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Francesco Esposito
Comprare il calcio
23 feb 2024
23 feb 2024
Storia di paesi che decidono all'improvviso di spendere per diventare potenze calcistiche.
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Francesco Esposito
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Illustrazione di Andrea Chronopoulos
(foto) Illustrazione di Andrea Chronopoulos
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Nell’agosto di quest’anno, sotto la grande tenda dedicata al Re Fahd che campeggia al centro dell’altopiano desertico del Neged, poco distante dalla grande città-oasi di Riyad (letteralmente “giardini” in arabo), si è tenuta una grande festa. Un importante ospite è giunto da occidente per offrire i suoi servigi al regno del principe ereditario Mohammed Bin Salman. È considerato un grande maestro e le sue gesta sono note in tutto il mondo. Il popolo è in festa e lo accoglie con canti e balli. Migliaia di torce rischiarano la notte del deserto.

Non è l’incipit di una delle Mille e una notte, ma la presentazione ufficiale di Neymar con la squadra saudita dell’Al-Hilal. Il calciatore brasiliano - uno dei più geniali, discussi e famosi dell’ultimo decennio - entra nel campo che dovrebbe vederlo protagonista per almeno due anni: quello del King Fahd Stadium, la cui architettura si ispira effettivamente alle tradizionali tende beduine di questa parte della penisola arabica.

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La presentazione è simile a quella che molti giocatori ricevono anche in Europa, ma assume tratti più sfarzosi, c’è una ricerca di magnificenza più esasperata. Nel cielo vengono proiettati giganteschi ologrammi che ci ricordando che il futuro è qui. Dai video che arrivano a noi in Italia se ne susseguono altri, tutti molto interessanti per motivi diversi. Quello che mi colpisce di più scrive: “Welcome to RSL [Roshn Saudi League, ndr]". L’attaccante brasiliano non viene, quindi, presentato solo come nuovo giocatore dell’Al-Hilal, ma anche come nuovo giocatore dell’intero campionato saudita. Una strategia comunicativa sconosciuta per quanto riguarda i campionati europei, dove anzi, l’acquisto è “contro” il resto del campionato.

La reazione della stragrande maggioranza degli appassionati europei per quest’operazione di mercato, come per molte altre, è stata di rabbia, sdegno, e, nel caso particolare di Neymar, anche rassegnazione. In Italia, dove non è particolarmente apprezzato per usare un eufemismo, è stato percepito da molti come la goccia che fa traboccare il vaso, il segno che qualcosa è cambiato definitivamente. Peggio ancora: come suggeriscono alcuni commenti sotto il tweet che riportava i dettagli economici dell’accordo scritto da Fabrizio Biasin – uno dei giornalisti sportivi più seguiti sui social in Italia– viene percepito come la conferma che “il calcio è morto/finito”.

I soldi messi in campo dal campionato saudita nell’ultima sessione di mercato sono davvero tanti: quasi un miliardo di euro è stato speso quest'estate dai club della Saudi Pro League; cifra astronomica che assume contorni ancora più fantascientifici se pensiamo che nella stagione 2022/23 le stesse società avevano speso poco meno di 44 milioni. Sicuramente questo pesante afflusso di denaro ha dei connotati “apocalittici”, anche solo perché viene da un regno autoritario che fa fiorire grattacieli e emergere isole nel deserto, ma non è la prima volta che viene annunciata la morte del calcio e tutte le volte è stata collegata al denaro.

Il legame fra denaro e calcio è quindi stretto e molto più antico dell’arrivo dei soldi sauditi, cementato da un professionismo precoce rispetto ad altri sport e da un rapidissimo radicamento nelle masse. Un legame che ha da subito suscitato l’interesse da parte della politica e del capitale, interessate all’attrazione popolare che da sempre ha caratterizzato il calcio. Gli esempi sono molti e risaputi. Dagli Agnelli che rendono la Juventus la Nazionale della Serie A a Silvio Berlusconi e alla proiezione delle sue manie di grandezza sul Milan - solo rimanendo in Italia.

