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Chi ha vinto il 2016?
24 dic 2016
24 dic 2016
Arrivati alla fine, chi è stato il migliore dell'anno sportivo?
(articolo)
53 min
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Il menù sportivo del 2016 è stato particolarmente ricco. Al calendario tradizionale si sono aggiunti il campionato Europeo, la Copa América centenario e, soprattutto, le Olimpiadi. La redazione si è riunita per classificare gli atleti, le squadre e i concetti che hanno avuto il maggiore successo, in senso lato, durante l’anno.

Cominciamo!

Il Chievo Verona

Nel 2016 Maran ha fatto 53 punti, quanto il Genoa dell’accoppiata Gasperini-Juric, due in meno della Fiorentina Sousa e due in più del Sassuolo di Di Francesco. Il Chievo ha superato lo stato primordiale della semplice sopravvivenza (nessuno può ragionevolmente pensare che il Chievo lotti davvero per non retrocedere, e già questo dice tanto) e ha iniziato a trovare le proprie motivazioni nella vittoria pura e semplice, cioè nel fare più punti possibile nell’arco di una stagione. In questo senso abbiamo deciso di inserirlo qui perché rappresenta un buon esempio dell’ammodernamento tattico del campionato di cui abbiamo parlato nel nostro ultimo longform.

Il Chievo non è composto da ragazzini ansiosi di mettersi in mostra e non ha nemmeno l’ambizione di diventare un club diverso, più vincente. I giocatori sono vecchi, considerati “finiti” ormai da anni, non hanno nulla da dimostrare a nessuno, e ogni domenica devono giocare in uno stadio avversario o in uno semivuoto, col campo spesso ghiacciato. Nel Chievo ogni sovrastruttura è assente: la squadra gioca ogni partita solo per dimostrare (forse anche a se stessa) di essere migliore dell’avversario. È lo sport, puro e semplice.

In un mondo che si basa sull’obsolescenza programmata, il Chievo brilla di luce propria.

(DS)

Milos Teodosic

Fin da quando incantava i ragazzini di Valjevo nel campetto vicino al fiume, Milos Teodosic ha incarnato il ruolo del fenomeno destinato a vincere tutto. Ma le vestigia del predestinato possono essere talvolta molto pesanti da portare, specie quando le fisiologiche difficoltà dei massimi livelli ti costringono a bere dall’amaro calice della sconfitta. Quando queste sconfitte iniziano ad essere seriali in maniera preoccupante, allora il rischio che si corre è quello di essere definiti dei “perdenti di successo”, etichetta che per Teodosic ha iniziato ad essere usata in maniera insistente dopo le Final Four del 2012. Era il primo anno di Teodosic in maglia CSKA dopo il periodo con l’Olympiacos, che vinse una delle finali più incredibili della storia cestistica europea proprio contro i russi. Da lì un filotto di tre anni a bocca asciutta per il CSKA, fino alla splendida partita di Berlino di questo maggio. Una finale epica, quella con il Fener di Obradovic, che finalmente ha permesso al miglior playmaker europeo dell’ultimo decennio di togliersi un vero e proprio gorilla dalla spalla. Per non farsi mancare niente poi il percorso trionfale al pre-olimpico casalingo con la nazionale, culminato poi con l’argento a Rio contro gli alieni. Il 2016 è stato sicuramente l’anno della consacrazione di Teodosic.

(DB)

Andrea Belotti

Belotti è una macchina agricola che percorre campi. Va dritto e segna, incapace di distrarsi per rumori che non sente o elementi fuori dal suo campo visivo. Va dritto e segna perché il campo non è finito. Lo ha sempre fatto, segnare: in tutte le squadre, a tutti i livelli. Eppure il 2016, l'anno dei suoi ventitré anni, ha segnato un'evoluzione. Perché l'ha consacrato in serie A e l'ha portato in nazionale maggiore, con la promessa di un futuro da centravanti importante. E perché, è vero, un attaccante non è soltanto i gol che segna, ma i numeri del “Gallo” sono spaventosi: 27 reti nell'anno solare, con 44 presenze, tra club e nazionale. Spaventosi, specie per uno che come dote principale si riconosce l'altruismo.

Forse però è uno sfasamento di percezione. Forse a evolvere, più che Andrea Belotti, è stato il contesto in cui lo hanno inserito. Più minuti, più fiducia, in squadre più attrezzate. Come se il 2016 fosse un appezzamento più spazioso dei precedenti, e la macchina agricola si sia limitata a percorrere questo terreno per intero.

(TG)

Almaz Ayana

Il volto nuovo del mezzofondo etiope è quello di una venticinquenne, Almaz Ayana. Rivale giurata di Genzebe Dibaba, l’anno scorso l’aveva battuta a sorpresa nei 5.000 ai Mondiali di Pechino. Sembrava un’impresa sporadica in un contesto che, già quest’anno, doveva vedere Dibaba riuscire a conquistare la doppietta 1.500-5.000. Non è andata così: da quella gara Ayana ha spiccato il volo. Ha iniziato puntando il primato mondiale dei 5.000, che è ancora in mano alla sorella maggiore di Dibaba, Tirunesh. Il 2 giugno, al Golden Gala di Roma, l’ha mancato di 1’’44: con 14’12’’59 ha fatto segnare la seconda miglior prestazione mondiale di tutti i tempi. L’impresa vera l’ha fatta a Rio. Gli organizzatori hanno piazzato la finale dei 10.000 donne in mattinata, in uno stadio semivuoto. Un’immagine che stride con lo spettacolo visto in pista. A impensierirla maggiormente dovevano essere la kenyana Vivian Cheruiyot e Tirunesh Dibaba, campionessa olimpica 2008 e 2012 su questa distanza (nel 2008 vinse anche i 5.000). Ayana non le ha neanche considerate. Il passaggio ai 5.000, in 14’46’’81, era un tempo in linea col primato mondiale, considerato inarrivabile, siglato nel 1993 dalla cinese Wang Junxia. Ad Ayana non bastava: ha accelerato ancora, seminando il vuoto. Mossa obbligata, per lei che è estremamente vulnerabile in volata. Uno strappo fortissimo nel sesto chilometro, poi la lotta per non cedere. Ha fermato il cronometro in 29’17’’45, 14 secondi meglio di Wang Junxia. Un balzo di 50 secondi rispetto al vecchio personale per lei, un salto in avanti di vent’anni per il mezzofondo femminile. Le altre non sono state a guardare: Cheruiyot ha chiuso seconda, a 75 centesimi dal vecchio primato. Dibaba, terza, ha demolito il suo vecchio personale. Pochi giorni dopo, Ayana ha provato a bissare, di nuovo partendo da lontano. Stavolta, complice la stanchezza, due avversarie l’hanno raggiunta e superata. Prima è arrivata Cheruiyot, al primo oro olimpico in carriera. In un anno che ha visto Kenya ed Etiopia tutt’altro che estranee alla bufera doping, Ayana dice che il suo doping è Gesù. Più che da crederci, c’è da sperarlo.

(RR)

Gianluigi Donnarumma

La parola “consacrazione” va un po’ stretta al 2016 di Donnarumma, anno in cui è passato da essere il giovane portiere della Primavera rischiato da Mihajlovic a l’erede designato di Buffon. Pochi giorni fa In Bed With Maradona ha messo una sua foto come copertina della lista dei cento giovani più promettenti che compila ogni anno, mentre il Guardian l’ha piazzato 80esimo nella classifica dei cento migliori giocatori in assoluto del 2016 davanti a gente come Juan Mata, Gündogan e Robben.

Il 2016, oltre alla titolarità indiscussa in una delle più importanti squadre di Serie A, gli ha portato la prima convocazione in Nazionale maggiore e le attenzioni della Juventus. Donnarumma, insomma, non è più una prospettiva ma già una realtà.

Gian Piero Gasperini

Di Gasperini si diceva che non fosse adatto ad allenare altre squadre diverse dal Genoa. In effetti, fino a quando lo scorso giugno “Gasp” non ha accettato la panchina dell’Atalanta, era difficile provare a smentire i detrattori. Le esperienze fallimentari prima all’Inter e poi al Palermo avevano dato l’impressione di un tecnico troppo rigido per poter lavorare in ambienti con cui non entra in totale simbiosi.

Per questo quando si è sparsa la voce della sua nomina ad allenatore dell’Atalanta in molti lo aspettavano al varco. Quando sembrava sull’orlo dell’esonero, con soli 4 punti raccolti in cinque partite, la “Dea” ha cominciato ad ingranare, giocando un calcio basato sull’intensità e le marcature a uomo, indipendentemente dalla formazione. In stagione l’Atalanta ha già steso il Napoli, l’Inter e la Roma ed attualmente è sesta a soli tre punti dal secondo posto occupato dai giallorossi. Una serie di risultati impronosticabile per una squadra che partiva per non retrocedere e a Natale ha già ipotecato la salvezza, impreziosita dalla valorizzazione delle tante giovani gemme che con Gasperini si stanno consacrando. Da Kessié a Caldara, da Conti a Gagliardini: giovani sulla bocca di tutti soprattutto grazie a Gasperini, uno dei pochi veri maestri del calcio italiano.

