40 giovani da seguire nel 2018
Il 2018 sarà un altro anno in cui scopriremo nuovi talenti o continueremo ad innamorarci di quelli vecchi. In questo articolo abbiamo voluto raccogliere i 40 giovani che quest’anno terremo d’occhio per varie ragioni: perché magari faranno un ulteriore salto di qualità, perché rappresentano un’interpretazione interessante di un ruolo in particolare o magari anche solo perché abbiamo un debole per loro.
Abbiamo scelto giocatori nati nel 1997 o dopo, tranne uno, nato nel dicembre '96. Ritenevamo non ci fosse bisogno di inserire quei giovani davvero prodigiosi che hanno bruciato già tutte le tappe nel calcio dei grandi: in questo pezzo allora non troverete talenti fenomenali ma su cui era difficile aggiungere qualcosa di nuovo in poche righe, come Christian Pulisic, Ousmane Dembélé, Kylian Mbappé, Gianluigi Donnarumma. Al tempo stesso, abbiamo scelto giocatori non così remoti, di cui magari avrete già sentito il nome. Come sempre le scelte si basano su criteri soggettivi, se manca qualcuno dei vostri pupilli segnalatecelo nei commenti e ve ne saremo grati.
Buona lettura!
Vinicius Junior, 2000, Real Madrid/Flamengo
di Emanuele Atturo
Vinicius Junior è stato il settimo acquisto più costoso della storia di un club non certo spilorcio come il Real Madrid. I 45 milioni spesi a maggio, per un ragazzino non ancora maggiorenne, hanno spostato il confine di quando è lecito e necessario iniziare la lotta per aggiudicarsi i migliori talenti del calcio mondiale. Il Real Madrid, pur all'interno di una politica di mercato che recentemente privilegia i giovani talenti, è stato costretto a muoversi velocemente, spendendo una cifra di solito riservata a campioni affermati. Per dare un’unità di misura paradossale: Vinicious è stato pagato più di ciascuno dei titolari del Real Madrid attuale, Ronaldo a parte.
Anche solo per questo, cioè per ciò che rappresenta, Vinicious è uno dei giovani più interessanti da seguire quest’anno. Sulle qualità calcistiche di Vinicious si sa poco o niente; i suoi video dal Brasile, o presi in qualche campo d’allenamento, girano come i libretti luterani nel ‘500: rari, preziosi, da prendere con un po’ di scetticismo. Il misto di aspettative generate dal suo costo e un’età che ancora gli permette di non esprimersi ancora a pieno lo rendono un giocatore misterioso, più di quanto lo siano normalmente tutti i calciatori giovani, da cui non è chiaro quanto sia lecito attendersi. Nel 2018, inizieremo a capirci qualcosa di più.
Federico Chiesa, ‘97, Fiorentina
di Daniele Manusia
Il talento di Federico Chiesa è sotto gli occhi di tutti, in continua espansione. Chiesa è semplicemente troppo più esuberante di qualsiasi altro calciatore, giovane o no, che vi possa capitare di vedere. Per questo a restarne maggiormente impressionati sono i tifosi delle squadre avversarie, che soffrono letteralmente la sua energia vitale. Un’energia talmente peculiare che in brevissimo tempo lo ha reso riconoscibile anche al di là dei paragoni con un padre ingombrante, più che altro per l'ammirazione con cui viene ricordato. Federico Chiesa scoppia di salute e di voglia di giocare a calcio e non c’è modulo, tattica o strategia in grado di confinarne la vitalità. Non tutto quello che sto dicendo va letto in chiave esclusivamente positiva, il talento di Chiesa è così unico da rendere impossibile quasi ogni previsione futura (quanto durerà a quest'intensità? Che giocatore resterebbe se diminuisse il dinamismo?).
Certo, per ora si esprime a dei ritmi tali che bisognerebbe essere dei sadici per tenerlo fermo in panchina, e non c’è squadra più adatta al suo stile di gioco della Fiorentina verticale e iperintensa di Stefano Pioli in cui il pensiero razionale segue spesso l'azione. Chiesa ha avuto la fortuna di non doversi adattare a nessun contesto che ne normalizzasse la straordinarietà, svolgendo più funzioni, interpretando più ruoli, ma sempre a modo suo, senza che gli venisse mai chiesta un’efficienza che forse non potrebbe garantire. E però, nell’anarchia di Chiesa, in tutte le cose che fa e che può senz’altro ancora migliorare, ci sono anche tutte le sue possibilità di sviluppo.
Personalmente, vedendolo entrare spesso dentro al campo, calpestare zone molto lontane dalla sua fascia di competenza - con quei riflessi che gli permettono di arrivare sempre primo sulla palla, l’equilibrio con cui cambia direzione senza rallentare, la sensibilità sul pallone con cui talvolta risolve situazioni difficili trovando il passaggio o la giocata giusta - ho pensato che potrebbe trovarsi bene anche in una squadra maggiormente associativa, con appoggi più solidi per venire a giocare tra le linee e qualcuno che gli faccia arrivare più spesso la palla vicino alla porta, per sfruttare la sua velocità in profondità e quella qualità paterna di coordinarsi per il tiro in frazioni di secondo anche fuori equilibrio. Questa è ancora la sua prima stagione da titolare in Serie A e il 2018 ci dirà anche se riuscirà a giocare all'intensità a cui sta giocando per un’intera stagione.
Sander Berge, ‘98, Genk
di Daniele V. Morrone
Berge è un centrocampista "freak", di quelli con una grande fisicità con allo stesso tempo una tecnica di passaggio e nella conduzione del pallone fuori dal comune. Berg è incredibilmente preciso nella distribuzione della palla, sia nel corto che nel lungo. Oggi gioca nel Genk, dove è arrivato lo scorso gennaio direttamente dalla Norvegia.
In Belgio gli basta una giravolta per liberarsi dell’avversario, che non fa in tempo a trovare il pallone in anticipo nè a recuperarlo, perché ovviamente non è possibile spostarlo con il fisico. Per questo quando Berge irrompe in conduzione è uno spettacolo da guardare: la struttura fisica lo porta quasi a scoraggiare gli avversari prima ancora di provare il contrasto. Un tronco di sequoia che cade da una vallata è meno pericoloso agli occhi di chi se lo vede arrivare in corsa.