Quando però questo legame si palesi in Paesi con regimi politici diversi dalle democrazie liberali, da parte della stampa e dell’opinione pubblica occidentale l’accusa che viene mossa è quella di sportwashing - cioè lo sfruttamento dello sport a fini propagandistici, per distrarre l’opinione pubblica dallo scarso rispetto dei diritti umani. In un articolo di circa un anno fa, l’accademico ed ex calciatore Jules Boykoff ha per la prima volta definito lo sportwashing: “un fenomeno per cui i leader politici usano lo sport per apparire importanti o legittimi sulla scena mondiale, alimentando al tempo stesso il nazionalismo e distogliendo l’attenzione dai problemi sociali cronici e dalle sofferenze dei diritti umani sul fronte interno”, rimarcando però come questo possa essere portato avanti sia da regimi autoritari che da quelli democratici.

La parola sportwashing è molto recente ma la pratica descritta è molto antica. Possiamo far risalire addirittura alle Olimpiadi antiche l’utilizzo dello sport a fini politici, o ai giochi gladiatori dell’Impero Romano con cui l’élite politica provava a distrarre la plebe dai problemi quotidiani.

Al di là delle radici storiche, comunque, il termine sportwashing risulta erroneo o quantomeno carente per un altro motivo: implica che i regimi che lo praticano vogliano indossare una maschera e presentarsi come diversi da quello che sono e più somiglianti allo standard culturale e politico dominante. Ma spesso non è così. Lo sport in realtà è un’importante vetrina attraverso cui i Paesi e le culture possono e vogliono mostrarsi per quello che effettivamente sono e magari presentarsi come delle valide alternative a quello che è lo standard dominante in quel momento.

L’ascesa di nuovi protagonisti sulla scena calcistica è sempre andata di pari passo con un’ambizione più grande da parte di soggetti o stati nell’arena geopolitica. Perché quindi con l’Arabia Saudita parliamo di “morte del calcio”? Ci sono state altre “morti” in passato? E perché questa sarebbe diversa? Ho ricapitolato tutte le volte che un Paese "alieno" ha provato a comprarsi il suo spazio all'interno del calcio internazionale, per provare a capire cosa aspettarci da questo ultimo tentativo saudita.

Il Kuwait

21 giugno 1982, Valladolid. Si gioca Francia-Kuwait valevole per la fase a gironi dei Mondiali e i “galletti”, in cerca di riscatto dopo la sconfitta con l’Inghilterra nella prima giornata, conducono senza patemi per 3 a 1. Sembrerebbe una delle classiche partite dimenticabili dei gironi ma sarà così solo fino al 79’ quando Platini, con un gran tocco di mezzo esterno destro, serve Giresse che può superare la difesa kuwaitiana con uno stop a seguire e segnare.

Qualcosa però non va. I giocatori del Kuwait reclamano qualcosa ed effettivamente rivedendo le immagini, ad un certo punto, sembrano fermarsi. Ed ecco il fattaccio. Sugli spalti il presidente della federazione locale, Fahad Al Sabah, fa segno ai suoi di lasciare il campo, dopodiché scende direttamente lui sul terreno di gioco, scortato dalla Guardia Civil spagnola, e va a colloquio prima con i suoi e poi con l’arbitro, il sovietico Miroslav Stupar. Vuole l’annullamento del gol: i difensori del Kuwait, dice, si sono fermati per aver sentito un fischio arrivato dagli spalti. Il gol è validissimo, ma l’arbitro viene messo alle strette e lo sceicco minaccia di ritirare la squadra dalla competizione. La rete di Giresse, alla fine, viene annullata.

Oggi il ricordo di questo evento è sbiadito. Per i moltissimi che assistettero allora, però, quello fu il primo contatto con il calcio della penisola arabica. Non tanto attraverso il difensore Mahboub Mubarak o il centravanti Faisal Al Dakhil, quanto nello sceicco Al Sabah, nella sua figura autoritaria in abiti tradizionali, nella sua kefiah bianca e rossa, nella tunica dishdasha coperta dal mantello marrone, nei suoi baffi folti. Un esotismo che a lungo è stato poi percepito come invadente ed estraneo al mondo del calcio. Come in un eterno ritorno nietzschiano all’inizio della morte del calcio c’è un altro emirato della penisola arabica.