(FF)

Il Red Bull Lipsia

Del progetto Red Bull nel calcio si è ormai tanto parlato, ma dal rumore di fondo si sta elevando sempre più forte quello del campo, dove il RB Lipsia, al di là dell’ultima sconfitta nello scontro diretto contro il Bayern Monaco, sta facendo meraviglie. Il 2016 del Red Bull Lipsia rappresenta il punto di arrivo di una filosofia di gioco impiantata e sviluppata nella galassia Red Bull da Roger Schimdt a Salisburgo, proseguita la scorsa stagione in Zweite Bundesliga a Lipsia dal direttore sportivo Ralf Rangnick, momentaneamente sceso dalla tribuna alla panchina, e completata quest'anno da Ralph Hasenhüttl.

Il Red Bull Lipsia gioca sempre meglio, i calciatori hanno acquisito sempre maggiore sicurezza tecnica senza perdere in intensità, le manovre sono diventate più ricercate e raffinate pur mantenendo lo stesso grado di dinamicità. Giocatori come Forsberg, Werner, Naby Keita stanno crescendo a diventando qualcosa in più che calciatori “da sistema” e l’estremismo tattico del RB Lipsia sta fornendo parecchi spunti di riflessione per l’evoluzione strategica del gioco. Che rimane uno sport bellissimo grazie soprattutto alle sue tantissime diversità.

(FB)

Angelique Kerber

Il 2015 di Angelique Kerber è stato il suo solito anno: delusioni (molte) e soddisfazioni (poche), chiuso con quell’incredibile beffa delle Finals di Singapore, dove le bastava vincere un set contro la già eliminata Safarova per arrivare in semifinale e dove invece perse senza mai entrare in partita. La carriera di Angelique sembra segnata: un’onesta top 10 che magari prima o poi si prenderà una bella soddisfazione. Kerber ha iniziato il 2016 esattamente come sempre: a Brisbane perde un set contro Camila Giorgi, poi la travolge e arriva in finale, dove perde contro Azarenka vincendo a malapena quattro game. Quando cominciano gli Australian Open nessuno bada alla tedesca. Del resto ha superato il primo turno annullando un match point a Misaki Doi. Poi c’è il match contro Vika Azarenka, la classica partita della svolta. Angelique si inventa una partita in cui non solo non sbaglia praticamente mai, resistendo al solito pressing della bielorussa, ma riesce a contrattaccare come mai si era visto fare. La bielorussa cede e la Kerber può superare la Konta, raggiungere la sua prima finale Slam e presentarsi al cospetto della solita Serena Williams. Ad Angelique riesce la stessa perfetta partita dei quarti di finale, Serena si arrende e sembra che si realizzi la profezia: prima o poi la soddisfazione per Kerber sarebbe arrivata. Il cemento statunitense mette le cose di nuovo al loro posto. Angelique torna a perdere abbastanza presto. Però Angelique non si fa travolgere più.

(CG)

Mike Trout e la vittoria definitiva delle statistiche nel baseball

La stagione 2016 nel baseball americano ha segnato la vittoria dell’approccio data-driven e dei suoi sostenitori. Secondo Ryan Jazayerli il successo dei Cubs nelle World Series ha posto fine alla Great Analitycs War, sancendo per sempre il trionfo dell’uso di dati e algoritmi nella costruzione e nella gestione di una squadra. Un fatto simile è successo anche nella corsa al titolo di Most Valuable Player dell’American League, nella quale ha trionfato Mike Trout, esterno centro degli Anheim Angels. Il perché è facile: Trout ha vinto il titolo di miglior giocatore nonostante la sua squadra sia miseramente naufragata, chiudendo la stagione regolare al quarto posto della AL West con un record di 74 vittorie e 88 sconfitte, distante ben 21 partite dalla capolista Texas che si è messa in tasca il biglietto per disputare i playoff.

Un successo inaspettato che lo stesso Trout ha definito “surreal”. Per Trout hanno pesato i numeri: .315 di media battuta, 29 fuoricampo, 30 basi rubate. Trout è stato il numero uno dell’Mlb per punti segnati (123), basi ball (116) e percentuale di arrivo in base (.441). Ma le cifre che fanno più impressione sono quelle riguardo la War: 10,6 vittorie in più per la sua squadra quando lui è in campo secondo la formula di Baseball Reference (9,6 secondo la formula usata da Fangraph).

Negli ultimi cinque anni, che peraltro coincidono con la sua intera carriera, Trout non è mai sceso dal secondo gradino del podio nella corsa al titolo di Mvp (2012, 2013, 2015), vincendo nel 2014 quando però era impossibile non dargli il titolo: gli Angels quell’anno centrarono i playoff. Trout è un fenomeno vivente del baseball nonostante la sua squadra non vinca. Un dato di fatto ormai accettato anche da chi storceva il naso di fronte a tali argomenti. Non può che continuare a migliorare anche nelle stagioni a venire.

(NP)

La Juventus

Se non fossimo così abituati al dominio bianconero sul calcio italiano forse la loro posizione sarebbe stata un tantino più alta. Soprattutto se la grande doppia prestazione contro il Bayern in Champions si fosse concretizzata nel passaggio del turno.

Fa quasi impressione ricordare che ad inizio 2016 la Juventus ha dovuto cedere al Napoli il titolo di campione d’inverno, soprattutto per l’irrisoria facilità con cui poi la squadra ha vinto il campionato con più di 90 punti, registrando il miglior girone di ritorno della storia della Serie A. La Juventus è la squadra con la miglior media punti in Europa nell’anno solare 2016, in estate ha realizzato un capolavoro finanziario con l’operazione Pogba e tolto a Roma e Napoli, le due principali inseguitrici, i loro due migliori giocatori. Il sole sull’impero sembra poter non tramontare mai.

(EA)

Max Verstappen

L’hype su Max Verstappen nel 2016 è stato uno dei più grandi punti di interesse della Formula 1 che si ricordino negli anni. La promozione in Red Bull dopo 4 gare, la vittoria alla prima occasione, una quantità infinita di sorpassi che hanno alzato nettamente l’asticella ma anche di scorrettezze raramente combinate tutte insieme in così poche gare e che hanno fatto molto discutere.

Il suo più grande successo non è stato tanto quello di uscire vincitore in modo spettacolare da tante situazioni delicate, quanto soprattutto quello di aver costretto il suo compagno Daniel Ricciardo a spingere per alzare il proprio limite. A fine stagione Ricciardo ha comunque fatto più punti di Verstappen da quando hanno battagliato con lo stesso mezzo (220 contro 191), ma la questione da tenere d’occhio sulla promozione di Verstappen (per giunta in corsa a Mondiale già iniziato) riguardava non tanto se avrebbe battuto Ricciardo, ma se sarebbe riuscito a battagliarci e a essere subito pronto per un top team dopo esserne stato catapultato dentro di fretta. Ricciardo nel frattempo ha avuto delle belle sveglie e ha pian piano alzato di nuovo il rendimento sui livelli del 2014. Verstappen ha invece progressivamente migliorato le sue abilità in qualifica battendo sempre più spesso il compagno di squadra (che della qualifica è forse il miglior interprete della Formula 1) e asfaltandolo in entrambi i Gran Premi sul bagnato (Silverstone e Interlagos), dimostrando di essere forse già un punto di riferimento della guida su pioggia dopo questa bella battaglia alla pari contro le Ferrari ad Austin 2015, quando lui era ancora alla Toro Rosso con il lento motore Renault. Un episodio che evidentemente avevamo tutti un po’ sottovalutato all’epoca.

Max Verstappen per questo motivo esce a testa altissima dal Mondiale 2016. Perché nonostante la gavetta molto breve, il fatto di essere teenager ancora per diversi mesi, un compagno di squadra fortissimo e una vettura rivale ancora più forte, Verstappen nel 2017 avrà tutte le carte in regola per puntare al titolo mondiale. Senza il rischio che si ritiri dalla Formula 1 cinque giorni dopo, eventualmente.

(FP)

Gonzalo Higuaín

Poco più di una settimana prima che ballasse questa milonga contro la Roma, dimostrando ancora una volta quanto in termini di sensitività per la porta e capacità di calcolare la via più breve per spaccarla abbia pochi rivali, mi sono trovato a parlare con alcuni amici argentini di Gonzalo Higuaín: giuro che non credevo ancora possibile, nel 2016, sentirmelo chiamare ancora pecho frío.

