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Emiliano Battazzi
La rivoluzione tattica della Serie A
24 dic 2016
24 dic 2016
La Serie A non è più un campionato di catenaccio e contropiede.
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Emiliano Battazzi
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Nel corso dei millenni, l’uomo ha sempre cercato di definire concettualmente degli andamenti per ingabbiare il succedersi degli eventi, alla ricerca di tratti comuni che identificassero periodi più o meno lunghi di tempo. In quasi tutti gli ambiti dello scibile umano è possibile trovare una teoria dei cicli, da quelli della cosmogonia buddista ai cicli economici, passando per l’anaciclosi di Polibio e i corsi e ricorsi di Giambattista Vico. L’arte non fa eccezione, con movimenti sempre pronti a superare il passato, reinterpretarlo, riutilizzarlo. Le avanguardie dell’inizio del XX secolo sono servite proprio come momento di ricostruzione e rinnovamento. Ed è con il

, ad esempio, firmato nell’aprile 1910 da Boccioni, Carrà, Russolo, Severini, Balla, che il dinamismo e la simultaneità sono diventati i concetti fondamentali dell’avanguardia artistica: “Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente”.

 

Anche nel calcio si vivono spesso lunghi cicli tecnici. Non quelli legati ai singoli allenatori, bensì alle tendenze di base di un movimento calcistico. Basta pensare alla ricostruzione del calcio tedesco nel primo decennio del nuovo millennio, alle difficoltà brasiliane dell’ultima decade, alla grande evoluzione del calcio iberico: tutte testimonianze recenti di percorsi calcistici che esulano dalle singolarità di squadre o allenatori. In quest’ottica è interessante notare che quasi esattamente 100 anni dopo il Manifesto Futurista, quegli stessi concetti di movimento e simultaneità hanno iniziato ad essere elaborati e praticati in modo massiccio anche sul campo da calcio. Nel giro di poco più di due anni, da metà 2008 al 2010, nuovi grandi allenatori prendono il centro del palcoscenico: Pep Guardiola al Barcellona, Mauricio Pochettino all’Espanyol, Jurgen Klopp al Borussia Dortmund, mentre Thomas Tuchel lo sostituisce alla guida del Mainz e Jorge Sampaoli sta per sedere sulla panchina dell’Universidad de Chile. Allenatori accomunati da alcuni principi tanto basilari quanto rivoluzionari: simultaneità delle varie fasi di gioco, dinamismo continuo, volontà di imporre la propria strategia in campo.

 

L’innesco dell’avanguardia è la promozione di Guardiola ad allenatore della prima squadra del Barça, una sorta di “Bringing It All Back Home” che all’inizio sconvolge il pubblico calcistico, come l’album di Bob Dylan ha fatto con il suo pubblico introducendo per la prima volta dei suoni elettrici: un disco, in un certo senso, troppo nuovo per i suoi contemporanei. Allo stesso modo, il Barça di Guardiola suona una musica totalmente nuova rispetto alle squadre venute prima e a quelle a lui contemporanee, che però si basa sulla grande eredità tattica olandese-catalana di Cruyff. Da quel momento niente sarà più come prima: i moduli diventano “numeri di telefono”, che servono solo a fotografare un momento statico all’interno di un flusso; le varie fasi (offensiva, difensiva e le due transizioni) diventano passaggi di un unico momento continuo, si confondono e si intersecano l’uno con l’altro; il dominio del possesso palla serve a disordinare l’avversario e ordinare la propria squadra, permettendo ai giocatori di essere in posizioni ideali per la riconquista del pallone appena perso: l’azione ideale composta da 15 passaggi, affinché tutti possano partecipare e avanzare compatti; si difende in avanti, non tornando indietro; e quando schiera Messi falso nueve, portandolo al proprio massimo livello di gioco, Guardiola afferma: “Il nostro centravanti è lo spazio”. Oggi è difficile ricordarsi quanto sono sembrate provocatorie quelle parole, ma il loro valore di rottura non va dimenticato.