Lo sviluppo del calcio in Kuwait è precoce rispetto al resto della regione e questa precocità si manifesta, nel corso degli anni Settanta, in un dominio del calcio regionale e della Coppa delle nazioni del Golfo. La rappresentativa del piccolo emirato vince le prime quattro edizioni avendo la meglio anche su Nazionali di Paesi ben più grandi e popolosi come Arabia Saudita ed Iraq. Nel 1976 il Kuwait arriva addirittura in finale di Coppa d’Asia contro l’Iran padrone di casa. Un risultato impressionante per una Nazione piccola e con solo un milione di abitanti: come è stato possibile?

Negli anni ‘70 il Kuwait è stato il Paese della regione più vicino alle democrazie liberali per politiche civili, culturali ed economiche: libertà di stampa e di espressione che attirano numerosi scrittori arabi, leggi civili più distanti dalla tradizione islamica e molto più libere nei confronti delle donne, una grande apertura alle forme d’arte più contemporanee e diversificazione rispetto alla sola economia del petrolio. Un grande patrimonio ha però difficoltà a trovare possibilità di investimento se non viene riconosciuto come un soggetto finanziario e politico affidabile. Il Kuwait ha bisogno di presentarsi al grande pubblico e trovare legittimità nel consesso delle Nazioni.

Il calcio per tutto questo sembra il palcoscenico ideale. Lo è in virtù del lavoro politico del presidente della FIFA, Joao Havelange, che, attraverso una serie di misure di aiuti ed aperture, viene incontro alle necessità di attenzione dei paesi emergenti di Asia ed Africa (e degli sponsor). Fa particolarmente gola, al Kuwait come ad altri paesi nella stessa condizione, il Mondiale del 1982, per la prima volta a 24 squadre. Per centrare l’obiettivo, la federazione calcistica dell’emirato decide di puntare sulla scuola brasiliana. Nel 1976 ingaggia come commissario tecnico della propria Nazionale il leggendario Màrio Zagallo, tre volte campione del mondo con il Brasile (due da giocatore ed una da commissario tecnico nel 1970). Il grande obiettivo viene, però, centrato dal suo successore: il connazionale, e inizialmente vice, Carlos Alberto Parreira. Questo allenatore giramondo, che nel 1994 guiderà il Brasile tetracampeão, fa fare il salto definitivo ai kuwaitiani: nel 1980 arriva la vittoria della prima ed unica Coppa d’Asia, giocata in casa, e, subito dopo, riesce nella qualificazioni ai Mondiali di Spagna come prima squadra asiatica.

L’esperienza kuwaitana alla fase finale della Coppa del Mondo del 1982 è fatta di alti e bassi, e forse con il senno di poi non è stata la vetrina che il Kuwait si aspettava. Dal punto di vista del campo, i ragazzi di Parreira non sfigurano e riescono anche a bloccare sul pareggio la Cecoslovacchia. La delegazione della Kuwait Football Association, però, non fa parlare di sé per il suo gioco. Oltre al citato annullamento del gol di Giresse, ancor prima dell’inizio del torneo, il presidente della federazione Al Sabah minaccia di non far giocare la squadra se gli organizzatori non avessero fatto entrare nel centro tecnico la mascotte ufficiale: un cammello.

Proprio in quel 1982 inizia inoltre il periodo più difficile della storia del Paese. Quell’estate, infatti, oltre alla credibilità del Kuwait crolla anche il Souk Al-Manakh, un mercato azionario non ufficiale. Nel frattempo si fa sempre più ingombrante l’azione politica del confinante Iraq, guidato dal 1979 da Saddam Hussein. Il Kuwait sostiene economicamente il vicino nella Guerra con l’Iran, ma ne fa le spese con una serie di attentati terroristici e dirottamenti aerei. Il rifiuto da parte del Kuwait di condonare i debiti contratti dall’Iraq durante la guerra, unito alla pretesa irachena di controllo sulle attività petrolifere dell’emirato, portano, nel 1990, Saddam a muovere guerra al piccolo vicino dando inizio alla Prima Guerra del Golfo.