Probabilmente se fossi davvero argentino anche io troverei molto coerente non sforzarmi di cambiare opinione su un calciatore che in tre finali consecutive ha saputo dilapidare matchballaurei per trofei così tanto agognati, ma che poi hanno vinto gli altri.

L’anno di Gonzalo è stato oggettivamente stratosferico, e l’inserimento nella shortlist dei 30 candidati al Ballon d’Or, se non è una certificazione, è la riprova di un’intuizione che ha le fattezze dell’elefante nella stanza: oggi Higuaín è tra i 5 attaccanti più forti al mondo.

Quanto sarebbe cambiata la nostra percezione di Gonzalo se avesse segnato questo gol in finale di Copa América Centenario, alzato il trofeo, asciugato le lacrime (però di gioia) di Messi?

Non credo più di tanto. Non la mia, almeno.

I 36 gol con i quali ha sfracellato il record di Nordhal, i 182 tiri in porta della stagione che nel 2016 si è conclusa, il fatto che da solo abbia segnato più reti di quante ne siano riuscite a segnare intere squadre (Verona, Frosinone, Bologna e Udinese per la precisione), addirittura le quattro reti in sei incontri di Copa América: cosa ci serve, di più, per riabilitare Higuaín agli occhi degli argentini?

I dieci gol e un assist in questa quasi-metà di campionato con la Juventus e le tre reti in cinque partite di Champions? Non sono ancora sufficienti?

L’incisività in derby e scontri al vertice e l’incombenza rassegnata di doversi erigere a protagonista suo malgrado, neppure questo?

Gonzalo Higuaín ha dimostrato di non esserlo per nulla, un pecho frío, semmai ce ne fosse seriamente bisogno, quando ha demitizzato il sentimentalismo retro di chi ti vorrebbe per sempre in un castello di cristallo, seppure principessa infelice, e si è scrollato dalle pesanti catene del cliché per inseguire la logica magari poco romantica ma ragionevolissima che dovrebbe dettare le linee della carriera dei campioni, o forse soltanto dei calciatori professionisti: trasferirsi dove si guadagna di più e dove l’ambizione è palpabile.

Credo che il 2016 sia l’anno in cui Higuaín merita tutto tranne le macchie infamanti dell’epiteto pecho frío sul vestito.

Ma è un’opinione, la mia, legata al fatto che non sono davvero argentino. E, forse, che non tifo per il Napoli.

(FG)

Marc Márquez

Avevamo lasciato Marc Márquez a fine 2015 tra le polemiche per il suo decisivo ruolo nella rimonta finale di Jorge Lorenzo su Valentino Rossi, la vendetta sul pesarese che lo aveva ferito nell’orgoglio dopo i corpo a corpo vinti in Argentina e in Olanda e ne aveva contestato anche l’eccessiva aggressività.

Márquez aveva disputato un 2014 irreale nella prima metà, con 10 vittorie consecutive nelle prime 10 gare e 11 nelle prime 12. Ma aveva concluso con 3 cadute nelle ultime 6, ininfluenti sulle sorti di quel Mondiale stravinto già da tempo ma condizionanti in realtà per tutto il 2015. Márquez infatti è nuovamente andato a terra 5 volte più quella provocata da Rossi in Malesia nel 2015, dopo che però lo spagnolo aveva compiuto una scorrettezza molto più grave nell’economia della lotta Rossi-Lorenzo al Mondiale.

Le rovinose cadute hanno forgiato un nuovo Márquez, più calcolatore e meno staccatore, capace di gestire meglio del 2016 i rischi da prendere con una Honda ancora non imbattibile come nel 2014. Il calo di motivazioni di Lorenzo ha sicuramente agevolato la conquista del suo terzo Mondiale in MotoGP in 4 anni, ma lo stesso Márquez ha più volte sottolineato quanto quella del 2016 sia stata la migliore versione di Valentino Rossi contro cui abbia corso. Lo ha battuto con il talento, ma stavolta anche con la testa.

(FP)

L’Islanda

Se il 2016 è stato un anno oscuro, in cui l’uomo ha spesso assecondato una parte dei propri istinti peggiori, ecco un riassunto delle cose islandesi che ci hanno in qualche modo riconciliato con l’essere umano:

  • Il telecronista che esulta come il cantante dei Mayhem.

Una cosa che dovremmo ammirare dell’Islanda è che non attira mai l’attenzione per i motivi sbagliati. L’Islanda non ha un esercito ed è uscita dalla crisi economica senza inasprire le diseguaglianze sociali. Pur avendo una popolazione che supera di poco i 300 mila abitanti, gli islandesi vanno forti nella musica sperimentale, nella letteratura e hanno dei passaggi con un’altissima percentuale del concetto di “sublime kantiano”. Eppure nessuna di queste cose fa impressione quanto il fatto che da quest’anno l’Islanda è entrata nella mappa calcistica. Un’isola con un numero d’abitanti inferiore al VII municipio a Roma si è spinta fino ai quarti di finale dell’Europeo, riuscendo a battere l’Inghilterra.

Più che il risultato è però il modo in cui questo è arrivato. Un percorso che non ha niente di casuale, e che è passato per investimenti strutturali e una programmazione illuminata. Ora l’Islanda ha un movimento calcistico competitivo e mentre scrivo è terza nel proprio girone di qualificazione a Russia 2018: a un punto dall’Ucraina e a 3 dalla Croazia, sopra la Turchia.

(EA)

Andy Murray

Andy Murray è diventato il numero uno del mondo in classifica semplicemente perché era arrivato il suo momento. Ha vissuto la gran parte della sua carriera tennistica - compirà 30 anni nel 2017 - nell’ombra di Federer e Nadal prima, e di Djokovic poi. Durante questa oligarchia, Murray ha provato più volte a ribellarsi ai soliti vincitori di Slam, ma questi gli lasciavano solo le briciole: due titoli, gli US Open del 2012 e il Wimbledon del 2013, e tante finali perse, specie in Australia, dove non ha mai vinto e dove sarà il favorito numero uno nel prossimo gennaio. In tutti questi anni Murray ha cambiato allenatori (Lendl, che lo ha fatto vincere, e Mauresmo, che non ha praticamente inciso sulla carriera dello scozzese), e ha atteso pazientemente il suo momento. Che è arrivato quando Novak Djokovic ha smesso di essere imbattibile, a Wimbledon, torneo che Murray ha poi vinto in scioltezza. Con Federer e Nadal alle prese con malanni fisici e Djokovic in pausa mentale, Murray si è fatto trovare pronto: dopo quel Wimbledon ha vinto anche le Olimpiadi, ha perso gli US Open per puro caso e poi non ha perso più, vincendo le ATP Finals e la partita più importante degli ultimi anni, la finale di Londra contro Djokovic che valeva il n.1 ATP di fine anno.

Nonostante fosse stato già numero 2 al mondo nel 2009, un anno particolare per il tennis (Djokovic in crisi di risultati, Nadal che perde per la prima volta al Roland Garros, dove vince Federer, e che poi salta Wimbledon dove doveva difendere il titolo del 2008), Murray ha dovuto aspettare che tutti quelli migliori di lui si togliessero di mezzo per diventare il migliore. Quando è arrivato il suo momento, lui si è fatto trovare pronto. La pazienza di Murray alla fine ha pagato: ora è lui il numero 1 del tennis.

(CG)

Pepe

Alla fine di questo 2016 dobbiamo scendere a patti col fatto che Pepe sia stato probabilmente il miglior difensore di quella che è stata la competizione più importante dell’anno, i campionati Europei. Ma questo non basta: Pepe ha vinto anche una Champions League dimostrandosi fondamentale nel progetto tecnico di Zidane, con la sua abilità a difendere in maniera aggressiva, e un mondiale per Club, proprio nel momento in cui Varane sembra averlo definitivamente sorpassato nelle gerarchie di squadra.

Questo lo inserisce nello stesso discorso in cui può inserirsi solo Cristiano Ronaldo, quello di giocatore più vincente del 2016, e poco importa se i titoli sono tutti per quello che fa gol. Perché c’è più gusto nell’anno di Pepe, l’anno che lo definisce e lo consacra, che gli consente definitivamente di appendere al chiodo gli scarpini della necessità pura, quelli che il compagno di club e nazionale non potrà appendere mai.

Arrivato nono al Pallone d’oro, Pepe non sarà il centrale perfetto nella vostra idea di calcio, ma lo è stato in quella del 2016 e chiamalo scemo.