Berge è già titolare nella nazionale norvegese, dallo scorso giugno, dopo aver esordito a marzo a 18 anni. A 19 anni ha mostrato margini enormi, ma per tanti versi non se ne possono conoscere ancora i limiti, almeno fino a quando non giocherà in un contesto più competitivo del campionato belga. Berge si sviluppare in direzioni diverse a seconda di dove finirà: ad esempio, dovesse andare in Liga potrebbe diventare un totem a cui appoggiarsi davanti alla difesa, in grado di resistere alla pressione avversaria e far circolare il pallone; dovesse andare in Premier League potrebbe diventare un bombardiere “box to box” da far arrivare in attacco dalle retrovie e dominare il centro del campo. Berge è un enorme blocco di marmo norvegese alto 195 cm da poter scolpire come si vuole. Speriamo finisca tra le mani di un grande artista.
Abdou Salam Jiddou, 2000, Maputo
di Emanuele Atturo
Se state cercando un nome assolutamente misterioso da giocarvi in una cena all’hamburgeria, Salam Jiddou (a volte scritto come Giddou) è il massimo dell’esotimo che potete permettervi nel 2018. Stiamo parlando di un giocatore di etnia tuareg, così esotico che gioca ancora in Africa, anche se probabilmente ancora per poco.
Se noi lo conosciamo non è perché siamo degli squilibrati che di notte guardano i campionati nazionali africani, ma perché Jiddou ha messo a ferro e fuoco il Mondiale U-17 giocato qualche mese fa, di cui il suo Mali è stata la sorpresa, e lui il giocatore più sorprendente. In patria è stato già definito “Un vero simbolo della riconciliazione del Mali”.
Jiddou è una mezzala creativa ed elegante che gioca con la 10 sulle spalle; ama accorciare sempre verso il pallone per toccarne il più possibile e cucire il gioco della squadra. Ha una visione di gioco notevole. Appena controlla il pallone alza la testa per vedere se può servire il movimento di un compagno venti o trenta metri in avanti; se non vede movimenti cerca lo scambio palla a terra con i compagni vicini, cercando di entrare in percussione fra le linee avversarie. Con un tiro da fuori - un calcio secco di collo pieno sotto l’incrocio dei pali - ha segnato uno dei più bei gol del torneo. È un giocatore verticale ma non ha neanche 18 anni e col tempo potrebbe imparare a gestire i tempi di gioco in maniera più complessa.
Un paio di mesi fa si è già parlato di un interessamento di Inter e Roma. Il rischio è che con un fisico così minuto finisca per impolverarsi nei campionati primavera.
Malcom, ‘97, Bordeaux
di Dario Saltari
Dopo un lungo periodo di adattamento al calcio europeo, per Malcom sembra finalmente arrivato il momento dell’affermazione. L’ala brasiliana ha già segnato 7 gol e 5 assist in stagione, alcuni molto belli, e sembra ormai essere diventato troppo grande per il Bordeaux, che difficilmente riuscirà a trattenerlo il prossimo anno. Ci si attende quindi che Malcom nel 2018 compia finalmente il grande salto, quello in una grande squadra, che sarà il primo vero banco di prova per il suo talento. Partendo da destra è abituato a venire dentro al campo e ad associarsi con i compagni, con il sinistro ha un grande tiro dalla distanza, anche da fermo, ma fisicamente rischia di essere ancora troppo leggero per campionati troppo intensi. Il rischio, grosso, è quello di essere frainteso: Malcom non è un giocatore dominante, in grado di decidere da solo il contesto delle partite, e anzi brilla soprattutto quando riesce ad associarsi in velocità con i compagni. Non ha l'esplosività di Lucas Moura per mangiarsi cinquanta metri di campo palla al piede, non ha il dribbling di Neymar per fare tutto da solo (tenta il dribbling 3.1 volte ogni 90', in un campionato in cui Neymar ne prova 11.2). Malcom ha bisogno dei propri compagni per giocare al meglio. Se dovesse arrivare in un top club con delle aspettative eccessive, per lui il 2018 potrebbe rivelarsi peggiore di quanto non possa sembrare oggi.
Amine Harit, ‘97, Schalke 04
di Daniele Manusia
(Contributo tratto da un pezzo uscito in inglese per il blog di Wyscout)
Amine Harit dice di essere ambizioso. Per questo ha lasciato la Francia (il Nantes di Ranieri) dopo un solo anno in Ligue1, per giocarsi le sue chances in Germania, nello Shalke 04 di Domenico Tedesco. Dopo tre partite ha realizzato il primo assist, con una rasoiata che taglia in due la difesa del Red Bull Lipsia e mette in porta Konoplyanka. Ma più che il passaggio, in quella specifica azione a colpire è stato il gioco di gambe con cui ha saltato il gegenpressing avversario al centro del campo: Harit ha solo vent’anni ma ha già giocatoin tutti i ruoli del centrocampo, senza mai perdere la sua qualità originaria di trequartista.
Harit ha un piede destro eccezionale con cui può fare tutto, nel gioco corto come nel lungo, con l’interno ha un controllo orientato che spesso equivale a un dribbling per come lo libera dalla pressione avversaria, con l’esterno gioca filtranti in diagonale verso sinistra estremamente precisi. Tedesco lo sta usando sia a sinistra che a destra, sia come mezzala che come trequartista. Spalle alla porta usa il corpo per proteggere palla e girarsi sul piede forte, e protegge meglio di molti giocatori con un fisico più grosso del suo (sfiora appena il metro e ottanta) ma Harit dà il proprio meglio in verticale. Sia per come legge il gioco (con una visione da vero e proprio regista offensivo) sia per la velocità con cui porta palla e serve i compagni nello spazio. A sinistra può rientrare sul destro, dribblare il diretto avversario e scegliere il compagno migliore da servire, dimostrando grande istinto e maturità nelle scelte.
Foto di Dean Mouhtaropoulos/Bongarts/Getty Images.
Per ora la scelta di giocare in Germania si è rivelata molto adatta alla sua verticalità. Solo 4 giocatori di campo hanno giocato più minuti di lui e, se tutto va bene, lo vedremo anche quest’estate al Mondiale. Non con la maglia della Francia, però, con cui ha vinto l’Europeo Under 19 insieme a Mbappé: lo scorso anno ha scelto di rappresentare il Marocco, “per via e grazie alla mia famiglia”, una decisione che ha preso dopo un anno e mezzo di riflessione. “La scelta più difficile di tutta la mia carriera”, ha detto. Invece Hervé Renard, l’allenatore, non ci ha pensato due volte e lo ha fatto esordire il prima possibile con i “Leoni dell’Atlante” (e Harit ha già realizzato 2 assist contro la Corea del Sud).
Riccardo Orsolini, ‘97, Atalanta
di Federico Aquè
Foto di Paolo Bruno / Getty Images.