 





 

 

 

In un altro campionato europeo, quello tedesco, l’avanguardia è molto più attenta al controllo degli spazi, rispetto a quello del pallone. È un calcio reattivo, in cui si pensa a contrattaccare l’avversario e a riconquistare il pallone, eppure può essere considerato come un altro filone dello stesso grande movimento tattico: quello di un calcio offensivo intraprendente, in cui si vuole prendere il sopravvento sull’avversario. Il Borussia Dortmund di Jurgen Klopp diventa l’emblema di una filosofia di gioco votata a ritmi altissimi, con una pressione infernale per la riconquista dei palloni persi nella trequarti avversaria: il cosiddetto

(in italiano tradotto con riaggressione), da Klopp definito “Il miglior playmaker”. Riconquistare il pallone mentre l’avversario sta per dare avvio alla transizione offensiva permette di colpirlo mentre la linea difensiva è disorganizzata: per questo l’azione deve concludersi il prima possibile, per non permettere all’avversario di riprendere le posizioni. Una rivisitazione in chiave moderna di alcuni principi della Nazionale olandese di Michels, ma anche del Milan di Sacchi, che in alcune occasioni specifiche applicava già una versione di gegenpressing (come nelle semifinali contro il Real Madrid nel 1989) prima che il termine diventasse di uso comune.

 

Quello di Klopp è un calcio iper-verticale, in cui gli spazi sono addirittura creati dall’avversario che si scompone, ma che prevede un’applicazione maniacale della propria squadra, altissima sul campo e con posizioni ed inneschi del pressing ben definiti.

 

 

 

 

 

 



 





 

 

Nel frattempo, dopo aver raggiunto il vertice massimo dell’innovazione tattica con Sacchi, il calcio italiano ha elaborato e proseguito una scuola ricchissima ma che lentamente si è specchiata su se stessa, fino a perdere il senso di ciò che stava succedendo al di fuori. E così il gegenpressing, il juego de posición (gioco di posizione), gli half-spaces (

), la periodizzazione tattica, a quel punto sono strumenti, concetti e metodologie sviluppati nel resto d’Europa, ma non nel campionato italiano, che rimaneva il migliore nell’escogitare il particolare, nell’elaborare il dettaglio, perdendo però la visione più ampia su identità tattica e strategia di gioco. Ma la rivoluzione era iniziata: bisognava solo aspettare l’integrazione nella solidissima, e ostile ai cambiamenti, cultura calcistica italiana.

 



Il fondo forse è stato toccato nella stagione 2010-11, una delle peggiori per i club italiani in Europa: in Champions League una sola squadra arriva ai quarti di finale, in Europa League addirittura l’unica squadra a qualificarsi per i sedicesimi è il Napoli, che viene eliminato. Gli esoneri si susseguono incessantemente, ben 13 a fine stagione, e ad essere colpiti sono soprattutto gli allenatori che elaborano progetti tecnici (tra cui Ventura, Giampaolo, Gasperini, Benitez): la Serie A torna ad essere il campo di battaglia della grande scuola speculativa, con Mutti, Reja e Colomba.

 

Le partite diventano grandi incontri di scacchi tra squadre alla ricerca di un errore dell’avversario: una tattica quasi sempre negativa, un calcio reattivo che, al di là di poche eccezioni, viene fotografato anche dalle statistiche. La prima riguarda il numero dei gol segnati, solo 955 in stagione, record negativo nei campionati a 20 squadre. A rappresentare questa attenzione smodata, quasi un’ansia, nel non commettere errori, c’è il Chievo di Stefano Pioli, re degli 0-0: otto in tutta la stagione, circa il 20% delle partite disputate. Il Chievo dimostra come si possa disputare un buon campionato di Serie A puntando su pochi accorgimenti: difesa serrata della zona centrale del campo, con chiusura delle linee di passaggio (record di intercetti medi - 21,2 - per 90 minuti) e falli sistematici per chiudere ogni spazio (secondo per numero medio di falli), poche azioni nella trequarti avversaria (27% del totale), preferenza per le verticalizzazioni e per il gioco lungo, così da attaccare le seconde palle (quart’ultimo per numero medio di passaggi corti) e cercare spesso il cross (secondo per numero medio di cross per 90 minuti). In questo modo il Chievo arriva undicesimo, quinto peggior attacco del campionato (38 gol segnati) e quarta miglior difesa (40 gol subiti): una squadra che sa cosa fare, cioè rischiare il meno possibile.

