US Open 2009, cerimonia di premiazione della finale maschile:
Dick Enberg, presentatore della CBS: «… e un milione e ottocentocinquantamila dollari per la tua vittoria qui a New York!». Juan Martín del Potro, vincitore del torneo: «Posso dire qualcosa in spagnolo?». Enberg: «Mi dispiace Juan ma siamo di corsa e dobbiamo presentare Lucy Garbin (direttrice del torneo, ndr), mi dispiace ma prima di darti il trofeo c’è dell’altro. In aggiunta al milione e ottocentocinquanta, per te una Lexus IS 2010 decappottabile, a consegnarti le chiavi c’è Deborah Senior, manager della Lexus. Deborah? (Juan Martín riceve le chiavi, le alza al cielo). E adesso, il trofeo degli US Open…». Del Potro: «In spagnolo, posso parlare in spagnolo?». Enberg: «Velocemente, Juan Martín vuole salutare in spagnolo i suoi amici qui allo stadio e quelli in Argentina».
L’imbarazzo comincia al minuto 03:34.
Lo sport americano non fa alcuno sforzo per nascondere l’apparato che sostiene e secolarizza le imprese degli atleti, e l’anziano Enberg probabilmente si è trovato tra l’incudine e il martello della scaletta e delle esigenze degli sponsor. Certo introdurre un messaggio nella seconda lingua più parlata al mondo come destinato giusto agli amici presenti e a quelli a casa dà l’idea, se non del paternalismo lievemente razzista di Enberg, sicuramente di quanto Juan Martín del Potro avesse stupito con la sua vittoria in cinque set su Roger Federer nella finale degli US Open. O forse quella nota stonata nel momento del trionfo era il presagio di una cattiva stella.
Eppure i primi anni di professionismo di del Potro davano già indicazioni sul livello del giocatore: il più giovane top 100 alla fine del 2006 (18 anni e 2 mesi), il più giovane top 50 a fine 2007, l’anno dopo diventa il primo giocatore nella storia dell’ATP a vincere i suoi primi quattro titoli in carriera in altrettante finali giocate consecutivamente. Finisce la stagione al numero 7, il più giovane top 10 del 2008. Vince sul cemento, vince anche sulla terra, fatica sull’erba. Profilo tipico della sorprendente cantera gestita dall’allenatore Marcelo Gómez a Tandil, la città di circa 100000 abitanti dove del Potro è nato, 300 km a sud di Buenos Aires. La scuola di Gómez ha formato diversi top 100 degli anni recenti come Juan Mónaco, Mariano Zabaleta e Mariano González. Tutti validi giocatori da fondocampo, Monaco in particolare, che nel 2012 è stato numero 10 del mondo, tutti che danno il meglio su terra battuta, evoluzione offensiva di quei giocatori degli anni ’90 che Andre Agassi chiama “i ratti da fango” (dirt rats), gli specialisti del mattone tritato bollati dai puristi come “pallettari”.
Del Potro è diverso, nella tecnica e nel corpo: preferisce il cemento alla terra, ha un gioco molto più aggressivo, è alto un metro e 98 cm e soprattutto ha un dritto unico, impossibile da imitare.
Del Potro colpisce in modo piattissimo, tenendo la racchetta quasi perpendicolare al terreno, e ogni scambio sembra una ricerca costante dell’apertura che gli permetta di giocare quel colpo definitivo, fatto non per muovere l’avversario o per indurlo in errore, ma per lasciarlo fermo a guardare una traiettoria che non può neanche toccare. Del Potro imposta i punti non per vincere lo scambio ma per distruggerlo, spazzarlo via.
Del Potro adolescente con il coach Marcelo Gómez.
La maturazione sportiva che lo porta all’eccellente 2008 dei quattro titoli consecutivi coincide con l’inizio del rapporto con un nuovo allenatore, Franco Davìn, che prima di lui aveva lavorato sia con Guillermo Coria che con Gastón Gaudio, il quale sotto le cure di Davìn nel 2004 ha vinto il Roland Garros in finale proprio contro Coria. Ancora prima di vincere con Davìn gli US Open del 2009, del Potro elogiava il contributo del nuovo coach: «Mi ha cambiato il gioco, la mentalità, ha cambiato tutto. Quando lo vedo negli spalti mi dà fiducia, gioco rilassato».
Davìn non aveva cambiato solo il gioco e la testa di del Potro, aveva anche contribuito a stabilizzare la formazione del giovane tennista, il cui corpo cresceva nell’atleta futuro attraverso una sequela di infortuni. Solo nel 2007 si ritira per sette volte, una catena di eventi che lo fa scendere ad aprile 2008 al numero 81 della classifica. Il tennista che vuole diventare del Potro fatica a formarsi nei suoi due metri di altezza, e la schiena, le gambe, le anche a turno si infortunano a ricordargli che nessun tennista così alto è mai diventato davvero grande, a mortificare le sue ambizioni mal riposte. Ma dopo altri tre ritiri nella prima metà del 2008 la cura Davìn, che imposta il lavoro su terra battuta per non stressare troppo la schiena, porta i suoi risultati, sia nel dare a del Potro ben due titoli sul lento rosso, non ideale per i suoi colpi esplosivi, sia nello stabilizzare il grande corpo che il ragazzo deve piegare e portare in giro per il campo. Oltre ai quattro titoli di quella stagione, del Potro vince 23 partite di seguito, la seconda striscia di vittorie dell’anno e la più lunga per un giocatore fuori dalla top 10.
