valido: a oggi, il trittico Australia-Corea del Sud-Giappone domina l’Asia. Non tanto attraverso i club (sono soprattutto quelli sudcoreani ad andar bene), ma con le nazionali. In parte, questo scenario è dovuto alla tradizione. Guardiamo la Corea del Sud, dove la K League non naviga nell’oro, gioca in stadi non così pieni e ha vissuto l’ennesimo scandalo legato alla corruzione.
Tuttavia, la Corea del Sud ha una tradizione, fa crescere bene i suoi giocatori (nonostante il problema della leva militare) e prosegue nel suo dominio. Quanti avrebbero puntato sui Taeguk Warriors – solidi, ma poco spettacolari allenati da Stielike – in finale di Coppa d’Asia nel 2015? Pochi, eppure ci sono arrivati. E per poco non hanno rovinato la festa agli australiani, perdendo solo ai supplementari. Chi però sta facendo salti da gigante, e senza una debordante dote economica alle spalle, sono Giappone e Australia.
Non tutti possono essere Mat Ryan o Aaron Mooy, ma gli australiani sono ora consapevoli di come anche in un paese giovane dal punto di vista del professionismo è possibile creare del calcio d’avanguardia (Amor e il suo Adelaide United) o superare la perdita di una generazione che ha segnato la storia recente del calcio australiano (quella dei Kewell, degli Schwarzer e a breve dei Cahill), vincendo la Coppa d’Asia in casa.
Non ci sono più stelle assolute, ma la qualità-media si è alzata e il passaggio dalla confederazione oceanica a quella asiatica è stato azzeccato. A questo si è aggiunto lo sviluppo dell’A-League: una lega giovane, ma che sta crescendo bene, dando alla Nazionale diversi giocatori interessanti. Ci sono persino storie di reietti della Serie A che si rilanciano e diventano idoli o di gruppi che intravedono le potenzialità australiane e investono in un club di Melbourne (con il solito rebranding).
Ma l’obiettivo non è fermarsi ai dieci club attuali, perché ci sono altre realtà che potrebbero aggiungersi negli anni a venire. In 12 anni di vita – l’A-League ha sostituito la moribonda National Soccer League nel 2004 – tre club hanno abbandonato la lega, ma c’è voglia di calcio in Australia: secondo quanto rivelato nel novembre scorso, Brisbane, Tasmania, Auckland, Canberra, Wollongong e la parti sud di Melbourne e Sydney tenteranno l’ingresso nell’A-League entro il 2020.
A livello organizzativo, però, il Giappone rimane il paese asiatico di gran lunga più avanzato. Che siano programmatici fino all’esaurimento è ben noto, e le ultime notizie sono estremamente incoraggianti.
J. League is kawaii.
La J. League ha avuto una genesi stile Chinese Super League, con la differenza che il calcio era una realtà più solida che in Cina: nel ’93 i club amatoriali – una sorta di dopo-lavoro delle grande aziende nipponiche – diventano professionisti e così parte la prima stagione della J. League, con diverse stelle europee o sudamericane pronte a giocare in Giappone per tanti yen.
Ma la grande crescita economica del secondo dopoguerra si è esaurita a fine anni ’90: the Lost Decade ha generato un periodo di crisi economica, con una bolla speculativa trasformatasi in deflazione. Questa ha segnato il paese e di riflesso le possibilità delle aziende, che ancora oggi gestiscono diversi club. La corrispondente diminuzione degli spettatori – la media del ’97 è inferiore di quasi 9000 persone rispetto a solo tre anni prima – ha messo in crisi la J. League, ma la programmazione è riuscita parzialmente a compensare.
Il Giappone è stato bravo, ma anche fortunato: durante la crisi economica, il Sol Levante si era assicurato l’organizzazione dei Mondiali, seppur in co-abitazione con la Corea del Sud. Questo ha creato un immaginario calcistico nel paese: molti giocatori odierni dicono di essersi avvicinati al calcio proprio ricordando quell’evento.
Inoltre, la Nazionale è cresciuta: nel 1988, la Nippon Daihyo non aveva mai disputato un Mondiale e si apprestava a giocare la sua prima Coppa d’Asia. Oggi il Giappone è forse la Nazionale asiatica più forte, ma soprattutto ha vinto quattro delle ultime sei Coppe d’Asia (perdendo una sola gara delle ultime 28 disputate nella competizione durante i 90’) e ha partecipato a cinque Mondiali di fila (raggiungendo gli ottavi nel 2002 e nel 2010).
Se la Nazionale si è costruita uno status ormai consolidato, è la J. League che sta di nuovo crescendo. L’economia attraversa ancora delle difficoltà, ma s’intravedono i primi frutti del 100 year-plan per il calcio nipponico. I club dotati di una licenza professionistica sono 56, sparsi su tre divisioni – il piano è arrivare a 100 entro il 2092, magari vincendo il Mondiale – e alcuni stadi sono modelli da seguire. Con l’interesse crescente per il sakkā, il Giappone sembra poter diventare la potenza asiatica più stabile.
Ci sarebbe il gioiellino Suita City Football Stadium di Osaka, ma persino una squadra come il Giravanz Kitakyushu – retrocessa in terza divisione – aprirà nel 2017 un impianto del genere.
Ci sono stati alcuni passaggi a vuoto: le scarse performance dei club nella Champions League asiatica; la media-spettatori alta, ma non soddisfacente; il breve ritorno al two stage-format, che dal prossimo anno sparirà. Ma il 2016 è stato l’anno d’oro dal punto di vista commerciale. La J. League ha visto le sue squadre comparire in maniera ufficiale su FIFA 17 e ha stretto accordi proprio con EA Sports e TAG Heuer. Ma l’operazione migliore è stata quella con il Perform Group: 210 miliardi di yen per un accordo decennale (183 milioni di euro all’anno, vicini ai 213 dei diritti tv in Cina) con il gruppo britannico, che daranno ulteriori fondi ai club per espandersi, ma soprattutto aumenteranno l’interesse per la J. League senza bisogno di ricorrere a super-star o ingaggi faraonici.