(MDO)

L’Indipendiente del Valle

Oltre al Leicester, l’altra grande Favola™ calcistica del 2016 è stata l’Indipendiente del Valle. La piccola squadra ecuadoriana è finita in finale di Copa Libertadores dopo aver battuto River Plate, Pumas e Boca Juniors. Dell’Indipendiente aveva scritto Fabrizio Gabrielli, in un pezzo di presentazione alle semifinali di Libertadores: “L’estate calcistica del 2016 ci sta confermando che quest’anno i pianeti sono allineati secondo una luna del tutto particolare: anche se la retorica del Leicester di X si è un po’ affievolita di fronte alla proliferazione di sorprese, il geyser sound ci sembra esistere da sempre e non ci pare poi così straordinario che l’Europeo l’abbia vinto un Portogallo incapace di andare oltre il risultato di pareggio nei tempi regolamentari in cinque partite su sei. Confesso che a questo punto non saprei più bene in quale segmento narrativo dovrei posizionare la favola dell’Independiente del Valle. La Copa Libertadores è una competizione nella quale i dark horses, più che altrove, non sono poi così dark: è una malia che la Copa porta connaturata in sé quella della drammaticità degli eventi, e del realismo magico”.

Fernando Santos

Nonostante una squadra con una leggenda vivente, e con molte altre stelle, è difficile trovare un giocatore davvero decisivo nella vittoria degli Europei del Portogallo: l’artefice del successo, infatti, è in panchina. Fernando Santos è un allenatore che si è costruito nel tempo, passando per le panchine della provincia alle grandi portoghesi e greche, fino alla Nazionale greca. Il suo arrivo sulla panchina della Nazionale portoghese è stato il coronamento di una carriera, ma anche una scelta inevitabile: la squadra era sfaldata, aveva appena perso in casa la prima partita delle qualificazioni agli Europei, serviva un uomo saggio, in grado di aggiustare. Il lavoro di “MacGyver” Santos è andato oltre qualunque immaginazione: non ha solo sistemato la squadra, ma ha aggiustato la storia e la narrazione del calcio portoghese, sempre troppo imprigionato in facili stereotipi e nell’impossibilità di ottenere la vittoria nonostante tanto talento. Per riuscirci, Santos ha impersonato più maschere possibili (da leader a fantoccio di Ronaldo, da esaltatore di folle a pompiere) ed ha modellato la sua Nazionale come fosse una casa: cambiando continuamente e incessantemente la disposizione dei mobili (rotazione continua di giocatori e moduli lungo tutto il torneo), ma poggiandosi su solide fondamenta: difesa perfetta della zona centrale del campo, attenzione estrema alle caratteristiche degli avversari. Santos ha interpretato il torneo nel modo migliore di tutti, come fosse uno scacchista.

Persino Ronaldo dice che è merito dell’allenatore.

La sua squadra ha vinto una sola partita nei 90 minuti (la semifinale contro il Galles), sfiancando ogni volta l’avversario, costringendolo sempre a mosse azzardate, in una sfida a chi sbagliava per primo. Uscito Cristiano Ronaldo per infortunio nella finale, è stato costretto persino a subirne le mosse da finto-allenatore, perché CR7 voleva prendersi a tutti i costi la sua dose di merito e visibilità. Ma è proprio quella partita che in qualche modo lo ha consacrato, con la decisione che ha consegnato al Portogallo una storica vittoria: l’ingresso di Eder, una punta centrale, al posto di Renato Sanches, un centrocampista. Una mossa da diabolico scacchista, appunto, esaltata dal gol decisivo del centravanti: il trionfale 2016 di Fernando Santos esalta finalmente la carriera oscura di un uomo intelligente, sottile, dedito al lavoro, in grado di manipolare personalità e moduli a piacimento. Un selezionatore vero.

(EB)

Tom Brady

Un anno partito con la sconfitta in finale di conference contro i futuri campioni NFL dei Denver Broncos e proseguita con la conferma della sospensione per 4 gare a seguito della indagine del deflegate sui fatti accaduti durante l’AFC Championship del 2015, in cui i Patriots si imposero contro i Colts prima di alzare l’ennesimo Lombardi Trophy, non sembravano presagire il meglio per il 2016 di Tom Brady. Senza di lui inoltre i New England Patriots erano stato trascinati ad inizio stagione da Jimmy Garoppolo e il 3° quarterback Jacoby Brissett (rookie da North Carolina State) ad un record di 3-1 che aveva aizzato i maligni sul reale valore del #12 nel sistema Belichick.

Tra un touchdown e l’altro quest’anno ha superato Manning ed è ora il QB con più vittorie nella storia della NFL.

Eppure Brady tornato dietro al centro dopo la squalifica, a 39 anni suonati, ha zittito tutti per l’ennesima volta giocando una delle sue migliori stagioni in carriera. Con 22 touchdown e appena 2 intercetti ha portato i suoi Patriots all’8 ° sigillo consecutivo in division (arrivando alla 14esima vittoria in 17 stagioni da professionista). Dopo 6 Super Bowl e 4 anelli la fame agonistica di Brady pare intatta. I Patriots restano la squadra più concreta nella AFC e il terzo premio di MVP sembra alla portata (nonostante la 4 partite in meno a referto). Cosa da chiedere di più al suo 2016?

(MT)

Dimitri Payet

Se volessimo paragonare istanti delle carriere dei calciatori a fasi del ciclo vitale delle piante, il 2016 di Dimitri Payet coinciderebbe con il momento in cui l’Anthurium - fiore simbolo delle Isole Reunion, delle quali è originario - fiorisce in tutta la sua scintillanza tropicale.

Quello che sta per finire è l’anno in cui Payet si è definitivamente affermato come il re incontrastato, in Europa, dell’arte di creare chances da rete: nella prima stagione al West Ham ha chiuso la stagione con 221 key-pass, quasi il 20% in più di Mesut Ozil, più del 70% in più rispetto a Leo Messi. Numeri ionosferici, superiori anche a quelli di Marsiglia dell’anno precedente, quando mandava al tiro un compagno una media di 3.7 volte a partita (abitudine mantenuta anche agli Europei, dove si è manifestato sotto forma di aurora polare, raggiante, inanellando 3.4 key passes a partita, 3 tiri, 2 cross e mezzo e più di 2 dribbling e mezzo riusciti a partita). Suggerire al compagno la palla giusta da mettere in porta è una cosa che Payet fa anche senza guardare, con nonchalance ma senza sembrare cafone.

Euro 2016 è stato il palcoscenico sul quale Payet ha dato sfoggio della sua predisposizione al metodo Stanislavskij, riuscendo a calarsi con precisione nei ruoli di faro, coltello acuminato e semplice personificazione, a sprazzi, dell’onnipotenza. in campo. Anche il gol contro la Romania, segnato all’esordio da titolare coi “Bleus”, ci restituisce la misura di che tipo di giocatore grande sia diventato Payet.

In una scala di assurdità da uno a cento, qualcosa che come questa punizione - la più nonsense dell’anno, forse - sfiori il 90%.

(FG)

Alexis Sanchez

Se non giocasse nell’Arsenal l’anno di Alexis Sanchez sarebbe stato perfetto. In estate ha portato il Cile a vincere la seconda Copa América consecutiva, stabilendo un regno che ha definitivamente rotto il duopolio di Argentina e Brasile. Sanchez ha vinto il premio di miglior giocatore del torneo ed è risultato decisivo in tutte le sfide ad eliminazione diretta fino alla finale contro l’Argentina. Quello che stiamo ammirando in questa prima parte di stagione è un giocatore arrivato alla maturazione definitiva: spostato punta da Wenger si è preso la leadership della squadra, diventando il perno della manovra offensiva. Nelle prime 28 presenze stagionali ha già messo insieme 15 gol e 9 assist ed è ormai nel club dei giocatori che da soli spostano gli equilibri delle partite. Neanche questo però al momento sembra sufficiente per portare un titolo all’Arsenal.

Sergio Ramos e i suoi gol al 90’

Su Viale Palmiro Togliatti, a Roma, c’è una scritta su un muro che recita: “Sei bella come un gol al novantesimo”.

Di gol al novantesimo Sergio Ramos in carriera ne ha segnati ben sette (pensate anche solo per un attimo cosa può rappresentare Ramos per i tifosi del Real). Ma il 2016 ha dato una nuova dimensione della decisività di Sergio Ramos con i gol all’ultimo minuto in finali o partite decisive. Ecco i gol segnati da Sergio Ramos in questo modo solo quest’anno:

  • 9 agosto, finale di Supercoppa Europea: pareggio per 2-2 al 93esimo (il Real vincerà 3-2 ai tempi supplementari).

  • 3 dicembre, Clasico al Camp Nou: pareggio per 1-1 al 90esimo (salverà la striscia di 33 risultati utili consecutivi per il Real, un record).