Esattamente un anno fa Riccardo Orsolini era seguito da quasi tutte le squadre di vertice della Serie A. Alla fine lo aveva comprato la Juventus, che scelse comunque di lasciarlo ad Ascoli per fargli concludere il campionato di Serie B. Chiuso il torneo con 8 gol in 41 presenze, Orsolini ha poi giocato il Mondiale Under-20, trascinando l’Italia fino alle semifinali, un traguardo mai raggiunto prima, segnando 5 gol e vincendo la Scarpa d’oro come capocannoniere della competizione. Forte di queste grandi prestazioni, la scorsa estate la Juventus avrebbe potuto mandarlo in prestito praticamente ovunque. La scelta è ricaduta sull’Atalanta, in teoria il posto ideale per un ragazzo così promettente, vista l’attenzione che il club dedica ai giovani e la presenza di Gasperini, tra i migliori allenatori in Italia a sviluppare il talento dei giocatori a sua disposizione.
E invece finora Orsolini ha giocato molto poco, guadagnandosi la prima presenza da titolare in Coppa Italia contro il Sassuolo e accumulando per il resto qualche manciata di minuti dalla panchina, sia in Serie A che in Europa League. La rinascita di Ilicic e l’affermazione di Cristante, che in più di un’occasione ha completato il tridente offensivo, hanno drasticamente ridotto le possibilità di entrare stabilmente nelle rotazioni. È ovvio che in questo momento Ilicic e Cristante offrano maggiori garanzie a Gasperini, anche perché l’ingresso in squadra di Orsolini cambierebbe, e molto, gli equilibri nel tridente. Orsolini è un esterno mancino che ama partire da destra, ha uno stile poco associativo e più “da attaccante” rispetto a Ilicic e Cristante: il suo gioco è ancora incentrato in gran parte sull’uno contro uno e sulla ricerca della porta avversaria, con e senza palla, un aspetto affinato nel Mondiale Under-20, in cui ha spesso segnato tagliando dal lato debole. In teoria questa sua caratteristica si completerebbe bene con la creatività di Gómez sulla fascia sinistra, ma non è ancora un argomento sufficiente per convincere Gasperini a concedergli maggiore spazio.
Le poche presenze accumulate finora hanno alimentato le voci di mercato, ma di recente il suo procuratore ha dichiarato che non lascerà l’Atalanta, almeno nella sessione invernale del calciomercato. Orsolini ha ancora un anno e mezzo per imporsi con i bergamaschi (l’accordo stabilito con la Juve in estate prevede infatti un prestito biennale): con un po’ di pazienza e di fiducia in Gasperini potrà tornare a generare l’hype che aveva portato tutte le grandi squadre italiane a interessarsi a lui un anno fa.
Gerson, ‘97, Roma
di Dario Saltari
Dopo un anno in panchina, passato a stimolare più che altro l'ironia dei tifosi per il prezzo speso dalla Roma che minuti giocati, Gerson è finalmente riuscito a rientrare nelle rotazioni dei titolari della Roma di Di Francesco, guadagnandosi anche una settimana di gloria dopo la doppietta alla Fiorentina. Nonostante sia indubbiamente cresciuto molto, però, il brasiliano non ha ancora fugato del tutto i dubbi su suo talento. Gerson ha dimostrato di avere alcune caratteristiche al di sopra alla media - la difesa del pallone spalle alla porta, il primo controllo, il fisico potente ed elastico - ma non è ancora del tutto chiaro dove potrebbe diventare davvero un giocatore eccezionale, in che posizione esattamente, in che contesto, con quali compiti. Gerson è troppo statico senza palla per pensarsi come mezzala, sia di possesso che di inserimento, troppo lento per essere un’ala davvero dominante. Nel 2018 forse scopriremo se esiste un ruolo in cui Gerson può affermarsi davvero, sempre che esista, in ogni caso toccherà a lui continuare a crescere e sfruttare le occasioni che gli verranno date.
Dayot Upamecano, ‘98, Red Bull Lipsia
di Flavio Fusi
(Contributo tratto da un pezzo uscito in inglese per il blog di Wyscout)
Dayotchanculle Upamecano è un prodotto delle giovanili del Valenciennes, squadra che ha lasciato nel 2015 per trasferirsi al Salzburg. Il difensore francese ha cominciato giocando una stagione nel Liefering, per poi passare in prima squadra nel 2016/17. Il massimo campionato austriaco gli è però andato subito stretto e quest’estate ha completato la sua rapida ascesa nelle gerarchie dei club RB, approdando al Leipzig.
In Bundesliga sta confermando quanto di buono fatto vedere nella sua breve carriera. Upamecano è alto 1 metro e 85 e dispone di una struttura fisica notevole (83 kg), considerato che ha compiuto 19 anni da pochi mesi. L’altezza e un buon senso dell’anticipo lo rendono difficilmente superabile nei duelli aerei, che vince nel 68% dei casi. Ha grande forza fisica e un equilibrio invidiabile, caratteristiche che lo avvantaggiano non poco nei contrasti.
Dimostra ottime letture delle trame di gioco avversarie, tanto da completare 6.1 intercettazioni ogni 90 minuti. È molto rapido, considerata la stazza, ma dà il meglio di sé nel lungo, quando riesce a coprire molto campo grazie a delle gambe lunghissime, piuttosto che nel corto, rendendolo il difensore ideale per una squadra che difende in avanti come il Leipzig.
Con il pallone tra i piedi è sicuro e composto (51 passaggi per 90 minuti con una precisione del 90%) e non manca di condurre palla o cercare il dribbling, grazie alla tecnica individuale sopra la media di cui dispone. Gioca a testa alta e spesso cerca, con successo, passaggi a lunga gittata, siano essi cambi di gioco o lanci alle spalle della difesa avversaria. Fisico, forza, senso dell’anticipo, rapidità e precisione nei passaggi: Upamecano dispone già di tutte le caratteristiche del difensore moderno ed è destinato a crescere ancora.
Nicolò Barella, ‘97, Cagliari
di Dario Saltari
La crescita di Barella in questa stagione è stata talmente esplosiva e spettacolare che chiedersi adesso se riuscirà a confermarsi anche il prossimo anno sembra quasi superfluo. Il mediano del Cagliari è, insieme a Chiesa e Donnarumma, il prospetto italiano più eccitante degli ultimi anni e potrebbe passare in una grande squadra già nelle prossime sessioni di mercato. Con la sua capacità di mantenere alto il proprio rendimento contro qualsiasi avversario, è già possibile immaginarselo nel centrocampo delle migliori squadre italiane, nonostante sia solo alla sua primissima stagione da titolare in Serie A. Barella, per forza di cose, ha un talento ancora molto grezzo ma la facilità con cui ha adattato le sue qualità alla massima serie, riuscendo anzi a distinguersi dalla media, fa pensare che abbia qualcosa in più degli altri. E allora la domanda diventa se Barella è già pronto per questo salto oppure no: questo, sì, il 2018 potrebbe dircelo.
