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Foto di Valerio Pennicino/Getty Images
Profili Tommaso Giagni 5 maggio 2016 8'

Belotti non alza la cresta

La magnifica primavera di Andrea Belotti, esploso a pochi mesi dall’Europeo.

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A ventidue anni, è il miglior marcatore del campionato nell’anno solare 2016 dopo Higuaín: 11 reti in 19 gare. L’ambientamento a Torino è durato qualche mese, poi si è preso il posto da titolare, con tanta forza da convincere Ventura a schierarlo insieme a Immobile. Ha segnato più di tutti in rosa, ha trovato la fiducia che a Palermo era mancata. Due doppiette, gol decisivi. Uno nel derby, poi, che non ha pesato sul risultato ma ha interrotto l’imbattibilità di Buffon.

 

È il migliore del club, insieme a Bruno Peres, anche per numero di assist (4). Ne ha sempre fatti, e non sembra casuale. Quando gli chiedono quale sia il suo maggior pregio, risponde: “L’altruismo”. Si vede, in campo, alla faccia di chi sostiene che il grande attaccante è egoista. Lui gioca al servizio della squadra, esulta in modo scomposto anche quando non è il marcatore. E si vede fuori, nel numero e nel tipo di interviste che ha già rilasciato.

 

A Torino è cominciata con duemila tifosi ad accoglierlo il primo giorno d’allenamento. L’acquisto più costoso della presidenza Cairo, «La torta, non la ciliegina» come l’ha presentato il patron. Al Toro e non all’Atalanta, che aveva tentato di rimediare all’errore di tanti anni prima.

 

Belotti, presentazione Torino

Il giorno della presentazione al campo.

 

Il paese di Calcinate, seimila abitanti nell’alta pianura bergamasca, ha visto nascere un’impensabile concentrazione di calciatori: Pietro Vierchowod, Manolo Gabbiadini e lui, Belotti.

 

Nel territorio bergamasco, nel “nord nord” come lo chiama lui e dove appunto nasce il 20 dicembre 1993, nasce anche la sua carriera. Dai primi calci a sei anni all’oratorio di Gorlago, alla Grumellese, fino al provino con l’Albinoleffe. Con un altro provino in mezzo, all’Atalanta, pochi giorni prima. Andato male. Evidentemente anche a Zingonia possono sbagliare. Peccato, avrebbe fatto felice il padre, che la Dea la tifa. Peccato, avrebbe chiuso un cerchio con un altro Andrea, il nonno, che ogni domenica si faceva in bicicletta i venti chilometri che separano Calcinate dallo stadio Atleti Azzurri d’Italia. Peccato, sì, ma poi si guarda avanti. Soprattutto uno come lui, che a detta del padre di quel provino “non ha mai più parlato”.

 

Poco dopo esser stato scartato dall’Atalanta, l’Albinoleffe lo prende in “dieci minuti” di provino. E lo fa debuttare in serie B nel 2011/12. E lui va subito in gol, alla prima.

 

Tutte le gare interne le gioca, ormai da professionista, nello stadio a venti chilometri da casa. Ci segna anche una rete, la seconda e ultima di quella stagione. L’Albinoleffe scende in Lega Pro, ma la retrocessione dei seriani ha un lato positivo: Belotti si ritrova titolare (30 presenze, 12 gol).

 

Il primo gol da professionista, in trasferta a Livorno. Su un cross dalla fascia, prende il tempo al difensore e di testa la mette all’incrocio. Gli amaranto hanno tre gol di vantaggio, mancano pochi minuti alla fine, lui potrebbe godersi la prima gioia: invece la sua prima reazione è di recuperare il pallone dalla rete e riportarlo a centrocampo. È il 10 marzo 2012, Belotti ha diciott’anni.

 

A Grumello la zia aveva un’azienda agricola, dove lui rincorreva “ammirato” i galli del pollaio. Da qui, l’esultanza con la cresta e il soprannome “Gallo”. C’è un altro motivo, però: un omaggio all’amico di sempre, Juri, che di cognome fa appunto Gallo.

 

È proprio a Juri che Belotti telefona, alle tre di notte, quando si è appena accordato col Palermo e piange per la paura di un’esperienza così lontano da casa. Juri che gli ha regalato, come racconta Belotti, «due particolari ricordi, in modo che non mi dimenticassi mai del nostro rapporto, della nostra grande amicizia». Parla così apertamente dei sentimenti, lo spietato centravanti, il giovanotto bello e swag. I regali di Juri a Belotti sono una maglia portafortuna con scritto “Gallo”, che lui usa come pigiama, e un piccolo gallo di ceramica, che tiene sul comodino e fa cantare ogni volta che si sveglia.