La finale degli US Open 2009.
Nel 2009 arriva senza patemi e senza infortuni alla finale degli US Open, ma subito dopo a Shanghai si ritira durante il secondo turno per un problema al polso destro. L’episodio si confonde tra gli altri abbandoni avvenuti durante lo stesso torneo, e la storia diventa l’eccessiva lunghezza della stagione. Nessuno nota qualcosa di strano in del Potro, soprattutto perché al Masters di fine anno raggiunge la finale, e la quarta posizione mondiale. Ma nel 2010 gioca solo sei partite, quattro a gennaio a Melbourne e due tra settembre e ottobre, in mezzo la chirurgia al polso destro. Per questo l’anno dopo, sprofondato oltre il numero 400, del Potro è atteso in quello che sarà il primo di vari ritorni dall’oltretomba.
La prima partita dell’anno vinta in tre tie-break a Sydney contro Feliciano López è l’espressione perfetta della difficoltà di riavviare il proprio gioco dopo mesi senza competizione, mentre tutto va avanti, e allora anche un giocatore d’attacco fragile quanto López diventa un ostacolo che si supera solo di persistenza, invece che in due set comodi come avrebbe fatto il migliore del Potro; e poi la racchetta che gli sfugge di mano mentre serve contro Marcos Baghdatis nella sconfitta al secondo turno degli Australian Open, che insinua il dubbio se il vero del Potro tornerà mai. Perchè quando vinci uno Slam a vent’anni sei condannato a essere un predestinato, e se non lo diventi sarai sempre qualcosa di meno di quello che avresti potuto.
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Il ritorno nel 2011, dopo la prima chirurgia al polso destro.
In realtà dalla primavera del 2011 comincia un lungo periodo in cui del Potro ritorna a giocare regolarmente, ma sempre una spanna sotto i più forti, sempre misurato sul del Potro passato che era più forte, più promettente, più sicuro. Proprio la sicurezza nel gioco è una delle sue caratteristiche più ammirate, che ha fatto dire a tanti, tra cui Rod Laver, che si capisce che del Potro è un campione da come gioca i punti critici, da come non esita, da come forza con la sicurezza dei tennisti migliori. Non prova alla cieca, capisce quando non c’è altro che eseguire alla perfezione un colpo estremamente difficile. Ritornano piccoli infortuni a sprazzi, c’è la classifica da risalire e i confronti con i giocatori di vertice che arrivano presto nei tornei, ma del Potro resta nel giro. Due partite della sua carriera post US Open 2009 lo vedono reincarnarsi nel tennista che tutti si aspettano da lui: alle Olimpiadi di Londra del 2012 perde 19-17 al terzo set da Federer in semifinale, battendo poi Novak Djokovic in due set nella finale per la medaglia di bronzo; e l’anno dopo raggiunge la sua ultima semifinale Slam sino a oggi, dopo la vittoria di New York e l’altra semi a Parigi nel 2009: perde a Wimbledon contro Djokovic in cinque set, con un ginocchio infagottato per una brutta caduta nel quarto di finale vinto contro David Ferrer.
Del Potro ha definito la sua semifinale persa a Londra come la migliore partita della sua vita, e in fondo l’ha persa solo per l’insostenibile difesa opposta da Djokovic, come avrebbe potuto perderci chiunque. E dopo un 2013 finalmente da top player in ascesa, ancora giovane, nel 2014 del Potro gioca soltanto quattro tornei, un misero totale di dieci incontri giocati in cui riesce persino a vincere un titolo, e decide di operarsi di nuovo al polso, questa volta il sinistro. Quest’anno poi è già tornato due volte e si è già operato una seconda volta al polso sinistro. Ha giocato solo quattro partite, due vittorie e due sconfitte. La settimana scorsa era il numero 616 del mondo.
Il problema di del Potro non è avere delle sconfitte tra le sue migliori partite, il problema è che se avesse avuto modo di giocare sempre come ha potuto fare in quelle occasioni, costantemente, oggi sarebbe uno dei più forti giocatori del mondo, avrebbe vinto molti più tornei, avrebbe spezzato l’oligarchia Federer-Djokovic-Nadal che continua a sostenere il market appeal del tennis contemporaneo. Lo hanno detto anche Andy Murray e Nadal, due giocatori che di recente hanno sofferto infortuni e chirurgie: ormai il tennis è qualcosa che non consente di fermarsi, e quando si ritorna gli avversari hanno continuato a cambiare, a migliorare, a introdurre micro-perfezionamenti alla soffocante professionalità atletica di oggi. E ogni volta che si ricomincia da capo si è rimasti indietro, si deve inseguire, aggiornarsi al più presto possibile.