 





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La strategia di gioco dei clivensi è reattiva, ma altre squadre in quel campionato hanno dato dimostrazione di voler puntare su un calcio pienamente speculativo, senza idee di fondo propositive che ne strutturassero l’identità in linea con il resto d’Europa. Come il Lecce allenato da De Canio, che puntava a transizioni veloci con le punte molto mobili (Jeda, David Di Michele, Edward Ofere), possesso medio ridotto al minimo e con pochissimi passaggi corti (record negativo in entrambi i casi), elevato numero di tiri concessi in area di rigore (56%, secondo peggior dato della Serie A). Insomma, il Lecce concedeva l’ingresso in area come un padrone di casa apre il salone ai suoi ospiti, per crearsi spazi utili a veloci transizioni offensive.

 

La seconda statistica chiave per capire quel periodo di passività tattica è il

, un indice utilizzato per valutare la capacità di una squadra di pressare - un indice che, in sintesi, esprime il numero di passaggi che una squadra concede all’avversario per ogni azione difensiva, ovvero quanti passaggi una squadra lascia fare alle sue avversarie prima di effettuare un intervento che ponga fine al possesso - che raggiunge nella stagione 2010-11 il suo

delle ultime sei stagioni. Significa, quindi, che si concedono più passaggi, e che in media le squadre aspettano e non vanno a caccia del pallone. È un campionato passivo, ma l’avanguardia è già pronta: sarà la stagione 2011-12 a buttare giù un manifesto che arriva fino ai nostri giorni e ci aiuta a capire anche la nuova Serie A. È arrivata l’ora di un calcio più offensivo, più dinamico e più propositivo. “Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido.”

Ma per portare il cambiamento nel nostro campionato c’è bisogno anche di nuovi allenatori, capaci di pensare fuori dagli schemi soliti: allora c’è Vincenzo Montella al Catania, alla sua prima vera esperienza dopo i pochi mesi in giallorosso; al suo posto, nella Roma c’è Luis Enrique, scuola Barça, per esportare i principi del gioco di posizione; c’è Eusebio Di Francesco, alla prima stagione in A, che però dura poco alla guida del Lecce; e soprattutto c’è Antonio Conte, che torna in Serie A dopo la breve apparizione nell’Atalanta 2009-10. Ad accompagnarli, c’è anche Massimiliano Allegri alla guida del Milan e Roberto Donadoni nel Parma, due allenatori che cercano gli equilibri delle loro squadre senza diventare passivi.

La stagione 2011-12 è il punto di flesso di una rivoluzione che arriva fino ai nostri giorni. Da quel momento, a cambiare non sono semplicemente le disposizioni in campo, i principi da adottare, gli strumenti tattici: anche concetti che pensavamo di conoscere bene si trasformano per assumere nuovi significati. Proprio la Juventus di Antonio Conte, in quella stagione, rappresenta il cambio di paradigma. Arrivato in Serie A con la fama di dogmatico del 4-2-4, Conte impiega pochi mesi per capire quale modulo si adatti meglio ai suoi principi, con i giocatori a disposizione: la Juve si sistema con il 3-5-2 per la prima volta in trasferta contro il Napoli a fine novembre 2011. Per paradosso è un accorgimento strategico tagliato sull’avversario. Negli ultimi mesi della stagione, Conte capisce che quel sistema è il migliore per la sua rosa e lo utilizza sistematicamente: 20 gol fatti e solo 2 subiti nelle ultime 8 giornate.

 

 







 

Conte vuole disordinare gli schieramenti avversari creando spazi tra i giocatori, e il nuovo sistema sembra perfetto. La circolazione bassa del rombo di costruzione (tre difensori più il regista) permette di creare distanze verticali nell’avversario, con le linee cioè che si distanziano e si slegano; l’avanzamento dei due esterni di fascia serve ad attaccare con la massima ampiezza, creando così spaziature orizzontali nella difesa avversaria.