  • 10 dicembre, contro il Deportivo La Coruña al Bernabeu: vittoria per 3-2 al 92esimo (il 35esimo, un altro record).

Sergio Ramos in carriera, tra Spagna, Siviglia e Real Madrid, ha segnato in tutto 76 gol. Sì, avete letto bene: 76 gol per un difensore centrale corrispondono a circa 350 per un attaccante, calcolando anche che nella stragrande maggioranza dei casi il centrale ha solo le palle inattive come possibilità per segnare. Se ciò non bastasse, secondo Transfermarkt, 18 di questi 76 gol sono stati gol-vittoria.

Sergio Ramos è un fattore da considerare separatamente. Pesante quanto un gol decisivo al novantesimo.

(DS)

Il Siviglia

Nel 2016 il Siviglia è diventata una delle squadre più iconiche d’Europa. Le partite in casa sono uno degli spettacoli più riconoscibili del calcio e la squadra è diventata un laboratorio tattico zeppo di giocatori unici pescati da tutta Europa. Ecco 5 fattori che hanno reso incredibile il 2016 del Siviglia:

- Ha vinto per la terza volta consecutiva l’Europa League, l’ha fatto in modo perentorio e scrivendo per sempre il suo nome nella competizione grazie ad un record ora quasi impossibile da battere.

- Ha sostituito uno dei migliori allenatori di Spagna (Unai Emery) con il miglior allenatore del Sudamerica (Jorge Sampaoli) e il miglior secondo di Spagna (Juanma Lillo), per creare un tandem in grado di dare un gioco eccitante quando vuole e tremendamente pragmatico in altre occasioni, capace di guardare all’occhio e ai risultati.

- Ha imbastito la sessione di mercato più eccitante dell’anno (“El Mudo” Vazquez, Nasri, Sarabia, Kiyotake, Kranevitter, Vietto, Ben Yadder, Correa e Ganso) pur dovendo subire le cessioni dei migliori centrocampisti (Krychowiak e Banega) e del miglior attaccante in rosa (Gameiro).

- È diventata la terza forza in Liga e la più credibile outsider per il titolo.

- Si è qualificata per la prima volta agli ottavi in Champions League pescando una rivale abbordabile come il Leicester.

In un periodo storico in cui è sempre più difficile entrare nell’élite se non si hanno petrodollari alle spalle, il Siviglia ci è riuscito e con ottimi risultati, in un anno che passerà alla storia del club andaluso.

(DVM)

Wayde Van Niekerk

Detiene il record mondiale, è campione iridato e olimpionico sui 400 metri. A Rio ha spazzato via col suo 43’’03 un certo Michael Johnson che era il detentore del vecchio limite mondiale (43’’18) dai Mondiali di Siviglia 1999. Inoltre Wayde Van Niekerk, sudafricano di Cape Town, è il primo uomo nella storia dell’atletica ad aver corso i 100 metri in meno di 10’’, i 200 in meno di 20’’ e i 400 in meno di 44’’. Non male per un ragazzo di 24 anni che si fa allenare dalla nonna (più o meno).

L’unico errore di WVN è stato correre nella stessa sera della finale dei 100 metri.

Partiva con i favori del pronostico nella notte di Rio, perché campione del mondo in carica e perché aveva fin lì disputato una stagione in crescendo, e per questo Wayde ha voluto stupire tutti con il record, per di più corso in prima corsia. Proprio la sua tecnica così naturale, al contrario del passo impettito di MJ replicato senza la stessa fruttuosità dal grande sconfitto LaShawn Merritt, e quel fisico longilineo possono segnare un’epoca nuova nella corsa veloce. Van Niekerk è la dimostrazione che si può correre veloce senza avere pettorali espansi e glutei da bovini.

La IAAF avrà bisogno di trovarsi una nuova faccia fra dodici mesi quando il re Usain non ci sarà più. il nuovo sovrano è già pronto a salire sul trono.

(GC)

La difesa a tre

Il 2016 sarà anche ricordato come l’anno che ha sdoganato definitivamente la difesa a tre a livello europeo. Non tanto perché prima non venisse utilizzata, quanto perché hanno iniziato ad adottarla anche grandi squadre dai principi di gioco proattivi, come il Borussia Dortmund di Tuchel, il City di Guardiola, il Tottenham di Pochettino, il Barcellona di Luis Enrique, e ovviamente il Chelsea di Antonio Conte.

Questo tipo di rivoluzione, se così possiamo chiamarla, non poteva che venire da un allenatore italiano proveniente dalla Serie A, dove la difesa a tre viene utilizzata anche da squadre proattive da anni, grazie soprattutto al lavoro di Gasperini e dello stesso Conte prima, e di Sousa e Juric poi.

Con l’affermazione del 3-4-3 di Conte al Chelsea nel campionato più seguito al mondo, la difesa a tre ha smesso definitivamente di essere considerata un’impostazione puramente difensiva, utilizzata per difendere lo spazio a ridosso della porta (come spesso ha fatto la Juve di Allegri in Champions League), ed ha iniziato ad essere pensata anche come un modo per controllare il pallone, soprattutto attraverso il consolidamento del possesso basso attraverso i centrali di difesa.

Se Conte dovesse vincere la Premier League, poi, la vittoria della difesa a 3 sarebbe completa. Ma questo lo sapremo solo col 2017.

Juan Martin Del Potro

A febbraio 2016 Juan Martin Del Potro scende in campo al torneo di Delray Beach contro Martin Kudla. Non gioca a tennis da due anni ed è numero 1043 della classifica ATP. È l’inizio della sua quinta carriera: una per ognuna delle quattro operazioni subite al polso. Lo scetticismo che lo circonda è anche ciò che rende, a posteriori, Del Potro uno degli assoluti vincitori di questo 2016. Oltre che una grande storia di natale.

Non solo per la sua mostruosa risalita di classifica (ora è numero 38), non solo per l’argento alle Olimpiadi e la Coppa Davis. Ma anche per un tipo di energia emotiva di cui il tennis sentiva la mancanza. In un universo che ha imparato ad amare il distacco imperturbabile di Federer come l’autismo compulsivo di Nadal, un giocatore che gioca autenticamente per il pubblico come Del Potro ci aveva messo pochissimo ad entrare nel cuore di tutti. È stato come portare un tacchino ripieno a una mensa di affamati. Riguardate il matchpoint della finale di Coppa Davis: il carisma naturale che emana mentre esulta, Maradona in tribuna con gli occhi spiritati, gli argentini impazziti.

In un certo senso Del Potro somiglia a un martire che, come ha scritto Fabio Severo in un vecchio pezzo, ha disintegrato il suo corpo pur di mostrare al pubblico un modo inedito di giocare a tennis. Un’estremizzazione del “power tennis” così esasperata, così oltre sé stesso, da aver preso quasi una consistenza astratta. Il nuovo Del Potro ha leggermente modificato i propri movimenti, riducendo, per quanto possibile, la propria stravaganza tecnica. Ma non sarà mai un giocatore come gli altri: il suo ritorno è stato senz’altro la narrazione più emotiva dell’anno in uno sport spesso fin troppo avaro di emotività.

(EA)

Gareth Bale

«Il periodo calcistico che stiamo vivendo è così inedito, tra valutazioni di calciatori che non hanno più niente a che fare con un ipotetico valore assoluto (e a volte si fatica a trovare un senso anche a quello di mercato), calciatori con statistiche mostruose su base pluriennale e fenomeni magari alktrettanto eccezionali ma solo per una stagione, o per qualche partita all’interno di una stagione, e altrettanti fenomeni che non riescono ad esprimersi con una costanza tale da farli emergere dalla moltitudine di ottimi giocatori, che anche se fa un effetto strano scriverlo ho l’impressione che Gareth Bale sia sottovalutato».

Ho scritto questo a maggio, quando al Real Madrid è mancato Cristiano Ronaldo per due giornate e Gareth Bale si è rivelato per quello che effettivamente è: un calciatore completo, associativo, con alcuni strappi superomistici che gli permettono anche di essere decisivo. Ma che, insomma, non vive per essere decisivo sempre.

Ma il 2016 di Gareth Bale è soprattutto nell’Europeo, in cui ha portato il Galles a una storica semifinale (lasciando la sensazione, come registrato dal radar di Daniele Morrone, di poter arrivare persino più lontano). Certo non è stato solo Bale, ma soprattutto perché Bale non è un solista. Ha una splendida voce, suona bene la chitarra e il pubblico comprerebbe i suoi album, ma Bale preferisce dedicarsi al lavoro col gruppo. Durante l’Europeo si è vista la versione finalmente piena, straripante (pur con un’assistenza di minore qualità) di quel giocatore che era venuto fuori a maggio.