Lo ha confermato James Rushton, il rappresentante di Perform Group: «Non siamo qui per fare beneficenza. L’investimento è a lungo termine: se il calcio giapponese continuerà a crescere come sta facendo, avremo un ritorno economico». L’affare è per tutti, visto che il Perform Group punta a diventare una sorta di Netflix in ambito sportivo, trasmettendo quindi la J. League in streaming tramite DAZN (una piattaforma lanciata quest’estate per lo sport on line).
Il fatto che una azienda straniera abbia stretto un accordo del genere è un altro segnale di come in Asia le cose stiano progredendo.
Le altre (e il ranking “bugiardo”)
Per capire quanto il panorama restante stia cambiando, dobbiamo dare un’occhiata al ranking Elo. Il suo nome omaggia l’inventore di questa formula, Élő Árpád Imre, un professore di fisica nato nell’impero austro-ungarico, poi trasferitosi negli States e diventato possessore di una cattedra a Marquette, nonché gran giocatore di scacchi.
Per molti uno strumento sconosciuto, l’Elo è una misurazione alternativa a quella della FIFA, ma più veritiera, perché inserisce una serie di variabili fondamentali (il fattore campo, l’importanza del match e il numero di gol). Tanto che la FIFA ha parzialmente ceduto e il ranking femminile è calcolato con una formula che prende spunto da quella Elo. Non è un caso che la top 10 delle nazionali maschili sia molto diversa tra FIFA e Elo. La differenza però diventa insormontabile quando si analizza la posizione dei team asiatici nei due ranking.
Dicembre 2016.
Tralasciando il fatto che l’Elo contempli Russia e Turchia nell’Asia, l’Iran paga sei posti rispetto al ranking FIFA; la Corea del Sud 14, il Giappone 18, l’Uzbekistan 16, il Qatar 19. E nel frattempo altre realtà si stanno sviluppando in Asia.
Parte del merito va a una competizione come l’AFC Cup, l’equivalente dell’Europa League per le federazioni minori (o paesi in via di sviluppo) in campo continentale: è grazie a questa che club del Kuwait, della Giordania, della Malesia o dell’India si sono potuti giocare un trofeo e crescere ancora.
Due casi da citare sono quelli dell’Uzbekistan e dell’India. Il primo per la sua Nazionale: il campionato non ha avuto grossi sviluppi (sebbene continui a produrre giocatori per i Lupi Bianchi), ma club come il FC Nasaf hanno vinto l’AFC Cup e poi si sono ritrovati a giocare la Champions League asiatica per tre volte. A questo, va aggiunto che l’Uzbekistan sta facendo benissimo: già vicino ai Mondiali 2006 e 2014, ora è in corsa per un posto nel 2018.
Alla voce talenti da guardare, Sardor Rashidov, fine mancino.
L’India, invece, vive con proporzioni diverse lo stesso fenomeno della Cina: una popolazione numerosa, ma una cultura del calcio che manca. A crearla sta provando l’Indian Super League, che – come la CSL e J. League – sta acquistando soprattutto manovalanza estera per crearsi un nome e delle basi da cui partire. I risultati si vedranno forse tra vent’anni e solo una maggior collaborazione con l’I-League – il vero campionato nazionale, visto che l’ISL non fa parte della piramide calcistica indiana – porterà dei veri cambiamenti. Per ora la Nazionale fatica (battuta persino dal Guam) e l’espansione della lega è in divenire.
Sorpasso?
Nonostante questi cambiamenti, però, non si vedono ancora progressi tali sullo scenario internazionale da predire un sorpasso dell’Asia. Il podio tra le confederazioni è realtà, visto che l’Africa delude e la CONCACAF si regge molto (forse troppo) sul duopolio USA-Messico e sulla costante crescita della MLS. Ma poi? Ci sono margini per salire ancora?
Ci sono elementi che fanno pensare di sì. Non solo l’aumento della qualità media, i fondi a disposizione e i guai che stanno azzoppando la rincorsa delle altre confederazioni, ma anche perché quel duopolio Europa-Sud America – un tempo solido e inattaccabile – sta mostrando qualche crepa. Come ha sottolineato qualcuno dopo il 3-0 dei Kashima Antlers all’Atlético Nacional nel Mondiale per club, specialmente le rappresentative dell’America Latina stanno facendo fatica sullo scenario internazionale.
Il punteggio è ingannevole, ma l’esito imperdonabile.
Eppure la pessima performance delle sue squadre al Mondiale 2014, tutte fuori nella fase a gironi, ha dimostrato che la strada è ancora tanta da fare. Se non altro perché partire con quasi un secolo di ritardo rispetto ad altri continenti si fa sentire soprattutto negli aspetti più intangibili – dell’immaginario, della forza culturale, in altre parole: della tradizione – ma comunque fondamentali, alla fine dei conti, per ottenere dei risultati.
Nel frattempo il calcio interessa sempre di più in Asia, con presenze notevoli nelle partite di qualificazione al prossimo Mondiale (63mila per un Cambogia-Singapore o 50mila per un Thailandia-Taipei Cinese sono tanti). Magari ha ragione Football Benchmark, braccio sportivo della KPMG, quando dice: «Non è tanto una questione di se, ma di QUANDO le leghe asiatiche supereranno i principali campionati europei».