 

La difesa a tre permette non solo una perfetta uscita del pallone dalla difesa, ma anche l’innesco dei meccanismi offensivi automatici, grazie alle fionde del vertice basso, Leonardo Bonucci, e del vertice alto, Andrea Pirlo. In fase difensiva, finalmente, questo sistema non serve ad occupare l’area di rigore, ma ad andare in avanti: l’ecosistema tattico della Juventus di Conte si basa sull’aggressività immediata per riconquistare il pallone appena possibile, bloccando i punti di riferimento offensivi e chiudendo immediatamente le linee di passaggio.

 

Mantenere la superiorità numerica e posizionale nell’inizio azione, creare migliori spaziature in difesa per coprire gli spazi di mezzo, occupare meglio l’ampiezza in entrambe le fasi: i vantaggi di questa nuova interpretazione proattiva della difesa a tre appaiono evidenti. La Juve di Conte entra nella modernità tattica perché asseconda la tendenza del gioco di posizione a spostare la costruzione della manovra da dove era sempre stata, a centrocampo, fino al reparto arretrato; e al tempo stesso riesce a implementare alcuni moderni strumenti di reazione, come il gegenpressing.

 

GALLERIA DIFESA A TRE CONTE

 

Prima di allora, la versione italiana della difesa a tre negli anni Novanta-Duemila trasmetteva caratteristiche diverse, principalmente di attesa e reazione: il Napoli di Walter Mazzarri, forse la miglior interpretazione di questo sistema, tendeva ad accogliere l’avversario nella propria metà campo per chiudergli ogni spazio e spingerlo a sbilanciarsi. Un calcio diretto, abituato a giocare transizioni veloci in un campo grande, con un gioco sempre molto verticale; e necessariamente un sistema che allunga la squadra sul campo, in cui a brevi fasi di aggressione alta seguono lunghi momenti di attesa difensiva, con un sistema di marcature decisamente orientato all’uomo. Uno schieramento pensato non per ottenere superiorità numerica in tutte le fasi dell’azione, ma per ridurre gli spazi per gli avversari (chiudendo anche gli half-spaces) e invogliarli ad avanzare sul campo e poi attaccarli alle spalle.

 

Anche l’Empoli 2007-08, guidato da Gigi Cagni, saltuariamente utilizzava un sistema con tre difensori puri: proprio in quella stagione partecipava per la prima volta nella sua storia a una competizione europea, la Coppa UEFA. Al primo turno, però, vengono spazzati via dallo Zurigo, che vince 3-0 la partita di ritorno. Quel Empoli era in campo con un 5-4-1 il cui unico scopo era chiudere gli spazi per l’avversario: non concedere profondità, assorbire gli inserimenti dei quattro offensivi avversari, creare compattezza in zona centrale. Era la stessa idea di squadra che aveva raggiunto uno storico piazzamento europeo nella precedente stagione, certo. Non è una questione di risultati, ma di principi.

 







 

Nel cambiamento proattivo della Serie A delle ultime stagioni, la difesa a tre diventa uno strumento per controllare il gioco e sovrastare l’avversario con il pallone: un ritorno a quella che era un’abitudine tattica degli anni ‘90 (il Parma di Nevio Scala), ma con una reinterpretazione italiana della variante olandese con i rombi di costruzione, diffusa da Cruyff nella sua epoca da allenatore del Barça. In molti cominciano a vedere questo sistema come un modello di equilibrio e la utilizzano con prospettive diverse: oltre a Mazzarri al Napoli, nella stagione 2011-12 Giampiero Ventura arriva al Torino e adotta questo sistema per ottenere più sicurezza in difesa posizionale e coprire meglio gli spazi nella propria metà campo. Nella stagione successiva, però, si arriva a una nuova interpretazione grazie alla Fiorentina di Montella, che utilizza una serie di principi tattici tipici del juego a.

 

 



L’idea di giocare a calcio attraverso una fitta ragnatela di passaggi non è nuova: dal “combination football” della Scozia nelle ultime tre decadi del 1800, passando per la “passovotchka” della Dinamo Mosca di Boris Arkadiev degli anni ‘40, fino all’Olanda di Rinus Michels. La sistematizzazione del gioco di posizione, però, va ben oltre l’idea del possesso palla per il possesso palla. Con un processo che inizia con la guida tecnica di Cruyff al Barcellona, il sistema si evolve e si perfeziona con l’epopea di Van Gaal all’Ajax, per arrivare alla sua massima espressione di nuovo con i catalani allenati da Guardiola (tra l’altro discepolo di entrambi gli allenatori).