Fra febbraio e marzo dello stesso anno Luiz Felipe Scolari – il terzo allenatore brasiliano campione del mondo ad allenare la Nazionale kuwaitiana – aveva condotto il Kuwait alla vittoria di un’altra Coppa delle Nazioni del Golfo, ma lascia l’incarico appena scatta l’invasione. Il Paese rimane devastato sul piano umanitario, sanitario, politico ed economico: centinaia di pozzi petroliferi vengono dati alle fiamme dall’esercito iracheno, ed il greggio accumulato nelle raffinerie viene riversato nelle acque del Golfo Persico. Eppure il calcio sembra resistere. La nazionale del Kuwait si impone anche nella Coppa del Golfo del 1996 e 1998 e, proprio nel 1998, riesce a raggiungere la ventiquattresima posizione del ranking FIFA, la più alta della loro storia.

Con l’avvento del nuovo millennio l’interesse della governance kuwaitiana per il calcio sembra venire meno ed i risultati vedono un inesorabile declino, messo in pausa solo dalla vittoria della Coppa del Golfo del 2010. Il punto più basso di questa costante discesa viene toccato nel 2015. Nell’ottobre del 2015, la FIFA sospende – dopo una precedente sospensione di due anni fra 2007 e 2009 – la Kuwait Football Association “per il mancato rispetto degli obblighi previsti dagli articoli 14 e 19 dello Statuto FIFA”, con conseguente sospensione delle sue Nazionali. La causa è, in sostanza, la legge sportiva dell’emirato che non avrebbe garantito autonomia alla federazione e al comitato olimpico.

Oggi il Kuwait non sembra più così interessato o forte abbastanza per investire sullo sport, circondato com’è da una competizione spietata. Il fondo sovrano del Kuwait (Kuwait Investment Authority), che sulla sua homepage si definisce “una forza del bene nei mercati globali”, è ancora uno dei fondi sovrani più importanti del mondo, ma negli ultimi anni si è mosso su terreni finanziari più tradizionali come il settore bancario, delle infrastrutture e industriale.

È invitante paragonare l’esperienza del Kuwait a quelle recenti di Qatar e Arabia Saudita. Ma in 50 anni il calcio è cambiato: trasferimenti internazionali, sponsor più redditizi, più competizioni e una audience davvero globale rendono oggi il calcio ancora più attraente. Ancora per quanto?

Gli Stati Uniti

Nel 1988, lo studioso di scienze politiche Andrei Markovits pubblica uno studio dal titolo The Other "American Exceptionalism" - Why Is There No Soccer in the United States? Alla fine degli anni ‘80 ancora si poteva affermare, senza paura di essere smentiti, che non c’era il calcio in America.

La stessa domanda se l’era fatta Clive Toye, scrittore e giornalista sportivo inglese che nel 1967, a trentacinque anni, decide di andare negli Stati Uniti a “portare il calcio”. Toye trova la fiducia di Steve Ross, fondatore e presidente della Warner Communications, colosso del settore dell’intrattenimento, che nel 1971 aveva anche fondato la squadra dei New York Cosmos insieme ad altri soci investitori, i quali, spinti dagli stadi vuoti e dall’assenza di copertura televisiva, si erano prontamente ritirati. Ross continua a credere nel progetto e crede a Toye, che gli promette la balena bianca: Pelé. Ross non sa neanche chi sia ma mette sul piatto tanti soldi: 4,5 milioni di dollari per tre anni di contratto, cifre totalmente fuori scala per l’epoca. L’interesse dell’uomo che poi creerà MTV è esclusivamente di business: ha visto uno spazio vuoto e vuole metterci le mani per primo. Nell’affare Pelé, però, finisce per rientrarci la politica.