Del Potro ha scioccato New York battendo Nadal in semifinale e Federer in finale praticamente con il solo dritto e il servizio, ma all’apice di una condizione atletica che gli permetteva di generare con il colpo in corsa una velocità e una capacità di angolazione che non ricomincia ogni volta nello stesso modo, perché il colpo non basta da solo, ci vogliono le gambe, ci vuole il corpo che segue. A maggio 2011, all’inizio della risalita dopo la prima chirurgia al polso, del Potro diceva: «I più grandi sono quelli che sanno vincere sull’erba. Io ho ancora molte cose da imparare, come il serve & volley. Sono diverso dai tipici giocatori argentini, io voglio migliorare sull’erba». Oltre a dover ogni volta combattere con la paura di infortunarsi di nuovo, se del Potro avesse avuto tempo di mettere a punto un gioco di transizione in avanti, invece di limitarsi a volée di routine, se avesse potuto trasformare il suo servizio in un’arma simile ai bombardieri della sua altezza che producono 15 ace di media a partita invece dei suoi 7-8, se avesse avuto modo di far evolvere il suo bel rovescio tagliato sotto la palla da semplice colpo difensivo a strumento di variazione e di attacco, se avesse trovato il modo di imparare come si fa una palla corta; se del Potro avesse avuto dodici mesi all’anno per ognuno degli ultimi sei anni trascorsi, oggi sarebbe un altro giocatore, sarebbe un giocatore con un arsenale molto più ampio, diverso dall’endurance tennis che tiene a galla la maggior parte dei top 100 attuali. Sarebbe una minaccia costante, veloce e leggero nonostante la taglia, brutale nel singolo colpo e determinato nelle scelte tattiche, capace di variare il peso della palla, padrone di tutto il campo e non inchiodato sul fondo come tanti suoi colleghi.
San Francesco di Tandil.
Lo chiamano “Palito”, “la Torre di Tandil”, “il gigante buono” o “il gigante d’argilla”: del Potro ha tanti soprannomi, spesso legati alla sua aria dolce, alla sua capacità di monopolizzare il pubblico senza cattiveria, ai suoi numeri comici durante le partite: si scatta foto con i telefonini degli spettatori a bordo campo, scaccia via palline ancora a mezz’aria sperando che cadano fuori, va a scherzare con l’avversario dall’altra parte del campo, si fa consolare dai giudici di linea. E poi ha quel sorriso un po’ amaro, che ricorda i lamenti goffi di Chewbacca, l’enorme aiutante peloso di Han Solo in Guerre Stellari. Wikipedia così definisce quel personaggio: «Saggio e grande tecnico, ha molta dimestichezza con la tecnologia; è perfettamente in grado di capire il linguaggio comune, ma a causa della propria struttura fisica non può parlarlo, per questo risponde nella sua lingua natìa, il Shyriiwook».
Anche del Potro è saggio e tecnico e capisce il linguaggio dei suoi avversari, ma non lo può parlare perché il suo corpo è fatto in modo diverso, e allora risponde con il suo proprio Shyriiwook, che fa sembrare che le palline cadano dal cielo come delle pietre, come se il suo corpo fosse fuori taglia rispetto al campo. Ma più che la forza bonacciona di Chewbacca, del Potro in salute ricorda la meccanica distruttiva degli Jaeger, i robot del film Pacific Rim costruiti per contrastare la venuta dei Kaiju, i mostri giganteschi che risalgono dal centro della terra a devastare il pianeta. Per quanto creature orribili, i Kaiju sono molto più agili degli Jaeger, che per sconfiggerli devono muovere le tonnellate di acciaio di cui sono fatti e utilizzano colpi e armi segrete che impiegano un tempo irragionevolmente lungo a attivarsi, e mentre il Kaiju malefico e velocissimo devasta l’armatura del valente Jaeger noi stiamo lì a chiederci per quale ragione il pugno protonico o la spada nucleare debbano metterci così tanto a entrare in funzione.
Un po’ come del Potro, che corre per il campo e colpisce palla su palla in attesa di quella che gli permetterà di colpire un dritto così veloce che non rallenta neanche nei replay. Dei giocatori virtuosi si dice che la racchetta sembra il prolungamento del braccio, come elogio della naturalezza del gesto; anche in del Potro la racchetta sembra un prolungamento del braccio, ma come se fosse una strana calcificazione ossea, come se lo costringesse a soffrire per colpire la palla. Quando del Potro prepara il suo dritto il polso sembra andare in iperestensione, e nel rovescio lo si vede piegare attorno alla palla il suo corpo enorme, come fosse il gesto più innaturale del mondo.
Non si può non augurare a del Potro di tornare grande, martire del tennis che per regalarci i suoi colpi si è letteralmente spezzato i polsi.