 

In breve, il gioco di posizione non si caratterizza per l’idea di controllare il pallone, che in realtà è solo uno strumento e non un fine: si vuole controllare la palla perché permette di ordinare la squadra, disordinare l’avversario e costringerlo a subire il piano di gioco, senza poter implementare la propria strategia. Per dirla con le parole di Juanma Lillo, allenatore tra i più importanti teorici del calcio di posizione, ora assistente di Sampaoli al Siviglia: “Il gioco consiste nel generare superiorità alle spalle delle singole linee di pressione avversaria. Tutto è più facile se l’uscita del pallone dalla difesa è fluida”. Per Guardiola, invece, la distinzione è ancora più facile: si definisce gioco di posizione, e non di possesso (in spagnolo l’assonanza crea quasi uno slogan: “es un juego de posición, no de posesión”), perché bisogna sapere come posizionarsi quando si ha il pallone e sapere dove pressare quando ce l’ha l’avversario.

 

 

 







 

In un sistema di gioco così caratterizzato, i giocatori sono disposti a differenti altezze e lungo tutti i corridoi di gioco per creare linee di passaggio e sfruttare gli spazi di mezzo; è fondamentale la creazione di triangoli di passaggio (in modo che un giocatore abbia sempre due compagni vicini, e quindi due opzioni di gioco) e se possibile anche di rombi (tre compagni, tre opzioni); giocatori, posizioni e pallone devono muoversi in modo coordinato, e le zone di campo e i relativi compiti devono poter essere occupate e svolti da giocatori diversi all’interno della stessa partita. Un sistema molto meno dogmatico di come appare, che richiede però una preparazione meticolosa. Difesa e attacco non sono momenti separati: è l’idea offensiva e proattiva che condiziona anche la maniera di difendere. In sostanza, una squadra che utilizza i principi del gioco di posizione può difendere bene solo se ha attaccato bene, muovendosi in modo compatto e mantenendo le giuste distanze. E proprio nella stagione 2011-12 un allenatore cresciuto nella scuola catalana, Luis Enrique, prova ad applicare questi principi in Serie A.

 

Nonostante le buone intenzioni, l’innesto non funziona benissimo, sia per la rigidità dell’asturiano (che utilizza sempre e solo la difesa a 4, con De Rossi impegnato nella Salida Lavolpiana), sia per la rosa costruita un po’ alla rinfusa, durante la transizione della nuova proprietà americana. Il gioco associativo della Roma non raggiunge mai la sistematizzazione necessaria affinché funzioni a dovere, ad eccezione di un ottimo periodo invernale (5 vittorie di fila). I giallorossi non riescono soprattutto ad elaborare la fase di riconquista del pallone e si espongono spesso a devastanti transizioni offensive avversarie.

 

GALLERIA GIOCO ASSOCIATIVO ROMA (TUTTE POSITIVE MAGARI TRANNE LE ULTIME 2 O L’ULTIMA IN CUI FAI UN ESEMPIO DI COME NON FUNZIONA)

 

A dirla tutta, la squadra di Luis Enrique diventa quasi una degenerazione dei principi del calcio associativo: si gioca per controllare il pallone ma senza avere idee chiare su come creare superiorità posizionale, il possesso diventa davvero fine a se stesso. Nella partita contro l’Atalanta di Stefano Colantuono, maestro delle seconde palle e del calcio reattivo, la Roma perde 4-1 mostrando un

i. La linea difensiva sembra avere problemi di lettura delle situazioni, addirittura provando a salire quando l’avversario è libero di passare il pallone a un compagno. Peggio ancora, la squadra non si dispone bene con il pallone e non disordina quasi mai l’avversario: i giocatori in possesso sono spesso privi di opzioni di passaggio, a causa della mancanza di rotazione continua delle posizioni. Il 2-0 segnato da Denis è l’emblema di questo problema: prima Marquinho e poi Gago non hanno opzioni di passaggio e si fanno rubare il pallone da Marilungo sulla trequarti. Il servizio immediato per Denis manda l’Atalanta a un 2 vs 2 che finisce con il gol. La Roma attacca male e quindi difende male: esperimento fallito. Ma i principi del calcio di posizione introdotti e pronti per essere italianizzati.