Sempre a maggio scrivevo che sarebbe assurdo confrontare Bale a Ronaldo, più assurdo di quanto non sia confrontare Cristiano e Messi (che comunque è assurdo; e infatti ormai il discorso “è meglio Messi o Ronaldo” si sta riducendo al conteggio dei gol stagionali o i trofei vinti), ma devo ammettere che è ironico che quello stesso Europeo che ci farebbe guardare Bale con occhi totalmente diversi se in finale ci fosse arrivato il Belgio, lo abbia vinto proprio Cristiano Ronaldo, e che sia stato proprio lui con un colpo di testa su calcio d’angolo a decidere la semifinale tra Portogallo e Galles. Forse è ancora più ironico il secondo gol portoghese di quella partita: un tiro sbagliato di Cristiano che si trasforma in assist per Nani... e insomma, voglio dire, qualcuno invece ricorda che la punizione di Toni Kroos che ha portato al gol di Sergio Ramos in finale di Champions League è stata prolungata da Gareth Bale di testa? Ecco, appunto.

Se la Storia si scrivesse nei commenti di Facebook, il 2016 non potrebbe essere anche l’anno di Gareth Bale, perché è prima di tutto l’anno di Cristiano Ronaldo. Adesso si deve riprendere da un grave infortunio e il 2017 inizierà in salita; qualcosa però mi dice che la sera del 31, quando penserà all’anno appena passato, Bale lo farà ricordando una delle sue migliori stagioni in assoluto.

(DM)

Katie Ledecky

Cosa vuol dire andare ad una Olimpiade a 19 anni per difendere un titolo? Chiedetelo a Katie Ledecky, l’essere umano più vicino al mondo marino che si sia visto dai tempi di Michael Phelps. Lei vi risponderà che si possono vincere quattro titoli, di cui tre individuali su 200, 400 e 800 stile libero, stabilendo pure due record mondiali (400 e 800), nonché quello di donna più decorata di Team USA ai Giochi. Il tutto senza eccessive pressioni, questioni di fidanzati, lezioni di alta moda e compagnia. Ma semplicemente sorridendo e nuotando.

E dire che la sua Olimpiade si era aperta con la mezza delusione dell’argento nella staffetta 4x100, se delusione si può chiamare l’aver portato da sola ad un soffio dal trionfo una squadra non stratosferica, stabilendo per di più il record nazionale sulla distanza. Dopo ci sono stati solo trionfi per Katie del Maryland, antidiva per eccellenza, che è stata seconda soltanto al Cannibale di Baltimora in quanto a medaglie portate a casa.

Lo stile libero ha un nome e un cognome.

Quella nella 4x100 (distanza non sua, vale la pena di ricordarlo) è stata la prima sconfitta di Ledecky in una finale di valore mondiale. Una carriera ancora relativamente breve ma lastricata d’oro, infatti dopo Rio siamo a diciannove titoli vinti in palmares. A pensarci un record pazzesco, ma non per lei che nei record praticamente ci è nata. Infatti quando si presentò a Londra era la più giovane atleta di sempre a stelle e strisce a presentarsi ai Giochi. Per non farsi mancare nulla vinse la gara degli 800 metri facendo segnare il record nazionale che apparteneva a Janet Evans dal 1989.

(GC)

Steph Curry

Devo dire che per un breve ma significativo attimo ho avuto la tentazione di inserire Steph Curry tra i flop della stagione. Non perché sia un hater (anzi, tutt’altro), ma per il modo in cui la sconfitta dei suoi Golden State Warriors ha cambiato la percezione attorno al suo personaggio. Da quando Curry ha perso, si è levato un coro di “Ahhh, ma io lo sapevo che LeBron era più forte!” di cui sinceramente non si capisce il senso (cos’è, non possono esistere due giocatori fortissimi contemporaneamente?), ma che per qualche motivo ha trovato un certo qual seguito tra quelli che seguono la NBA. Poi mi sono reso conto da solo che il risultato finale di quella partita — anzi, di quel minuto di gioco, perché le due squadre erano sul 689 pari nella totalità della serie a 60 secondi dalla fine di gara-7 — non può e non deve far dimenticare tutti i momenti memorabili che Curry ci ha regalato nel 2016, dall’incredibile cavalcata che sono state le 73 vittorie degli Warriors lo scorso anno fino alle 402 triple in una singola stagione, tra cui spicca quella totalmente insensata con cui ha deciso la partita a Oklahoma City. Si potrebbe aggiungere il fatto che ha chiuso la scorsa entrando nel club del 50+40+90, o la serata del record di triple in singola partita, o il titolo di MVP della regular season (il secondo) vinto all’unanimità, come non era mai successo nella storia della lega. Si potrebbe aggiungere, soprattutto, il suo essere diventato personaggio globale e l’aver trasceso i limiti della pallacanestro. Ecco, forse è questo ciò che rende Curry uno dei top del 2016: l’essere diventato bigger than basketball, un volto che il vostro amico vagamente appassionato di sport può riconoscerlo dopo averlo visto così tanto sulla sua bacheca di Facebook. È il primo passo per diventare veramente dei Grandi dello sport.

(DV)

Antonio Conte

Il 2016 di Antonio Conte era iniziato male: la Lega aveva rifiutato la disponibilità per uno stage in vista degli Europei; i giornali inglesi rivelavano il suo approdo al Chelsea dopo gli Europei e nel frattempo si facevano nomi di tutti i tipi (tipo Mancini, ma persino Cannavaro e Del Piero) come successori sulla panchina azzurra. La sua Nazionale si è riunita per la prima partita dell’anno solo a fine marzo, a più di quattro mesi dall’ultima occasione: un pareggio con la Spagna, seguito da una disastrosa sconfitta a Monaco contro la Germania.

L’Italia è arrivata agli Europei circondata da negatività, con le solite accuse di aver trascurato alcuni giocatori dalle convocazioni, e insomma erano in pochi a sostenere che Conte fosse davvero un grandissimo allenatore, nonostante il suo lavoro sia nella Juve che nella Nazionale fosse già estremamente eloquente (al di là dei successi). Poi quando gli Europei sono davvero iniziati, il 2016 di Conte ha preso una piega esaltante e bizzarra: il successo nella prima partita contro il Belgio, tra i favoriti per la vittoria finale, ha lanciato gli azzurri verso un torneo di grande livello.

Accusato dal povero CT belga Wilmots di praticare il catenaccio, dopo la vittoria negli ottavi contro i campioni in carica della Spagna è parso evidente a tutti che la Nazionale giocava un calcio moderno e proattivo. Nonostante i limiti tecnici del gruppo, il cammino della Nazionale di Conte si è interrotto solo ai rigori contro la Germania: e la caratteristica dell’Italia è stata quella di saper sempre imporre il contesto di gioco all’avversario.

Il suo passaggio al Chelsea, in un ambiente calcistico così diverso, era atteso da molti come un’ennesima prova di valore: lo aspettavano già al varco. Ma forse per l’animo battagliero che lo caratterizzava anche da giocatore, Conte in queste situazioni ci sguazza: dopo le sconfitte contro Liverpool e Arsenal, già si parlava di “naufragio”. Invece, proprio dopo il 3-0 subito da Wenger, Conte ha gettato le basi per la sua ennesima risalita. Con il passaggio alla difesa a tre e soprattutto la ridefinizione di alcuni giocatori in ruoli specifici (tipo la valorizzazione di David Luiz), il Chelsea ha ottenuto 11 vittorie consecutive ed è la capolista in fuga della Premier League. Un anno che ci riassume il paradosso della vita da allenatore: nel 2016 Conte non ha vinto titoli, ma ha conquistato tifosi e critica.

(AG)

Antoine Griezmann

Nonostante le due finali perse, una in cui ha addirittura sbagliato un rigore, Griezmann nel 2016 è comunque salito a un livello che in pochi si aspettavamo ad inizio anno. Ora fa parte di quel club ristrettissimo di giocatori in grado di poter spostare realmente gli equilibri di una partita e attorno al quale si può costruire un sistema intero. Non è più solo un grande finalizzatore, ma il centro e la definizione stessa della fase offensiva delle sue squadre. Se l’Atlético Madrid e la Francia sono arrivate a giocarsi le finali poi perse è anche e soprattutto perché hanno affidato le proprie fortune a Griezmann, che ha sbagliato nell’ultimo passo, ma che in questo 2016 ha fatto quello decisivo, da grande giocatore a campione. Ne è anche la prova il suo essere arrivato sul podio del Pallone d’Oro (ed è giusto chiedersi se senza il gol di Éder l’avrebbe pure vinto).