Maxime Lopez, ‘97, Olympique Marsiglia
di Daniele Manusia
Maxime Lopez è stato lanciato da Rudi Garcia poco dopo il suo arrivo a Marsiglia, ormai più di un anno fa, e alla sua prima stagione tra i professionisti ha realizzato tre gol e sei assist. Nella stagione 2017/18 ha giocato meno della metà dei minuti a disposizione, complice un cambio di modulo dal 4-3-3 al 4-2-3-1, ma è il giocatore in rosa che ogni 90 minuti effettua più passaggi in media (90.2) e con la precisione più alta (92.1% in media, e nelle partite in cui viene sostituito la percentuale di passaggi riusciti sul totale sale oltre il 96%). Non arriva al metro e settanta e per questo è penalizzato se deve coprire molto campo (ed è anche piuttosto semplice da dribblare in transizione o in campo aperto).
Quello di Maxime Lopez (con origini nordafricane e un fratello che ha giocato qualche partita con l’Algeria, e che quindi, in teoria, potrebbe anche giocare con una nazionale diversa dalla Francia con cui sta facendo le giovanili) è un calcio di distanze brevi, fatto di piccole accelerazioni per eludere l’intervento avversario e sterzate rapide a testa alta, per cercare una linea su cui effettuare un passaggio. Anche se ha un ottimo lancio con l’interno, preferisce giocare sul corto. Corre veloce con la palla incollata al piede ma non per grandi distanze, la protegge bene negli spazi stretti e se è necessario dribblare può farlo accelerando i movimenti di gambe (tenta 2 dribbling ogni 90', e gliene riesce quasi uno e mezzo, 1.4).
Non è il tipo di giocatore che punta la difesa minacciando il tiro (ne effettua più o meno uno ogni 90’) e quando è sulla trequarti cerca uno scambio per arrivare al cross o direttamente il passaggio che porti al tiro un compagno (in Ligue 1 effettua 2.5 key pass ogni 90’, e dopo Payet e Thauvin, le due ali titolari di Garcia, è il giocatore dell’OM che manda di più al tiro un compagno).
È una mezzala di possesso e non può essere nient’altro con il fisico e con il talento che ha, ma non è un giocatore difensivo, le sue scelte non sono quasi mai conservative e la linea di passaggio che cerca per prima è quella in diagonale. Se qualcuno, per le dimensioni, per la tecnica, lo ha paragonato a Marco Verratti si è sbagliato su questo aspetto fondamentale del suo gioco: Maxime è più a suo agio rispetto a Marco negli ultimi metri di campo e meno incline al lancio lungo. Con una faccia davvero da ragazzino si muove per il campo oscillando il busto come quei giochi piantati nei parchi su una molla, si inclina a destra e a sinistra, si sposta la palla dall’esterno all’interno, e intanto con lo sguardo cerca un compagno in avanti a cui passarla. Dalla trequarti in poi, cerca l’ultimo o il penultimo passaggio. Il suo talento è fragile, non solo per l’età ma anche per le sue caratteristiche fisiche e tecniche, ma Maxime sembra abbastanza robusto per imporsi anche tra i “più grandi”, che nel suo caso resteranno sempre tali.
Allan Saint-Maximin, ‘97, Monaco/Nizza
di Dario Saltari
Dopo un’ottima stagione al Bastia, Saint-Maximin è stato ritenuto ancora troppo acerbo dal Monaco, che lo ha spedito ancora in prestito al Nizza per un’altra stagione di apprendistato. Saint-Maximin è un giocatore con una capacità quasi unica di disordinare le difese avversarie. Non si parla di talento assoluto, nemmeno di sensibilità tecnica, ma sa creare pericoli con la propria esplosività sui primi passi, con i cambi di passo, con la corsa in spazi aperti. Se si esce al di fuori di questa capacità, però, diventa difficile definire il suo talento: Saint-Maximin ha un tiro potente ma non particolarmente pulito, un primo controllo tutt’altro che eccellente, una consapevolezza tattica appena abbozzata, un istinto realizzativo ancora scarso. Se l’ala francese avesse davvero dei margini di miglioramento in questi aspetti del suo gioco, allora potrebbe diventare uno dei talenti offensivi più devastanti della sua generazione. Chissà che il 2018 non possa darci risposte in questo senso.
Carlos Soler, ‘97, Valencia
di Emiliano Battazzi
Nel florido settore giovanile del Valencia c’è sempre una nuova grande promessa: di solito un terzino sinistro, ma anche grandi ali e trequartisti: da Bernat a David Silva. In questa grande tradizione si inserisce Carlos Soler: nato a Valencia, entrato nella cantera addirittura a sette anni (dopo aver segnato una tripletta contro la sua futura squadra), più di 500 gol nelle varie giovanili, dove giocava da prima punta. Lentamente si è trasformato in un trequartista, poi in mezzala di possesso e anche regista, e adesso si sta abituando a giocare addirittura da esterno destro nel rigido 4-4-2 di Marcelino. Soler ha debuttato nella Liga durante l’annus horribilis valenciano, lanciato da Prandelli (non tutti i mali vengono per nuocere). Durante il caos della passata stagione, Soler è stata l’unica nota positiva, diventando immediatamente titolare e dimostrando tutte le sue capacità (trovando il tempo anche per iscriversi all’università): visione di gioco, tecnica elevatissima, capacità di giocare in spazi stretti.
Questa però è già una stagione fondamentale nel suo percorso di crescita: stretto in un ruolo non suo, Soler ha dei compiti diversi rispetto a un normale esterno. Si accentra molto, anche per dettare un passaggio tra le linee, e non deve necessariamente mantenere l’ampiezza. Ma rimane un destro schierato a destra: con il cross come gesto tecnico più normale, e allo stesso tempo limitato dalla linea laterale. Ciò nonostante, ha disputato una splendida prima parte di stagione, perché Soler ha molte qualità: la progressione di un’ala, la conduzione palla al piede, l’ultimo passaggio di un trequartista (4 assist per ora, dietro solo a Guedes). L’ecosistema tattico di Marcelino è però basato su un calcio automatico, verticale, veloce e aggressivo: schierato sulla fascia, Soler è marginalizzato dal gioco, effettuando a mala pena 32 passaggi per 90 minuti (tra gli ultimi dell’intera rosa del Valencia). Dal suo maggior coinvolgimento nel gioco dipenderà una maggior variabilità e imprevedibilità della squadra; dalla sua evoluzione tattica individuale dipenderà il suo destino, nel complicatissimo passaggio da grande promessa a grande giocatore.