 

Nella stagione successiva (2012-13) tocca alla Fiorentina di Vincenzo Montella mostrare una versione più efficace. Dopo una stagione al Catania, in cui già si erano visti molti degli strumenti tattici che lo caratterizzano, Montella rimette il pallone al centro del progetto tecnico viola, ripristinando quasi un filo diretto con l’ultima Fiorentina di Prandelli.

 

 





 

Con un atteggiamento meno diretto e verticale rispetto ai bianconeri di Conte, i viola di Montella, spesso schierati con il 3-5-2 (in alternativa con il 4-3-3) usano la circolazione del pallone dal basso per ordinare in primis la propria squadra, così da arrivare compatti nei pressi dell’area avversaria, e solo in quel momento provare triangolazioni e cercare la profondità. Anche in questa versione l’idea è di riconquistare il pallone chiudendo le linee di passaggio: senza una particolare aggressività ma semplicemente con la superiorità numerica nella zona del pallone. Tra gli esterni più usati c’era Joaquin, una vera ala d’attacco; mentre sulla sinistra Pasqual aveva il compito di basculare e formare una linea difensiva a 4 in fase di difesa posizionale.

La difesa a tre, in sostanza, interpreta anche il ruolo il cavallo di Troia, che introduce i principi del gioco di posizione in Italia: giocatori ad altezze diverse, la ricerca di un’ampiezza che apra gli half-spaces, la ricerca continua dell’uomo libero, soprattutto in zona centrale, e la creazione della superiorità numerica alle spalle della linea di pressione avversaria: tutti strumenti che sia Conte che Montella hanno usato e usano massicciamente e che iniziano a diffondersi sempre più in Serie A. La difesa a tre diventa, quindi, una grande sintesi di come la fase difensiva e offensiva siano semplicemente due momenti indivisibili e da studiare insieme: si attacca per preparare la riconquista del pallone, si difende per poter attaccare di nuovo.

 

Il dinamismo dei concetti si esprime nel dinamismo delle posizioni e quindi dei moduli, che non sono più gli affreschi cui eravamo erroneamente abituati: i numeri e le immagini riescono a immortalare solo un momento specifico senza descrivere più come prima un’intera squadra. Le due fasi diventano un unicum e il modulo è solo un tentativo di rappresentare il movimento. L’equivalente calcistico della scultura di Boccioni “Forme uniche della continuità nello spazio”: difficile distinguere la figura dal paesaggio che la circonda.

 

In questo contesto, Paulo Sousa, che subentra a Montella dalla stagione 2015-16, emerge come emblema del dinamismo tattico: difficile usare un modulo per definire la sua Fiorentina. 3-2-4-1, 3-4-2-1, 3-4-1-2, 4-3-3 sono tutte interpretazioni all’interno di una singola partita e dipendono dalle fasi di gioco. I numeri non riescono più a descrivere le squadre, servono le idee. Nella Fiorentina di Sousa il controllo e la minimizzazione del rischio sono gli obiettivi principali, attraverso diversi strumenti tattici. I viola cercano la superiorità numerica in ogni fase di avanzamento della palla, attraverso rombi e quadrilateri in grado di offrire linee di passaggio al portatore. Una delle grandi novità è che non solo si difende in avanti, ma a volte si difende anche con il pallone: il possesso in questo caso serve a minimizzare il rischio difensivo ed evitare rischiose transizioni offensive avversarie.