 

Sulla pagina Facebook personale, nella sezione dei libri, indica due romanzi: Il cacciatore di aquiloni di Hosseini, e soprattutto Il piccolo principe di Saint-Exupéry. Al tempo stesso, sulla pagina Instagram mette una foto dell’autobiografia di Ibrahimovic e commenta: «Non smetterei mai di leggerti e di rileggerti!!!». La confusione è solo apparente. Ibra non sembra un modello quanto piuttosto una figura complementare, che lo affascina come sempre succede tra opposti.

 

Perché lui è un emotivo, con impensabili slanci di tenerezza. Uno che per ringraziare i tifosi rosanero dopo l’addio al Palermo, diceva: «Mi hanno sempre voluto tanto bene». Un ragazzo molto emotivo, diceva Juri un paio d’anni fa, raccontando il proprio stupore per come Belotti «riesca a essere disinvolto davanti alle telecamere». Raccontava lo stesso Belotti che negli Allievi del’Albinoleffe gli venivano preferiti altri giocatori e lui andava in tribuna: «confesso di aver pianto molte volte per questo». Quelli che giocavano erano Matteo Borlini, uscito dal calcio professionistico, e Mattia Valoti, che oggi è dell’Hellas in prestito al Livorno.

 

Il suo colore preferito è il bianco, e senza mettersi a fare psicologia dozzinale si direbbe una scelta curiosa per un ventenne che fa il calciatore. Il punto è che Belotti viene dal passato.

 

Intanto come tipo di giocatore. Il suo allenatore all’Albinoleffe, Mondonico, ne parlava come di «un centravanti vecchio stampo», un Boninsegna. In lui, molto appropriatamente, si è rivisto Casiraghi.

 

Ma anche come tipo di persona, sembra poco poco moderno, nonostante si presti alle foto swag su Instagram e mimi la cresta del gallo ogni volta che glielo chiedono. La fidanzata, Giorgia, lo definisce «un ragazzo di altri tempi». Lui stesso insiste su questo punto, lo rivendica, raccontando la propria famiglia come «tranquilla e solida, con ideali antichi». Non c’è tragicità in questa controtendenza: Belotti ha sempre il sorriso, quasi si stesse godendo una gita nel futuro.

 

Belotti e Juri Gallo, aprile 2014

Andrea e Juri, con la cresta.

 

La cresta, in verità, non la alza mai. A raccogliere il materiale su di lui, emerge di continuo una scelta di sobrietà, un carattere tanto determinato quanto calmo. Belotti è uno che a vent’anni dice frasi tipo: «Cerco di avere un profilo basso». È significativo che quello che considera il suo eroe sia Shevchenko, soprattutto quando spiega in cosa sente di somigliargli: «Calcio con entrambi i piedi e non ho mai fatto parlare di me fuori dal campo».

 

Grande lavoro, umiltà. Sacrifici, ovviamente. Gli amici andavano a ballare, lui tornava a casa: «Loro si divertivano e io soffrivo». La figura del padre sembra cruciale nella sua disciplina: «Alle dieci mi telefonava per dirmi di rientrare, mi obbligava e io piangevo».

 

Grande lavoro, anche per compensare i limiti tecnici. «Non aveva piedi da fenomeno, c’era di meglio in giro» ha spiegato il suo tecnico nelle giovanili dell’Albinoleffe, che per ironia si chiama Galletti. «Eppure si sbatteva sul campo come un dannato, con una fame e una voglia di calcio che non avevo mai visto».

 

Il lavoro che è praticamente tutto, per lui, a leggere le equivalenze che fa in questa frase: «Il calcio è la mia vita, il mio lavoro».

 

Belotti e Inzaghi novembre 2010

Segna spesso su tap-in, ruba il tempo e lo spazio in area. Non parla di Pippo Inzaghi come modello, ma sulla pagina Facebook ha questa foto datata novembre 2010.

 

Devono avergli fatto piacere, quindi, le parole impegnative che ha speso Gattuso un anno fa, dopo averlo allenato a Palermo: «Dopo Shevchenko ho visto solo lui tirare quindici, venti volte in porta a ogni allenamento e centrare sempre la porta. Ha un veleno addosso incredibile, si allena sempre a mille all’ora e ha voglia di imparare». Sembra proprio così. Non tira tanto, una media di 2,1 volte a partite, ma tira bene.

