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Foto di DI YIN/Getty Images
Calcio Daniele Manusia 28 luglio 2020 6'

Fellaini è l’anticalcio?

Omaggio a un giocatore unico.

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Sono tre anni che non scrivo di Marouane Fellaini. Da quando, in finale di Europa League, ha vinto 15 duelli aerei contro l’Ajax diventando l’emblema di un calcio brutto ma efficace, anti-poetico stando alle parole di José Mourinho. Di come si dovrebbe giocare a calcio si è parlato molto ultimamente, soprattutto in Italia, ma Fellaini è un nome che non piace neanche ai pragmatisti, come se si trattasse di un fantasma venuto dal passato. All’epoca aveva ancora i capelli lunghi, o meglio larghi, voluminosi, dotati di un carattere proprio, una creatura appollaiata sulla sua testa in equilibrio precario. Nonostante questa nota stilistica buffa quella di Fellaini era l’immagine in bianco e nero colorata in post-produzione di un giocatore spigoloso perfetto per i campi infangati di un secolo fa.

 

Oggi, a quasi trentatré anni, Fellaini gioca in Cina, allo Shandong Luneng, e con i capelli corti sembra che in qualche modo voglia dare un’immagine più sincera di sé, come se avesse rinunciato a provare anche solo a piacere a qualcuno. Sembra solo il più alto dei fratelli Dalton di Lucky Luke, o al massimo il protagonista di un noir ambientato in una qualche città francese in macerie, nella Roubaix di Arnaud Desplechin, nella Le Havre di Kariusmaki. E il calcio sembra ancora più diretto verso un ideale in cui la palla è sempre a terra, in cui si segna poco di testa, solo da calcio piazzato (e per quello ci sono i difensori-goleador). Chissà, magari anche Mourinho, adesso che allena calciatori moderni e poliedrici come Harry Kane e Son, lo rinnegherebbe, lo terrebbe in panchina come una bici arrugginita che non serve più in un mondo di monopattini elettrici in sharing. Come ci si sente ad essere considerati l’anti-calcio? Un’eccezione, un’anomalia storica?

 

Eppure è proprio per questo che ho sempre amato Fellaini. Perché in un gioco la cui anima è contesa eternamente da ordine e controllo, Fellaini rappresenta il superamento del conflitto stesso. Fellaini è in controllo nelle situazione caotiche, mette ordine nella tempesta e al tempo stesso non potrebbe vivere al riparo delle intemperie, è troppo grosso e sgraziato per eseguire una coreografia preordinata. Gioca nell’unico modo in cui sa giocare, come tutti i grandi calciatori d’altra parte, ma in un modo in cui nessun altro saprebbe giocare. Anche se lo descrivono come una figurina bidimensionale, una caricatura come quelle che nei film di mafia vengono mandate a riscuotere i debiti o a spezzare le gambe dei debitori, Fellaini ha l’unicità dei migliori. Quando Fellaini è in campo il contesto è il suo. Si gioca il calcio di Fellaini.

 

L’altro ieri è ricominciato il campionato cinese, lo Shandong Luneng di Fellaini ha giocato contro il Dalia di Benitez, Hamsik e Salomon Rondon. E in assenza di altri attaccanti (tra cui Graziano Pellé, in panchina per novanta minuti), Fellaini ha giocato la maggior parte della partita in attacco. Ovviamente perde molto della sua efficacia, muovendosi incontro alla palla anziché spingendosi in avanti prendendo di sorpresa le difese, ma la sua partita è stata arricchita da almeno un paio di stop di petto pregevoli e sponde di testa in profondità, per compagni di squadra che, a dir la verità, non sembrano aver capito esattamente come sfruttare le sue caratteristiche. Vestito di arancione, sembra davvero una giraffa ammaestrata per vincere duelli aerei.

 

La sua squadra perdeva 1-0, prima che Fellaini segnasse una tripletta in 8 minuti, dal 79esimo all’86esimo minuto di gioco. Forse non andrebbe nemmeno specificato, ma ovviamente ha segnato tutti e tre i gol di testa.