Kai Havertz, ‘99, Bayer Leverkusen
di Emanuele Atturo
(Contributo tratto da un pezzo uscito in inglese per il blog di Wyscout)
La scuola calcistica tedesca non smette di produrre talenti a centrocampo. Dopo Leon Goretzka - un trequartista con uno spiccato senso dello spazio - e Julian Weigl - un regista dalle geometrie cristalline - Kai Havertz è il nuovo prospetto da tenere d’occhio. Ha appena 18 anni e già 41 presenze e 5 gol tra i professionisti con la maglia del Bayer Leverkusen, di cui è stato il più giovane esordiente. Dicono di lui: «Non ho mai visto un giocatore così completo alla sua età», Lars Bender; «Ha buona tecnica, velocità, forte nell’uno contro uno. Calciatori come lui mi rendono felice», Roger Schmidt.
Havertz è un centrocampista completo: tecnico nel dribbling, con una grande sensibilità nei passaggi corti e lunghi e un buon senso dell’inserimento. Pur essendo mancino, sa usare il destro se richiesto (anche se in maniera più meccanica). Il suo migliore talento è però l’intelligenza tattica, che ha portato i suoi allenatori a schierarlo in tante posizioni diverse: play di un 4-2-3-1, attaccante esterno a sinistra dello stesso modulo; seconda punta di un 4-4-2. Havertz ha un fisico slanciato (1,86 cm) e non è rapido sui primi passi, cosa che lo costringe a giocare sempre a testa alta per anticipare i tempi.
Quando riceve ha un primo controllo di qualità e sa usare bene il corpo per eludere la pressione. Se vede un movimento in profondità ha la sensibilità e la visione per servirlo; in situazioni più statiche cerca di associarsi con i compagni, inserendosi in area quando serve.
La completezza del suo repertorio è ciò che lo rende utile in ruoli diversi, ma è anche ciò che può limitarlo a un certo livello. Havertz è ancora un talento grezzo, in attesa di trovare una specializzazione. La qualità nell’ultimo passaggio (già 5 assist quest’anno) e la visione di gioco potrebbe suggerire un futuro da mezzala creativa, perfetta in un 4-3-3, o magari da trequartista che parte a destra per stringere verso il centro in un 3-4-2-1 o in 4-2-3-1.
Marco Carraro, ‘98, Inter/Pescara
di Emanuele Mongiardo
Nel secondo Pescara di Zeman si sta imponendo un prospetto interessante davanti alla difesa. Marco Carraro, classe '98 ed ex capitano dell'Inter primavera, è il vertice basso del centrocampo abruzzese. Spetta a lui tessere i fili della prima costruzione facendosi trovare in zona luce per offrire un'uscita del pallone pulita ai centrocampisti. Carraro è il profilo perfetto, tecnicamente e fisicamente, per agire da “mediocentro”. Innanzitutto per la sua abilità nei passaggi e per le responsabilità che si assume in prima costruzione. Il mancino educato gli permette di affettare in verticale le linee di centrocampo avversarie per trovare nei mezzi spazi l'ala che taglia verso l'interno o la mezzala che si alza. Le scelte di passaggio alle volte estremamente rischiose combaciano perfettamente con le idee di Zeman che non ha esitato a schierarlo dopo un paio di mesi d'apprendistato. Carraro riesce ad essere utile anche nel gioco corto. Quando infatti le mezzali si abbassano per agevolare il possesso, ha piedi e velocità di pensiero per scaricare palla e muoversi alle spalle del proprio marcatore, invitando così i propri compagni a ruotare il centrocampo e a triangolare per superare la pressione avversaria. In questo gioco di cucitura lo aiuta una sensibilità tecnica che gli permette di giocare velocemente di prima, sia sul corto che sul lungo.
Anche ilanci fanno parte del suo repertorio. Col sinistro ama alzare la palla per cercare i compagni alle spalle della difesa. Deve però smussare questo suo gusto verticale: delle volte prova il lancio anche contro difese schierate, regalando palla agli avversari. In fase di non possesso, preferisce difendere in avanti, agevolato nei contrasti dal fisico ben strutturato (quasi un metro e novanta d'altezza). La stazza ne rallenta però il passo nelle corse all'indietro, situazioni frequenti in una squadra come il Pescara che perde troppo facilmente le giuste distanze in pressione.
Il miglioramento più impellente da raggiungere per Carraro riguarda la gestione del possesso: se imparerà ad avere più pazienza nel giro palla, migliorando le scelte di passaggio, potrebbe affermarsi già dall'anno prossimo in Serie A. E rientrare, perché no, in orbita Inter.
Jann-Fiete Arp, 2000, Amburgo
di Daniele V. Morrone
Foto via DFB.
Jann-Fiete Arp è stato il primo giocatore nato nel 2000 a segnare in Bundesliga. È la cosa più vicina ad un "salvatore della patria" che l’Amburgo abbia avuto da un decennio a questa parte. Per farlo giocare nel posticipo l’Amburgo ha dovuto chiedere una dispensa speciale per minorenni lavoratori. La punta tedesca è la risposta che il programma messo in piedi dalla federazione anni fa stava aspettando; la risposta alla domanda se la Germania sia in grado di produrre giocatori di enorme talento in ogni singolo ruolo. Dopo anni di splendide seconde punte e trequartisti, Arp potrebbe essere la tanto agognata punta centrale. Non solo un altro faticatore intelligente nei movimenti, non un altro gigante bravo nell’appoggiare la manovra, Arp può essere tutto questo ma al momento è soprattutto una punta che segna con grande facilità.
Certo, Arp è ancora grezzo, non sembra avere grandi doti atletiche, il gioco spalle alla porta non è ancora del tutto sviluppato, è sgraziato nel gesto e la sensibilità nel piede arriva e va via. Però ha già un calcio sicuro e dei lampi di talento in area che fanno pensare a margini di crescita enormi. Dopo una seconda parte del 2017 che lo ha visto irrompere come un fulmine in prima squadra, il 2018 dovrà essere l’anno dell’assestamento tra i grandi. Ha già rifiutato le offerte delle grandi squadre, ha detto che vuole rimanere a casa per crescere, che non ha senso bruciare le tappe ora.
Houssem Aouar, ‘98, Olympique Lione
di Federico Aquè
Foto di Jeff Pachoud/AFP/Getty Images.
A giudicare dall’impatto che sta avendo sul campionato francese, il settore giovanile del Lione ha tirato fuori un altro talento fuori scala. Secondo L’Équipe, alla fine del girone d’andata Houssem Aouar è il terzo miglior giocatore della Ligue 1, dietro Neymar e Cavani. Per inquadrare la velocità della sua ascesa va detto che ha esordito tra i professionisti appena un anno fa, nei sedicesimi di Europa League contro l’AZ Alkmaar, ed è entrato nelle rotazioni del Lione solo all’inizio di questa stagione. In estate l’OL aveva venduto tre dei giocatori più forti usciti dal suo settore giovanile negli ultimi anni, Lacazette, Tolisso e Gonalons, e come da tradizione ne ha pescato un altro che promette di garantirgli un’enorme plusvalenza in futuro.