 

Un attaccante puro, un centravanti di rapina, al tempo stesso in grado di fare reparto da solo, muscolare com’è. Bravo a tirare da fuori, al tempo stesso feroce dentro l’area. La completezza delle caratteristiche può farne una prima punta centrale o una seconda punta che parte da lontano.

 

Sembra costruito per stare là davanti. Forza applicata, istinto del gol. La fisicità del suo gioco viene a stento tenuta a bada dagli avversari (è al quinto posto nel campionato per falli subiti). Incredibile sia nato centrocampista, prima che nelle giovanili dell’Albinoleffe lo spostassero all’ala, e lo adattassero infine a fare la punta, solo perché in Primavera ce n’era una sola.

 

Nella partita del ritorno di Immobile, è Belotti a collezionare due gol e un assist. Da qui inizia il suo stupefacente 2016.

 

Nel settembre 2013 arriva a Palermo, su grande insistenza del ds Perinetti, in prestito con diritto di riscatto. Segna ben 10 reti, nonostante giochi meno dei suoi concorrenti in attacco (Dybala, Hernández, Lafferty), e contribuisce alla promozione. Trova anche l’Under 21, nello stesso periodo, dove si impone come titolare.

 

Durante la stagione seguente, la prima in A, Belotti ha la funzione di raddrizzare le partite. È il giocatore del campionato 2014/15 che più volte è subentrato a gara in corso, ma ha trovato 6 gol e 3 assist. Segnale di una concentrazione notevole. Non sarebbe in realtà un ragazzino acerbo da gestire senza strappi: non solo perché ha ventun anni, ma perché è già serio e consapevole. E soprattutto dimostra sul campo di essere pronto. Una doppietta al San Paolo di Napoli, un gol alla Roma seconda in classifica. Eppure lo trattano come se fosse altro. Ha davanti Dybala e la sua esplosione, certo, ma soprattutto non gli si dà una piena fiducia. Meriterebbe più coraggio.

 

Meriterebbe una squadra che arriva e ci scommette sopra 7,5 milioni. Una squadra che lo schieri titolare e lo aiuti a puntare, chissà, all’Europeo del 2016. Se poi fosse una squadra vicino a casa, meglio ancora…

 

Tutti i gol della sua prima stagione in A.

 

Questo ragazzone beneducato, calmo e lineare, in campo mette una forza fisica fuori dal comune, ha un gioco aggressivo, prende e dà calci, esulta con foga. Eppure non è un represso né un ipocrita, si direbbe. Il suo modo di sfogarsi sembra piuttosto una specie di gioco. Belotti pare un cucciolo di una specie animale grossa e pericolosa, che dà zampate e impatta col corpo violentemente ma senza intenzione di far danni. Fa a sportellate, ridendo. Il cucciolo diventerà adulto, e l’impressione è che può compiere devastazioni.

 

Torino è un’isola felice per crescere, dicono gli ultimi anni. Di sicuro Torino con Ventura in panchina. L’investimento, tutta quella fiducia, è qualcosa che va ripagato. Sarebbe assurdo lasciare i granata in tempi stretti. Ma tutto lascia pensare che il futuro remoto lo porterà in club più grandi. Lo diceva già Gattuso, un anno fa: «Non riesco a capire come una grande squadra non punti su di lui». Lui, Belotti, che è tifoso del Milan.

 

La nazionale finora è stata l’Under21. Dove sotto la guida di Di Biagio è stato il centravanti dell’ultimo biennio, facendo anche bene all’Europeo di categoria l’estate scorsa. Sembra da escludere per certo che Conte lo porti in Francia, quest’estate, se per le amichevoli di marzo ha preferito chiamare Okaka. Arriverà il suo tempo, comunque. Tutto lascia pensare così.

 

 

Tags : andrea belottiattaccantitorinounder 21

Tommaso Giagni (Roma, 1985) ha pubblicato da Einaudi i romanzi L'estraneo (2012) e Prima di perderti (2016). Tra le antologie a cui ha partecipato: Voi siete qui (minimum fax, 2007) e La caduta dei campioni (Einaudi, 2020). Scrive per «L'Espresso», «Avvenire» e «l'Ultimo Uomo». Il suo ultimo romanzo è I tuoni (Ponte alle Grazie, 2021).

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