In quell’affare, infatti, sarebbe intervenuto anche il Segretario di Stato Henry Kissinger, che avrebbe usato la sua influenza sul Ministro degli Esteri brasiliano affinché il governo consentisse a “O Rei”, dichiarato vari anni prima “Tesoro nazionale”, di trasferirsi a New York. Al suo astro poi vengono aggiunte altre stelle. I Cosmos ingaggiano Giorgio Chinaglia nel 1976, Beckenbauer e Carlos Alberto l’anno successivo, mentre in altre squadre della North American Soccer League (NASL) finiscono altre leggende sul viale del tramonto come Eusebio, Cruyff, Best e Bettega.

Ad un iniziale ottimismo, però, fa seguito un rapidissimo declino. Il calcio non trova le simpatie degli americani e gli interessi degli investitori. La storia della NASL, che per un attimo era sembrata essere la concretizzazione del sogno di Clive Toye, finisce nel 1985 quando la lega dichiara fallimento.

Il sogno, però, non muore, anzi, si ripresenta proprio quando le cose non sembrano poter migliorare. Fra il 1987 e i primi mesi del 1988 la federazione americana (USSF) presenta alla FIFA la candidatura per ospitare i Mondiali del 1994. Un tentativo era stato già fatto per ospitare l’edizione del 1986 dopo che la Colombia, precedentemente incaricata, aveva rinunciato nel 1982 per problemi finanziari. All’epoca, però, gli Stati Uniti avevano presentato un’offerta incompleta ed insoddisfacente, e così l’organismo mondiale del calcio aveva premiato il Messico. Questa volta è diverso. La candidatura è corposa, completa e dettagliata, fatta di elenchi di sedi e stadi ma non solo: sistemi di trasporto, biglietti, marketing, coperture televisive e garanzie governative sulla concessione dei visti necessari ai giocatori di Iraq e Iran. Un grande lavoro, necessario a superare altre due candidature forti, come quelle di Brasile e Marocco. Il progetto americano risulta il più convincente.

La conquista dei Mondiali si inserisce in una fase nuova della Guerra Fredda. Subito dopo la staffetta olimpica fra Mosca e Los Angeles tra il 1980 e il 1984 – con relativi e reciproci boicottaggi – le due superpotenze spostano proprio sul calcio le proprie attenzioni. L’Unione Sovietica si era candidata per l’edizione del 1990, ma il blocco sportivo occidentale aveva dato la vittoria all’Italia.

Quando si arriva all’estate del 1994, però, ormai l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è dissolta e sta crollando anche il cosiddetto “blocco comunista”. I Mondiali americani, in questo senso, sembrano inserirsi alla perfezione nell’idea di una “fine della Storia”, immaginata dal politologo statunitense Francis Fukuyama in un omonimo saggio del 1992. Nella storia universale e unidirezionale, che marcia verso la globale affermazione del capitalismo – il più perfetto fra i sistemi economici – e del liberalismo democratico – il più perfetto fra i sistemi politici - il definitivo radicamento dello sport più popolare del mondo nell’unica superpotenza e unico Paese-guida del mondo sembra essere una tappa fondamentale, se non necessaria.

Non sembrano esserci opposizioni, quindi, eppure, subito dopo l’annuncio della scelta degli USA come paese ospitante, il presidente della federazione calcistica keniota, sostenitrice della candidatura marocchina, dichiara: «Sono molto deluso da questa decisione. Se c'è un calcio che ha bisogno di una spinta, è il calcio africano, non quello americano. Gli Stati Uniti non hanno alcuna tradizione in questo sport». È vero, si chiedono milioni di appassionati di tutto il mondo, come la mettiamo con la tradizione? D’altronde gli Stati Uniti non partecipavano ad un Mondiale dal 1950. C’è addirittura il sospetto che agli americani stessi non interessi più di tanto ospitare la Coppa del Mondo. In Italia la questione viene riassunta dal pezzo Nessuno allo Stadio di Elio e le Storie Tese: “Fondamentalmente agli americani non interessano i mondiali di calcio americani”. È vero? Un sondaggio dell’epoca mostra come solo il 20% dei cittadini statunitensi sa che si terranno i Mondiali di calcio nel proprio Paese.