 

GALLERIA IMMAGINI: difesa a 3 Montella + PAULO SOUSA

 

 



Per cambiare il calcio italiano non bastavano le idee e gli allenatori: alla fine è pur sempre l’orchestra a suonare. Anche tra i giocatori, quindi, i segni del cambiamento sono stati lenti ma inevitabili: oggi, i giocatori della Serie A hanno caratteristiche diverse rispetto a quelli di dieci o venti anni fa. Il cambiamento dei ritmi del calcio, più aggressivo e più dinamico, paradossalmente non ci ha regalato solo giocatori mutanti, fortezze fisiche con uno strepitoso controllo del pallone. Per contrasto ci ha finalmente permesso di apprezzare un certo tipo di calciatori, che prima venivano masticati e sputati dalla durezza della Serie A. All’aumentare del dinamismo e della velocità del gioco, cioè, è corrisposto un aumento di giocatori in grado di fermare il tempo.

 

Come scrive Valdano nel libro “

”, “nel calcio ci sono tre tipi di velocità: quella fisica dello spostamento da un posto a un altro [...]; quella mentale (che permette di scegliere la migliore tra molte possibilità quasi come un riflesso automatico; nel calcio, pensare rapidamente o prima di ricevere il pallone è diventato un fattore decisivo) e quella tecnica (che si chiama precisione, ed è la più importante di tutte [...]: se controllo il pallone con un solo tocco sono rapido; se passo con un solo tocco rendo la mia squadra rapida)”.

 

La sintesi di queste qualità mentali e tecniche è rappresentata da Sergio Busquets, il centrocampista centrale del Barcellona. Dopo l’esordio nella squadra blaugrana, il 13 settembre 2008, Cruyff ne fece un ritratto perfetto e premonitore: “Con il pallone, rende facile ciò che è difficile, riuscendo a far uscire il pallone dalla difesa con al massimo due tocchi; senza palla, ci dà una lezione, quella di posizionarsi al posto giusto per intercettare un passaggio e di correre solo il necessario a riconquistare un pallone”. Busquets è un calciatore che non mostra grandi doti atletiche in campo

: cresciuto nelle giovanili del Barça, in cui il gioco di posizione viene da sempre insegnato (per arrivare a giocare nella prima squadra, un ragazzo della cantera blaugrana passa per circa 10.000 ore di allenamento con la stessa metodologia: esattamente come nella regola esplicitata da Malcom Gladwell nel libro “Fuoriclasse. Storia naturale del successo”), fa del posizionamento un’arte. Si abbassa tra i centrali per l’inizio azione; si alza per creare un triangolo quando un altro centrocampista entra nella sua zona; si muove in avanti per accorciare la squadra o scala in posizione difensiva in caso di transizione difensiva già avviata. La sua rapidità è tecnica perché, come ha detto il suo ex compagno Xavi, “Busquets fa tutto in unico tocco: controlla il pallone, osserva la disposizione dei compagni ed effettua il passaggio”.

 

Anche in Serie A, grazie al cambiamento tattico, hanno finalmente attecchito i giocatori con velocità mentale e tecnica spiccate. Per valutare questo sviluppo in prospettiva, basti pensare all’andamento storico dei giocatori spagnoli (che corrispondono per cultura maggiormente all’identikit sopra tracciato) in Italia, e in particolare a fine anni ‘90 inizio 2000. Mendieta, Helguera, De La Peña sono nomi simbolo di un fallimento: giocatori di altissimo livello tecnico, con grande successo nella Liga ma anche nelle competizioni internazionali, e che nel contesto tattico italiano sono sembrati smarriti, addirittura bidoni. Persino Guardiola, uno dei migliori registi nella storia del calcio spagnolo, è risultato adeguato solo per una squadra che puntava alla salvezza come il Brescia. Passato alla Roma di Capello nella stagione 2002-03, riuscì a giocare solo 202 minuti in 18 partite: praticamente niente. Troppo lento, si disse.

 

MOVIMENTO BORJA VALERO



 

 

 

Con lo sviluppo di un calcio propositivo e sempre meno reattivo, il controllo della partita diventa fondamentale: bisogna quindi riuscire a controllare i tempi del gioco, aumentare e abbassare i ritmi, aiutare la squadra a ordinare le posizioni con la circolazione del pallone. La vendetta del giocatore rapido mentalmente e tecnicamente è impersonificata da Borja Valero: un giocatore dinamico ma non veloce, eppure in continuo movimento per creare linee di passaggio. Non è un regista, non è un trequartista: è un

di gioco, è un tec

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