Ok, è andata, ma il discorso era interessante no? Dodici squadre – tre italiane, tre spagnole e sei inglesi – volevano organizzarsi per creare una lega indipendente, chiamata con poca fantasia “Superlega”. Ribaltando l’immagine del bambino capriccioso che si porta via il pallone quando le cose non vanno come dice lui, questi “club fondatori”, come si sono definiti, hanno provato a lasciare il pallone, ma a portarsi via tutto il resto. Via il rischio, via l’alto e il basso, via la favola e via anche i novanta minuti probabilmente. Ma soprattutto quello che hanno provato a portarsi via è l’idea monolitica per cui il calcio è organizzato secondo una precisa piramide gerarchica su base nazionale che premia il merito.
La loro rivolta era tanto evidente quanto banale: se lo spettacolo siamo noi, perché dovete esserci anche voi? Queste dodici squadre si sono trovate tra loro intorno a un bisogno comune, come si trovavano un tempo gli innamorati nei bar affollati. Magari pensavate di essere paladini del calcio romantico andando contro la Superlega, ma cosa c’è di romantico in un calcio che dice “questo è il tuo posto e stai buono e fermo anche se non stai bene con noi?”. No, al contrario il vero calcio romantico è proprio quello che sognavano queste dodici squadre, o almeno quelle che non si sono ritirate dopo pochi minuti. Un calcio dove le avversarie non ti capitano, ma si scelgono, perché non c’è niente di più romantico della libertà di scegliere.
Inoltre siamo in un momento in cui i confini nazionali sono diventati uno strumento politico per escludere l’altro sulla base di ragionamenti populisti, perché considerarli così importanti nella definizione del calcio di oggi? Se queste squadre non si sentono rappresentate dalla bandiera, se pensano che la tradizione, i derby, la lotta per un posto in Europa siano tutti concetti retrogradi, non adatti per andare contro il mondo dei videogiochi, chi siamo noi per contraddirli? Certo, il loro progetto non era inclusivo, ma perché era nato in base a delle logiche di mercato e il mercato non è mai inclusivo. Non sarà la prima né l’ultima volta che una rivoluzione nasce dai bisogni di un élite, ma – a questo punto – quello che possiamo fare noi è una contro-rivoluzione. Una però vera, colorata, estrema. Perché se il calcio è arte o religione, non esistono confini se non quelli della nostra immaginazione. Insomma: facciamoci le nostre superleghe.
Ecco alcune proposte fatte da me, ma vi invito a farvi le vostre, magari con gli amici, all’aperto e rispettando il distanziamento.