Eppure negli stessi anni il calcio inizia ad essere praticato sempre di più nei college e gli Stati Uniti iniziano ad affermarsi come la migliore Nazionale femminile al mondo. La storia del calcio femminile americano ha inizio nel 1972, con l’approvazione del Title IX, legge che proibiva le discriminazioni di genere nei programmi educativi finanziate a livello federale. La possibilità per le donne di accedere a borse di studio universitarie per il merito sportivo portò alla nascita di squadre di calcio femminili nei college e, nel 1982, alla creazione di un torneo universitario inquadrato nella potente NCAA.

Il primo periodo d’oro della Nazionale femminile inizia quando la guida tecnica venne affidata ad Anson Dorrance, che mette la sua impronta sulla squadra convocando teenager come Julie Foudy, Kristine Lilly e Mia Hamm, che aveva appena quindici anni al momento della sua prima convocazione. Nel 1988, stesso anno dell’annuncio dell’assegnazione agli USA dei Mondiali maschili del '94, la FIFA annuncia la creazione del Mondiale femminile, con la prima edizione da tenersi in Cina nel 1991. Gli Stati Uniti la vincono battendo in finale la Norvegia per 2-1 in una partita tesissima.

La partita completa, per chi fosse interessato.

L’amore delle ragazze americane per il soccer sboccia definitivamente nel 1999, quando gli Stati Uniti vincono i Mondiali di casa in finale contro la Cina. Una vittoria di un impatto clamoroso sull’immaginario sportivo americano. La foto che ritrae Brandi Chastain con la maglietta da gioco in pugno, in ginocchio, dopo aver segnato il rigore decisivo finisce sulle pareti di migliaia di camerette in tutto il Paese, oltre che sulle copertine di Time, Newsweek e Sports Illustrated.

L’identificazione del calcio come sport “da femmine” negli Stati Uniti passa anche da una scarsissima considerazione per il calcio maschile, almeno fino a poco tempo fa. Se i Mondiali del 1994 sono un grande successo di pubblico ed economico, non è lo stesso per il campionato americano, la Major League Soccer (MLS). La creazione di una lega calcistica professionistica era una delle condizioni per i Mondiali del 1994 e viene annunciata nel dicembre del 1993. La prima edizione però si tiene solo nel 1996 e vede la partecipazione di appena dieci squadre. I numeri di pubblico non sono male ma crollano già dalla seconda edizione, secondo alcuni per via dei tentativi di “americanizzare” il gioco.

Solo nel 2007 arriva la svolta. Viene stabilita la Designated Player Rule, secondo la quale ogni squadra ha diritto ad un giocatore il cui stipendio può sforare il salary cap. La regola prende presto il nome del primo giocatore per cui è valsa: David Beckham, che proprio quell’anno si trasferisce ai Los Angeles Galaxy. Il trasferimento desta scalpore: Beckham ha solo 31 anni e si sta addirittura tagliando lo stipendio pur di andare negli Stati Uniti: guadagnava circa 20 milioni di dollari annui con le “merengues” e sarebbe passato a prenderne solo 6,5 con i Galaxy – in un campionato in cui la maggior parte dei giocatori era semiprofessionista e guadagnava solo 13 mila dollari l’anno dal calcio. In realtà, come recentemente svelato dal giornalista Joe Pompliano, Beckham ottiene anche una percentuale su tutte le entrate del club, dal merchandising agli hot dog, arrivando a guadagnare 255 milioni di dollari durante i suoi cinque anni con i Los Angeles Galaxy. Ma l’affare più grande della sua vita, non solo della sua carriera da calciatore, David Beckam lo sigla ottenendo la possibilità di acquisire, a partire dal momento del ritiro dal calcio giocato, una franchigia di MLS per soli 25 milioni di dollari. Nonostante un primo anno difficile, proprio a partire dall’arrivo di Beckham – e dalla creazione della Designeted Player Rule – la popolarità della MLS subisce un’impennata. La lega inizia finalmente ad espandersi e si instaura una sorta di versione calcistica dello “scambio colombiano”: i migliori talenti statunitensi (come Clint Dempsey e Jozy Altidore) fanno il grande salto in Europa, veterani di grande livello ed esperienza fanno il percorso inverso. Questo schema porta negli States giocatori come Ljungberg, Henry e più avanti Villa, Pirlo, Kakà e tantissimi altri.