Aouar è un centrocampista tecnico ed elegante, i cui modelli di riferimento sono Grenier, stella del Lione durante la sua trafila nelle giovanili, e Zidane, con cui condivide le origini algerine. È già stato avvicinato dalla federazione per convincerlo a giocare con l’Algeria, ma per ora ha esordito con l’Under-21 francese.
Nell’OL già sperimentato diversi ruoli: esterno offensivo, mezzala e interno di un centrocampo a due col compito di impostare l’azione. Anche per questo è difficile trovare un confine alle sue potenzialità. Ha giocato appena una decina di partite da titolare, ma ha dimostrato da subito di poter avere un’influenza determinante nel gioco dell’OL. Tecnicamente è già un giocatore eccezionale, ha quel tipo di controllo raro che gli consente di tenere davvero la palla incollata al piede e di affrontare le situazioni più complicate, con molti avversari attorno e gli spazi che inevitabilmente si riducono, da una posizione di vantaggio. Ha una percezione del campo più ampia del normale, sa leggere i movimenti dei compagni e ha la qualità per servirli con precisione estrema. Dà un grande contributo alla progressione della manovra, tagliando le linee avversarie in conduzione o con una verticalizzazione, ma potrebbe essere ancora più presente sia nella rifinitura che nella conclusione. In campionato ha comunque servito 2 assist e firmato 3 gol, due dei quali decisivi per ribaltare e vincere la partita contro l’Amiens.
Aouar è già adesso un fattore chiave nelle partite dell’OL, in futuro potrebbe diventarne la stella e aggiornare la lista di talenti usciti dal suo settore giovanile venduti a peso d’oro ai migliori club d’Europa.
Pablo Maffeo, ‘97, Manchester City/Girona
di Emiliano Battazzi
In un calcio che ha disperato bisogno di giocatori capaci di coprire la fascia, e in cui i terzini hanno ormai ampliato il proprio bagaglio tattico fino a diventare registi occulti, su Pablo Maffeo le aspettative sono già molto alte. Catalano cresciuto nell’Espanyol, dove ha esordito nella squadra B addirittura a 15 anni, è stato poi portato al Manchester City da Beguiristain, DS dei Citizens. Guardiola lo ha fatto giocare da titolare in Champions (prima nei preliminari contro lo Steaua, poi contro il Celtic) e in Coppa di Lega nel derby contro lo United, ma mai in Premier League. In effetti, il suo grande limite è la sua statura: piccolo (1,73) e compatto, non ha ancora la struttura muscolare per reggere gli scontri continui della Premier.
Dalla sua ha però altre importanti doti fisiche: una grande velocità, sia nei primi passi che in progressione; una grande aggressività, anche in marcatura, che lo rende perfetto per un sistema basato sulla riconquista alta del pallone, ma lo ha reso perfetto addirittura per marcare Messi a uomo, con successo (a differenza di Kovacic); la capacità di usare entrambi i piedi sia per andare al cross che per dribblare (pur essendo destro). In questa prima parte di stagione è uno dei segreti del Girona, squadra spin-off del City: usato da esterno nel 3-5-2, Maffeo garantisce grande spinta e copertura. Deve migliorare però nelle scelte di difesa posizionale, e soprattutto nella visione di gioco, ancora poco sviluppata: come semplice esterno di fascia è già tra i migliori della Liga, ma se vuole ambire al livello di elite, Maffeo dovrà necessariamente affinare gli aspetti più legati alla gestione della palla. Il tempo è dalla sua parte, e lui è abituato ad anticipare tutti.
Mikel Oyarzabal, ‘97, Real Sociedad
di Daniele V. Morrone
Foto di Miguel Riopa/AFP/Getty Images.
Oyarzabal è un giocatore intelligente, che sembra poter modellare la sua tecnica e il suo gioco per qualsiasi tipo di calcio. Ha capito che i ruoli in campo non sono posizioni ma funzioni, può giocare ovunque davanti perché sa quello che serve a seconda dell’altezza del campo in cui si trova. Sono tre anni che Oyarzabal è ormai una presenza fissa in Liga e in Europa: è in prima squadra dal gennaio 2015 ed è diventato titolare la stagione successiva, quando da ottobre in poi le ha giocate praticamente tutte.
Un ragazzo appena maggiorenne, mancino dai piedi enormi (pur essendo 180cm porta il 47 di scarpe) e, nonostante ciò, con un’ottima tecnica, oltre a una mentalità aggressiva e quell’insieme di tante piccole cose che migliorano la manovra di una squadra: le giocate ad un tocco che mantengono la velocità della circolazione del pallone, la capacità di giocare spalle alla porta pur ricevendo lanci sull’esterno per far assestare la squadra sulla trequarti, le letture con la palla per capire quando partire in conduzione e quando disfarsi subito della palla, e senza per andare a giocare dove serve.
Oyarzabal non è mai fermo nella stessa posizione ma si muove tra appoggi al centrocampo a ricevere largo, ad andare tra le linee, ad attaccare il centro dell’area di rigore. Sono passate due stagioni, continua a giocare dove serve per la squadra (al momento indifferentemente in una delle due fasce) e quello che è migliorata ancora di più è la capacità di mantenere la precisione tecnica ad alto ritmo, e soprattutto di trovare una dimensione superiore in termine di definizione: in questa stagione è già a 8 gol e 5 assist in 18 partite tra Liga e Europa League. A vent’anni punta già a chiudere la stagione in doppia cifra di gol e assist.
Alessandro Bastoni, ‘99, Atalanta
di Flavio Fusi
Alessandro Bastoni è nato ad aprile del ‘99, è cresciuto nel settore giovanile dell’Atalanta e ha fatto tutta la trafila con le Nazionali giovanili. Ha debuttato tra i professionisti già più di un anno fa: pochi minuti la scorsa stagione, pochi in questa (14 in campionato contro il Crotone e l’intera partita in Coppa Italia contro il Sassuolo), ovviamente. Quest’estate è diventato di proprietà dell’Inter. È un centrale difensivo mancino alto un metro e novanta, forte di testa e bravo a impostare il gioco da dietro. Lo abbiamo intervistato qualche mese fa e riportiamo qua sotto riportiamo alcune sue parole particolarmente significative (qui trovate l’intervista completa).