Il suo nuovo status si è consolidato in Liga ed è sbocciato soprattutto all’Europeo, di cui ho scritto nella Top11 della competizione: «L’intero Europeo è cambiato quando Griezmann, contro l’Irlanda, è stato messo nel cuore del gioco francese. Col nuovo sistema i padroni di casa sono arrivati fino alla finale, definendo la manovra offensiva sulla base del suo gioco associativo e della sua freddezza in area (oltre che dando senso alla presenza in campo di Giroud, che a quel punto si è trovato vicino un giocatore in grado di sfruttare le sue sponde). In tutto questo ha assunto anche i contorni del vero leader mentale della squadra, del trascinatore totale».

Griezmann non ha alzato nessun trofeo di squadra, ma è tra i migliori 3-4 giocatori del suo campionato e della Champions League ed è stato il migliore dell’Europeo. Le finali si vincono e si perdono e sono 90 minuti che non possono modificare per il loro risultato quanto fatto di buono nei mesi precedenti da chi da quest’anno è nell’Olimpo del calcio contemporaneo.

(DVM)

Nico Rosberg

Nico Rosberg aveva vinto le ultime 3 gare del 2015 a Mondiale ormai già assegnato a Hamilton, il quale in totale delirio di onnipotenza si era lanciato in frasi inneggianti a “duelli ruota a ruota con Vettel alla Senna vs Mansell di Barcellona 1991” per il 2016, e altre di pubblico scherno su Rosberg colpevole di “lamentarsi di qualsiasi cosa”, declassato a semplice sparring partner. Rosberg ha risposto in pista con una stagione talmente intensa da averlo indotto al ritiro dopo le ultime, ultra-stressanti e insopportabili gare in Brasile sotto il diluvio e ad Abu Dhabi con il fiato sul collo di Red Bull e Ferrari per tutta la gara.

Correre in queste condizioni rischiando di perdere per sempre il titolo di Campione del Mondo.

Nico Rosberg ha fatto veramente la differenza nelle fasi centrali del campionato, nelle prime gare dopo la sosta estiva: Monza, Singapore, Suzuka soprattutto. In quel momento ha marcato il solco e ha raggiunto lo stato di perfetto equilibrio tra il suo tipo di talento, più meccanico che artistico, e la simbiosi ingegneristica con la Mercedes. Rosberg ha capito che per salire fin sulla cima delle aspirazioni della sua intera carriera avrebbe dovuto lavorare nelle fessure che il naturale, forse inimitabile, istinto di guida di Hamilton avrebbe lasciato. Contemporaneamente avrebbe dovuto anche avere a che fare contro Ferrari e Red Bull soprattutto all’ultima gara, compattati tutti da Hamilton, nella quale ha compiuto forse il sorpasso più bello di una carriera costellata da una non eccezionale preparazione nei corpo a corpo, per di più contro Verstappen che - tra staccate meravigliose e altre fuori dal regolamento - del corpo a corpo sembra essere diventato il padrone assoluto.

Il titolo mondiale di Rosberg, acuito nel suo significato dal suo immediato ritiro dalle corse, ha mostrato il volto più umano del mondo della Formula 1. Una disciplina troppo spesso e banalmente ridotta a mera ricerca ingegneristica con la figura del pilota stereotipata a traghettatore di astronavi ai piani alti, pilota pagante senza talento a fondo schieramento. Nico Rosberg ci ha mostrato che questo è ancora davvero uno sport meraviglioso come tutti gli altri.

(FP)

Usain Bolt

L’errore più grande che si possa fare con Usain Bolt è pensare che in lui ci sia improvvisazione. Certo siamo di fronte ad un fenomeno assoluto dello sprint, un corpo che rasenta la perfezione della cinetica applicata alla corsa veloce, un talento fuori dal normale. Ma parliamo anche di un professionista ineguagliabile nella dedizione, ma soprattutto nell’analisi di sé stesso. Il 2016 che per lo sprinter giamaicano ha rappresentato l’apoteosi di una carriera ineguagliabile è stato costruito sulle sofferenze di un 2015 in cui tanti davano Bolt ormai sul viale del tramonto, finché nelle notti pechinesi il re si è rimesso la corona in testa dopo aver faticato per la prima e unica volta nella sua vita.

Unica perché Usain ha annunciato con chiarezza che il 2017 sarà il suo ultimo anno con le scarpe chiodate e bisogna credergli in quanto, al di là delle simpatie o antipatie che una personalità forte come quella del giamaicano può scatenare, Bolt sa cosa deve fare. Lo sapeva ad agosto dell’anno scorso quando tornò dalla Cina con tre medaglie d’oro (100, 200 e 4x100), così come era abituato, ma anche con la consapevolezza che quello appena trascorso sarebbe stato il suo trentesimo anno sulla terra e che l’attacco ai nove titoli olimpionici avrebbe richiesto una preparazione rigorosa. E dunque poche gare e sempre scelte, una tabella di avvicinamento a Rio che riducesse al minimo anche le goliardate (nella misura in cui sei Usain Bolt). D’altronde Bolt è uno degli ultimi fenomeni universali, ben più famoso dello sport che pratica e che a quello sport serve per mantenere una risonanza planetaria.

Balletto e vittoria sui 200 con annesso reminder su chi è il numero 1.

Il resto è parte dei libri di storia dello sport: Usain Bolt ai Giochi di Rio De Janeiro ha vinto le gare sui 100, 200 metri e la staffetta 4x100, senza record ma anche senza soffrire. La faccia dell’atletica mondiale rimane la sua - precisamente questa - fino al 13 agosto 2017. Quando, con gli allori dei Mondiali di Londra al collo, saluterà tutti lasciando un vuoto incolmabile tra coloro che lo hanno ammirato e quelli che lo hanno detestato.

(GC)

Il Real Madrid

Se teniamo in conto che l’epica del Real Madrid, cioè dei galacticos, si basa tutta sull’accumulazione di trofei, il 2016 è stato decisamente un anno da ricordare. Con la vittoria del mondo per club, infatti, la “Casa Blanca” è tornato ad essere il club con più titoli internazionali al mondo, superando con magna soddisfazione il Barcellona (23 contro 22). Record raggiunto grazie alla vittoria, sempre nel 2016, di Champions League e Supercoppa Europea. Zidane non sarà il più fine dei tattici e i problemi della squadra forse un giorno emergeranno, ma a Madrid nessuno interessa: sarà un gran capodanno.

(DS)

Conor McGregor

È semplice: il 5 marzo McGregor ha perso il suo primo incontro in UFC (il terzo in tutta la sua carriera professionistica) per sottomissione. Preso al collo da Nate Diaz ha battuto sul braccio dell’avversario dichiarando la resa, ha battuto come una macchina da scrivere, secondo i critici, che vedono nella perdita totale dei sensi l’unico modo onorevole di perdere un incontro di MMA.

Poco più di otto mesi dopo Conor McGregor ha mandato TKO Eddie Alvarez nella seconda ripresa diventando il primo artista marziale misto nella storia dell’UFC a detenere due cinture - e quindi ad essere campione - di due categorie di peso diverse al tempo stesso; per di più al Madison Square Garden, nell’evento più importante per la storia della promozione e forse dello sport. In mezzo si è preso una rivincita piena e soddisfacente dando una lezione tecnica e stilisitica a Diaz (che a modo suo è uscito benissimo anche dal rematch, consolidando il proprio carisma da coatto).

L’UFC non può fare a meno di McGregor anche se i loro interessi non sempre coincidono: adesso gli ha tolto la cintura da featherweight, che McGregor non difende dal dicembre 2015, ma McGregor si considera ancora il campione e, dato che nel frattempo ha preso la licenza pugilistica, parla di conquistare la scena del pugilato con o senza Mayweather, dice di aver ricevuto proposte da Hollywood. In ogni caso non c’è fretta: ha guadagnato abbastanza da far stare l’UFC con il fiato sospeso quanto a lungo ritiene opportuno e nel 2017 diventerà padre per la prima volta. Nel 2016 Conor McGregor non solo è diventato il portabandiera di uno sport in grande espansione, ma si è anche elevato a simbolo di un certo tipo di spirito arrivista che può piacere o meno ma in cui tanti, anche fuori dal mondo dell’MMA, sentono di potersi riconoscere. Chi ha avuto un anno migliore del suo?

(DM)

Cristiano Ronaldo

È giusto chiedersi, alla luce dei successi personali e di squadra, se Cristiano Ronaldo sia il più grande di tutti i tempi. Se meriti l’appellativo più in voga nell’Internet slang di GOAT (Greatest Of All Time). Ronaldo è sicuramente il giocatore più completo che ha calcato i campi di calcio da sempre, non il più talentuoso, forgiato dal lavoro ossessivo su sé stesso anno dopo anno.