 

Marouane Fellaini scored a hat-trick inside of 8 minutes today in the chinese super league incredible scenes !!🔥🔥🔥 pic.twitter.com/bNmmfvvaHw

— AppreciateGreatness (@ApGreatness) July 26, 2020

Marouane Fellaini è il giocatore meno attuale del momento anche perché nel calcio post-covid – diciamo così, anche se la pandemia non è mai passata – in cui sarebbe meglio se i giocatori mantenessero le distanze di sicurezza, o se un corpo non ce l’avessero proprio, è impossibile non scontrarsi con uno delle sue dimensioni. Gli avversari non possono evitare che li avvolga come un polpo, che per colpire di testa se li infili letteralmente sotto l’ascella. Se Iniesta e Xavi ci illudevano che per giocare a centrocampo non fosse necessario essere più grossi o più forti degli altri, che la tecnica e l’intelligenza potevano colmare qualsiasi gap atletico o di proporzioni; e il calcio attuale, di Guardiola ma anche di Klopp, spinge sempre in quella direzione, usando semmai l’intensità e la rapidità di esecuzione, il ritmo costantemente alto, al posto del puro dominio fisico, Fellaini si ostina a resistere in un calcio ancora più passato: il controllo pugilistico della sua zona di campo e della palla va di pari passo con il rallentamento, con la pausa. Neanche volendo Fellaini potrebbe fare da acceleratore, il suo corpo non è fatto per le alte velocità. La profondità e l’ampiezza non sono il suo forte; la sua dimensione è quella più ignorata dagli allenatori moderni: l’altezza.

 

Il suo calcio è tutto tranne che teorico, è tattile. Fellaini gioca come se brancolasse nel buio, tocca gli avversari in continuazione come un non vedente che li utilizzi per orientarsi. Il suo calcio non è prevedibile, né concettualizzabile, è fatto di sensazioni. Senza avversari con cui giocare a salirsi sopra l’un l’altro, Fellaini sarebbe perso. Se mi passate l’espressione, Fellaini è un intellettuale del corpo, uno che anziché approfondire gli aspetti astratti del gioco ha spinto il più in là possibile i diversi utilizzi del suo strumento in dotazione: delle sue gambe da cavallo, delle braccia robotiche che tiene sempre ruotate verso l’interno, in modo da spingere i gomiti in fuori, del petto largo e alto come se giocasse con un cuscino infilato sotto la maglia da gara.

 

Ma un calciatore che utilizza il petto con la stessa sensibilità con cui Messi tocca la palla con l’interno del piede non può essere ridotto a uno stereotipo arcaico, a un feticcio primitivo. Certo, è difficile dire che aggiunga un qualsiasi tipo di spettacolo al campionato cinese. Se però conoscete Fellaini e siete dei fan dei suoi controlli, persino nella partita contro il Dalian si trovano dei momenti pregevoli. Un paio di stop di petto in cui accompagna la palla a terra con una delicatezza sorprendente, ruotando sul piede perno e tenendo l’avversario alle spalle. Dei colpi di testa che sembrano palleggi da pallavolo, oppure delle stoppate sotto canestro.

 

Al 79esimo però la partita di Fellaini cambia. L’azione del primo gol la comincia Guo Tianyu, un ventunenne cinese che sembra la versione aggiornata di Fellaini: 1 metro e 92 centimetri ma svelto di gambe. La palla arriva sull’esterno destro e il cross sul secondo palo è alto per tutti tranne che per Fellaini, che anzi deve colpire ingobbendosi. Il secondo e il terzo gol sono simili, entrambi su calcio d’angolo battuto da destra, con la difesa di Benitez che marca a zona e Fellaini che parte dal limite dell’area e colpisce di testa all’altezza del dischetto. Per il secondo gol deve saltare e sembra un giocatore di NBA che schiaccia a canestro, per il terzo deve di nuovo chinarsi. Nel primo gol non esulta, perché è il gol dell’1-1 e invita solo i compagni a tornare a centrocampo, dopo il secondo ride, dopo il terzo sembra il più incredulo di tutto, con gli angoli delle sopracciglia e della bocca tirati verso l’alto.

 

A marzo Fellaini è risultato positivo al Covid-19. Alla prima partita al rientro ha segnato una tripletta in meno di dieci minuti, dopo averne passati settanta a litigare con lo spazio fisico del campo da calcio. Fellaini è andato in Cina a 32 anni, lo scorso gennaio, ma a noi pareva già vecchissimo, come se fosse stato un giocatore dei tempi dei nostri padri, dei nostri nonni, per qualche ragione durato fino ai “nostri” giorni. Ma non c’è mai stata nostalgia per lui, non ha mai avuto niente di romantico o romanzesco.

 

Più che alla mancanza di poesia, però, il modo in cui Fellaini gioca a calcio ci riporta alla materialità più immediata del calcio, senza il riscatto dell’armonia che ci consola di solito nei grandi atleti. La sua non è grettezza o brutalità, quanto piuttosto l’espressione della fatica che fanno i nostri corpi a muoversi in lotta continua con le leggi della fisica. 

 

 

Tags : cinamarouane fellaini

Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).

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