“Ho avuto questa fortuna anche di crescere nel settore giovanile dell’Atalanta in cui anche dal punto di vista tecnico ti trasmettono tanto. Mi hanno sempre insegnato a far gioco, a giocare palla a terra e quindi faccio questo. Ormai il mediano dai piedi buoni è praticamente sempre marcato a uomo dalla squadra avversaria, quindi penso che le responsabilità in fase di costruzione dei difensori cresceranno ulteriormente. (...) Penso sia proprio la mentalità che mi è stata imposta nel corso degli anni: giocarla sempre, buttarla via mai.”
Foto di Marco Luzzani / Stringer.
“A me piace molto guardare in Spagna il Barcellona e in Inghilterra il Manchester City, perché Guardiola ha allenato entrambe e mi piace vederle giocare palla a terra.”
“Il gol è una cosa che ho sempre avuto. Ho sempre detto che quando sono in area non penso come un difensore, ma divento un attaccante e per adesso mi è andata spesso bene. L’obiettivo primario del difensore resta quello di non far prendere gol alla propria squadra, ma bisogna essere capaci di cambiare in base alla situazione della partita e a dove ti trovi in quel momento in campo.
Tom Davies, ‘98, Everton
di Daniele Manusia
Thomas Davies il centrocampista dell’Everton (da non confondersi con il difensore di sei anni più vecchio Thomas Christopher Davies, del Coventry City) è un inglesissimo box-to-box che a 18 anni da poco compiuti ha già più di 50 presenze in Premier League, oltretutto fatte giocando in ogni ruolo del centrocampo: mediano, mezzala e persino trequartista. Se non bastassero i capelli lunghi biondi a farlo notare a colpo d’occhio, Davies è anche uno dei pochissimi a giocare ancora con i calzettoni bassi sulle tibie bianchissime.
Un metro e ottanta senza troppa potenza muscolare, ma con un dinamismo fuori dal comune e, soprattutto, un coraggio senza senso. Quando l’intensità della Premier non se lo mangia sembra un surfista che ha preso l’onda giusta, entrato in un tunnel che lo proietta direttamente palla al piede nella trequarti offensiva.
Il bello di Tom Davies è che ingaggia una sfida continua ai propri limiti fisici e tecnici: contro il Chelsea l’ho visto ricevere una palla dalla difesa, controllare palla girandosi fronte alla porta, proteggerla da una scivolata di Kanté e poi allungarsela oltre Bakayokò che non poteva recuperarlo. Tecnicamente è capace di cose egregie, di prendere decisioni difficili e vedere passaggi che non vedono tutti (in verticale soprattutto), ma anche di perdersi in un bicchiere d’acqua, con una confusione che solo il calcio inglese può tollerare ad alto livello (e lo dico in senso positivo). Se vi piacciono i calciatori giovani che sembrano aver preso la macchina del tempo dal calcio degli anni 80’, Tom Davies fa per voi. La stagione dell’Everton per ora è un mezzo disastro, ma Davies va tenuto d’occhio prima che si normalizzi in qualche modo (tipo mettendo su i muscoli) perché ora come ora è davvero un tipo strano e interessante.
Jadon Sancho, 2000, Borussia Dortmund
di Emanuele Atturo
Nella collezione di giovani fantastici del Borussia Dortmund, Jadon Sancho spicca per la sua eccentricità. Innanzitutto perché è inglese, e un inglese che va a giocare a 18 anni in Bundesliga dalle giovanili del Manchester City non si era mai visto. E poi ovviamente perché è un ala dribblomane iper-tecnica con i capelli di James Brown. In estate il suo trasferimento ha fatto rumore: Guardiola aveva fatto di tutto per convincerlo a restare in Inghilterra, e si è lamentato aspramento col club una volta che Sancho aveva preferito comunque andare in Germania. Nonostante, a quanto pare, il tecnico avesse un accordo informale col giocatore per farne il più pagato del settore giovanile del City.
Tutto questo rumore ha funzionato bene per creare hype attorno al giocatore, che per ora ha messo insieme appena 16 minuti in prima squadra (tutti prima che venisse esonerato Peter Bosz). Gran parte della sua reputazione Sancho se l’è costruita agli Europei U-17 del maggio scorso, dove è sembrato fisicamente e tecnicamente ingestibile per qualunque avversaria. Nella nazionale inglese, che ha vinto poi la competizione, Sancho ha contribuito a 10 dei 15 gol segnati dalla squadra.
Sancho è un’ala di piede destro, che può essere schierato sia a piede naturale che invertito. È tecnico e veloce, specie sui primissimi passi, ma la sua migliore qualità è l’estre e la leggerezza con cui gioca sulla trequarti. Non tocca quasi mai la palla in modo banale e cerca di ricamare qualsiasi azione in cui è coinvolto. Quando la palla arriva a Sancho qualcosa deve succedere, e non per forza una cosa buona visto che giocare così spesso di suola o di tacco spesso porta a perdere il pallone. Un’attitudine che dovrà essere limata man mano che verrà inserito nel calcio dei grandi, ma che al momento rappresenta la sua qualità migliore. Un giocatore bizzarro, di cui ancora non si capiscono del tutto le potenzialità, ma che è di sicuro già ora entusiasmante da veder giocare. Questa stagione ha giocato solo 16', magari nella prossima avrà più spazio.
Ryan Sessegnon, 2000, Fulham
di Emiliano Battazzi
Ma quanti compiti deve svolgere un terzino? Mentre il calcio cambia la risposta stagione per stagione (dai “falsi” agli specialisti, dai difensori veri agli offensivi, dai registi ai marcatori), il Fulham (in Championship) si gode il suo terzino sinistro, 17 anni, titolare già dalla scorsa stagione. Nato e cresciuto in una famiglia di calciatori (il fratello gemello è con lui nel Fulham, anche lui come terzino sinistro, senza giocare; e il cugino gioca nel Montpellier), Sessegnon ha una caratteristica molto rara nei terzini, il senso del gol: ben 7 in questa prima parte di campionato (il migliore tra tutti i difensori del torneo), e in totale 14 nelle sue 58 partite da professionista (e in più 8 assist). Anche per questo, nelle giovanili è stato spesso utilizzato da ala sinistra, e in quel ruolo ha vinto l’Europeo Under 19 con l’Inghilterra (e il titolo di capocannoniere con 3 gol).