Negli anni successivi la MLS continua ad espandersi e ad attrarre non solo grandi giocatori a fine carriera, ma anche attenzioni da parte di media e jet set. Nel frattempo Beckham si è ritirato e nel 2014 ha annunciato la creazione della sua franchigia, l’Inter Miami. Ricordate che l’inglese aveva un’opzione per acquistarne una a 25 milioni di dollari? Ad oggi il valore della sua franchigia – grossomodo l’equivalente del valore medio delle franchigie MLS – è di 585 milioni: circa il 2240% in più rispetto al valore d’acquisto.

Oggi la MLS è un’organizzazione molto forte a livello finanziario, con un ottimo seguito – in patria e all’estero – che garantisce entrate stabili e corpose. Siamo ben distanti dall’incertezza e dalla fragilità dei vecchi tentativi di portare il calcio in America. Ma a che punto siamo sportivamente? Il soccer è uno sport (anche) americano? Di certo possiamo dire che il calcio non è mai stato così popolare negli Stati Uniti. Forse non siamo ancora in una situazione di parità con il calcio messicano, ma la grande forza economica sta aiutando la lega a mettersi in una posizione molto favorevole rispetto alla maggior parte dei campionati sudamericani. Oltre ai grandi veterani dall’Europa, sono ormai numerosi i giovani talenti, anche di primissimo livello, di Argentina, Uruguay ma anche Brasile che accettano trasferimenti negli Stati Uniti come step intermedio prima di passare in Europa. Fra questi pensiamo in particolare ad Alan Velasco e Thiago Almada, campione del mondo in Qatar e stella assoluta dell’Atlanta United.

In questa situazione si è poi inserito nell’estate del 2023 l’approdo di Lionel Messi proprio nella squadra di Beckham, l’Inter Miami, portando il calcio statunitense ancora su un altro livello. Con anche un otto volte Pallone d’Oro dalla sua e la prossima Coppa del Mondo da disputarsi (prevalentemente) su suolo statunitense, l’MLS sembra essere pronta a porsi come campionato leader non solo dell’America del Nord, ma anche, in una trasposizione calcistica della Dottrina Monroe, di tutto il continente.

Forse non si può davvero parlare per gli Stati Uniti di una strategia governativa, rendendo fragile un paragone con l’Arabia Saudita, ma è interessante comunque che il calcio americano negli anni abbia assorbito contenuti politici propri. Un ambiente di tifo che si fa spesso carico di messaggi progressisti, unito alla grande forza con cui le calciatrici della Nazionale femminile pretende l’equal pay rispetto ai propri colleghi uomini e alla popolarità della figura di Megan Rapinoe– incredibilmente assurta ad una dei principali nemici di Donald Trump - ha creato un’associazione mentale fra calcio e orientamento politico progressista. Il calcio negli Stati Uniti non è più quindi solo uno sport “per femmine” e “per stranieri”, ma addirittura, come ha sbottato qualche commentatore conservatore, “un complotto liberale”.

La Russia

La Russia è un caso un po’ particolare: è l’unico ad avere una antica tradizione calcistica, anche agli occhi di una appassionato dell’Europa occidentale. Il Pallone d’oro Lev Yashin e il titolo europeo del 1960 parlano chiaro, ma questo non significa che in tempi più recenti la Russia non abbia provato a sua volta ad utilizzare il calcio per proiettare sul mondo un’immagine di forza.

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