Il 2016 è stato un anno fondamentale nella carriera di Cristiano Ronaldo, un anno nel quale ha ulteriormente ingrossato la sua bacheca personale: terza Champions League, quarto Pallone d’Oro, ma soprattutto primo trofeo internazionale con il Portogallo.

Se la vittoria all’Europeo rappresenta l’apice della sua carriera, l’inizio della stagione 2016/17 potrebbe diventare il crinale del suo inesorabile declino. Ronaldo sta cambiando il proprio gioco, si sta trasformando in una punta pura, per massimizzare le forze e mantenere intatte le doti straordinarie di finalizzatore. La sua posizione è sempre più accentrata, la frequenza e la precisione dei suoi passaggi verso i compagni è via via più bassa. Cristiano sta giungendo ad una nuova versione di sé stesso, più esasperata e ancor più individualista.

La sublimazione dell’eroe che cade ma si fortifica trasformandosi in uomo-squadra, avvenuta nella finale parigina della scorsa estate, è stata solo un passaggio necessario per la conquista del trofeo Europeo. Il futuro di CR7 sarà sempre più solitario, nel tentativo di conciliare i nuovi limiti posti da Chronos e quelli vecchi autodettati dalla fame di successo del suo ego. Finché non finirà stritolato in questa morsa, godiamoci le sue gioie e, perché no, anche le sue rosicate.

(AG)

Ranieri e il Leicester

Unbelievable, unbelievable. Il commento al gol pazzesco segnato da Vardy al Liverpool è poi anche il più grande trademark registrato da Ranieri in una stagione particolarmente ispirata sul piano della creatività: l’impasto della pizza dopo le vittorie, l’articolo su The Players’ Tribune, il dilly-ding dilly-dong (che qualunque cosa significasse, adesso ne significa una sola, il Leicester che vince la Premier League). Questo solo per rimanere al patrimonio collettivo, alle frasi che conosce chiunque abbia seguito nell’anno solare una qualsiasi pagina Facebook dedicata al calcio. In realtà la stagione di Ranieri è un mosaico di tante piccole cose dette col tono giusto al momento giusto, di pittoresche raffigurazioni che in qualche modo riflettono al meglio quel senso per l’immaginifico che è facile percepire come un’espressione della creatività italiana: Vardy che è così aggressivo da «pressare anche le tribune», Kanté che corre così tanto che potrebbe «crossare e poi andare a colpire di testa da solo», Mahrez che invece «è la nostra luce, quando si accende, wow, il Leicester cambia colore».

Ranieri per primo ci ha offerto un filtro con cui interpretare l’irripetibile successo del Leicester, in campionato e in misura diversa anche in Champions League, dove al di là del girone molto facile, le Foxes hanno strappato un solido primo posto. Da esperto padrone di casa, ha subito impiattato e servito lo storytelling. Al resto hanno contribuito i protagonisti della cavalcata trionfale, con quell’incredibile capacità di assomigliare agli eroi di una fiaba, con quelle caratteristiche così nette eppure così rare, per certi versi all’opposto estremo rispetto all’evoluzione che sta seguendo il calcio europeo (in quanti, potendo scegliere, modellerebbero una coppia di difensori centrali sul profilo Huth-Morgan?). A differenza delle favole, però, quella del Leicester non ha fine pedagogico, certamente non insegna come giocare a calcio e probabilmente non è neanche un esempio così brillante di programmazione aziendale. È un divertissement, un blockbuster hollywoodiano, diretto da un allenatore anziano ripudiato dalla federazione greca dopo una sconfitta con le Far Oer, che ha saputo sollevarsi con grande umiltà, ma soprattutto con la forza dell’immaginazione.

(FL)

Simone Biles

Ha riempito le nostre notti agostane e ce ne siamo dimenticati, con un plissé. Salvo farcela ricordare dagli ineffabili hacker russi di Fancy Bear per quella storia molto poco raccontata delle esenzioni terapeutiche. Insomma parliamo di Simone Biles. La ginnasta americana capace di vincere quattro medaglie d’oro alle ultime Olimpiadi di Rio, dimostrando una classe superiore proprio nell’unica gara in cui non ha vinto. Infatti nella finale alla trave è riuscita a classificarsi terza nonostante un errore assimilabile ad una caduta dall’attrezzo che ha sottratto al suo punteggio quasi un decimale.

Lei fa abitualmente questo.

Più in generale Simone Biles rappresenta una storia paradigmatica dei nostri tempi: nera in una nazione che si sta accorgendo di avere ancora grossi problemi di integrazione, figlia di una madre tossicodipendente e cresciuta dai nonni. Adolescente cui viene diagnosticata la sindrome da deficit di attenzione e iperattività ADHD), qualcuno pensa ad hoc, da curare con forti dosi di anfetamine. Lei come quasi 6 milioni di bambini e ragazzi tra i 5 e 17 anni, praticamente uno su dieci.

Ma questi sono numeri che si analizzeranno in altri modi e tempi. Ora va celebrato il 2016 di Simone Biles, tre volte campionessa del Mondo al corpo libero, cresciuta nel mito di Nadia Comaneci e da coloro che quel mito hanno costruito nel dolore e nella privazione: i coniugi Karoly. Questa estate Simone ha avuto vissuto la sua consacrazione trionfando nel volteggio, nel corpo libero e nel concorso individuale, come Nadia a Montreal ‘76, e trionfando insieme alle sue amiche figlie dell’America multirazziale, meglio di Nadia a Montreal ’76. Le è mancato un pizzico di concentrazione, l’appoggio di un piede sui 10 centimetri della trave per quel quinto oro da leggenda. Ma da par suo, ha sorriso e ringraziato.

(GC)

Michael Phelps

Se fosse una nazione sarebbe, ironia della sorte, la Giamaica. Michael Phelps ha conquistato da solo 23 medaglie d’oro alle Olimpiadi (sono 28 in totale) in cinque partecipazioni. Le stesse che l’isola caraibica madre della velocità su pista ha racimolato in diciassette apparizioni sotto i cinque cerchi.

Michael è uno abituato a vincere fin dalla tenera età passando da essere The Kid, vista la sua partecipazione ai Giochi di Sidney 2000 a quindici anni appena compiuti, allo Squalo di Baltimora nel giro di un paio di stagioni. Phelps nel periodo 2001-2009 ha abbattuto 39 record del mondo in vasca in otto diverse specialità. Eppure quello che impressiona è la seconda parte della sua carriera, e ciò che lo ha reso una leggenda che cammina è quanto fatto quest’estate a Rio.

A 31 anni così.

In Brasile Phelps è arrivato dopo un figlio, un ritiro e un ritorno dalle gare successivo ai Giochi di Londra dove era stato sconfitto dal sudafricano Chad Le Clos nella gara forse più amata, i 200 metri farfalla. Nell’Estàdio Barra lo Squalo ha messo su la faccia che tutti ricordano e si è preso quello che voleva. Ha stravinto la sua gara e poi ci ha preso gusto: suoi anche i 200 misti e svariate staffette, dove si è dimostrato anche grandissimo uomo squadra.

Alla fine quella di Rio è stata probabilmente la sua Olimpiade più bella, perché inaspettata e molto umana. Ha vinto più che a Londra e si è divertito più che nella mostruosa Pechino, dove apparve niente altro che una macchina. Lui è l’imperatore di Olimpia, nessuno può razionalmente credere di avvicinarlo (in quella classifica in cui lui è la Giamaica, il giamaicano Bolt è staccato di 14 medaglie d’oro al secondo posto insieme a tipi come Carl Lewis e Mark Spitz). Una divinità in carne ed ossa.

(GC)

LeBron James

Provo enorme rispetto per tutti i miei colleghi e per tutti i grandissimi atleti citati prima di questo mio intervento, ma per il 2016 non c’è davvero competizione: nessuno ha fatto meglio di LeBron James. E non sto nemmeno a citare il pezzo di Lee Jenkins con cui Sports Illustrated lo ha incoronato Sportsman of the Year: la sua vittoria era palese nel momento stesso in cui ha coronato il più grande trittico di partite che il mondo della NBA abbia mai visto. Per la qualità dell’avversario (i Golden State Warriors delle 73 vittorie), il dominio tecnico-tattico-mentale nelle prestazioni (41+41+tripla doppia in gara-7), l'iconicità riassumibile in un singolo gesto (la stoppata su Andre Iguodala, un momento destinato all'immortalità sportiva), la portata socio-economico-storica della sua impresa (l’aver spezzato la maledizione che vedeva perdere la città da 50 anni filati) e quella personale (l’aver compiuto il suo destino vincendo il titolo per cui sostanzialmente è venuto al mondo, dando realmente peso al soprannome The Chosen One), non c’è niente che nel mondo sportivo possa andare sopra il suo 2016.

(DV)

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