Al Fulham, però, sono convinti che debba giocare più in basso, appunto da terzino, e non hanno torto: dotato di grande velocità (sia di punta che nel lungo), è molto più imprevedibile partendo da dietro, e con spazi più ampi da percorrere. Sessegnon infatti fa tutto con la naturalezza di chi sa che supererà gli avversari, ma questo è anche il suo più grande limite attuale: controllo di palla migliorabile (frequenza di tocco troppo bassa), così come il dribbling (a volte in finta e controfinta sembra perdersi il pallone) e la visione di gioco. Tutti difetti ampiamente superabili, per un ragazzino di 17 anni: e infatti squadre come Tottenham e Liverpool si sono già interessate, sempre alla ricerca di terzini-razzo che aiutino ad aumentare i ritmi e ad attaccare, che per Pochettino e Klopp è davvero la miglior difesa.
Matthijs de Ligt, ‘99, Ajax
di Daniele V. Morrone
Foto via Ajax.
Il 2017 è stato un anno da sogno per Matthijs de Ligt, passato a 17 anni dalle giovanili dell’Ajax alla titolarità in nazionale nelle amichevoli contro Marocco e Romania. In pochi mesi è diventato il leader della difesa della squadra che con Bosz ha raggiunto la prima finale europea da più di vent’anni. A Lione, al termine della semifinale di ritorno di Europa League, è rimasto lui solo in campo davanti ai tifosi dell’Ajax ad iniziare i cori di festeggiamento. Non è neanche maggiorenne ed è già capopopolo della più importante squadra olandese. Per spiegare in poche parole che giocatore sia de Ligt penso che si debba prendere in prestito dal basket la figura dell’Unicorno, ovvero un giocatore unico nel suo genere, capace di incarnare tutti i concetti di riferimento del gioco della sua epoca.
Questo perché de Ligt ha la faccia da bambino ma il fisico già formato su 188 cm e spalle larghe; è reattivo e ha un controllo del corpo che lo rende in grado di difendere sulla velocità del gioco contemporaneo. Aggressivo in marcatura, è a suo agio a salire in anticipo e soprattutto a difendere in avanti anche ben lontano dalla porta. Con la palla ha già una precisione millimetrica nel lancio e la visione per poter provare filtranti taglia linee palla a terra. Dal punto di vista tecnico, insomma, è il prototipo perfetto del centrale contemporaneo.
Ma quello che realmente stupisce è la serenità con cui gioca, la tranquillità con cui sembra rialzarsi e scrollare le spalle dopo ogni errore e ricominciare a guidare la linea che tiene in pugno con un carisma innato. Il suo vero unico punto debole è l’esperienza. Un punto debole ovviamente destinato a sparire con il passare dei mesi, già dal 2018, l’anno in cui deve anche decidere se rimanere a casa o partire. Le grandi d’Europa già gli circolano attorno come squali. Il Barça sta fremendo per portarlo in Catalogna e farne l’erede di Piqué.
Oleksandr Zinchenko, ‘96 (dicembre...), Manchester City
di Emiliano Battazzi
Quanto sia forte Zinchenko non lo sa davvero nessuno: da sempre grande stella delle giovanili ucraine, è arrivato a giocare gli Europei in Francia con la sua Nazionale. Nel frattempo. Lucescu lo aveva scartato, Guardiola lo ha adottato, e poi Cocu lo ha sottoutilizzato (al PSV in prestito, nella scorsa stagione). Secondo Pep, Zinchenko è soprattutto un giocatore intelligente, e di qualità: quel tipo di giocatori che lui sistema a piacimento sulla scacchiera, reinventandone compiti ed attitudini. Ed ecco che un giocatore da trequarti avversaria, un creativo abituato a giocare tra le linee per servire assist, o sulle ali per garantire superiorità numerica o tagli interni, al Manchester City è stato usato solo ed esclusivamente terzino sinistro - falso, certo, se pensiamo ancora ai terzini del XX secolo. Con risultati buoni, tra l’altro: d’altronde era stato preso come erede di De Bruyne, nel lungo periodo - che, secondo Keynes, un un concetto fallace perché "nel lungo periodo saremo tutti morti"; ma è vero che la cortissima “vita” lavorativa dei calciatori relativizza la questione.
Per Zinchenko per ora è meglio partire dalla fascia per accentrarsi nell’inizio azione, a giostrare sostanzialmente da regista sinistro: e nel frattempo imparare ad essere aggressivo in fase difensiva. Un campionario delle sue qualità lo ha mostrato nella semifinale di Coppa di Lega contro il Bristol: gestione perfetta dei tempi della giocata, e una serie di splendidi cambi di gioco da sinistra a destra per Sterling, oltre a un filtrante magico per Sanè, liberato in area. Zinchenko è un giocatore estremamente associativo, dominante nella trequarti avversaria per visione di gioco e assistenza alle punte, ma con scarse - quasi nulle - capacità realizzative. Viste però velocità in conduzione, e in progressione, il ruolo di falso terzino per ora gli si addice perché coniuga perfettamente i suoi pregi, nascondendo i difetti. Nonostante tutto questo talento, però, nessuno sa davvero dove possa arrivare: quanto, cioè, le sue qualità riusciranno ad emergere ad alti livelli di competitività. Nel calcio d’elite serve uno scatto in avanti, soprattutto a livello di continuità: di talenti come Zinchenko se ne sono già bruciati tanti. Speriamo che la sua luce, nel 2018, sia quella di una lampada sempre accesa, e non quella di un falò delle qualità.
Han Kwang-Song, ‘98, Perugia
di Dario Saltari
La capacità realizzativa sembrava il talento meno appariscente di Han, il primo giocatore nord-coreano ad esordire in Serie A, e invece si sta rivelando come una delle sue più grandi qualità. A Perugia, in Serie B, Han ha già realizzato 7 gol, molti dei quali su palle sporche raccolte in area, oppure a seguito di stacchi imperiosi. Han, insomma, si sta evolvendo in maniera inaspettata, se si pensa che era arrivato in Italia con la nomea del giocatore talentuoso ma troppo leggero fisicamente. Nonostante ciò, sembra al momento un po’ indietro nelle gerarchie della sua squadra, nel 2018 sarà interessante vederlo crescere ancora, soprattutto se dovesse confermare il suo talento anche a livelli più alti. Chissà che non possa rivelarsi un attaccante molto più completo di quanto non sembrava inizialmente.
Federico Valverde, ‘98, Real Madrid/Deportivo La Coruña
di Daniele V. Morrone
Se ci fosse un mercato azionario dei giocatori questo sarebbe il momento adatto per comprare le azioni di Valverde. Il suo valore è innegabile, ma finito in una squadra disfunzionale pur se ricca di talento come il Depor, sta accumulando esperienza lontano dai riflettori (che nel suo caso sono quelli del Real Madrid di cui fa parte). Andrebbe comprato adesso, perché l'estate del 2018 potrebbe essere già troppo tardi. Il talento di questo centrocampista era debordante quando giocava con i suoi coetanei ed esce fuori a sprazzi con i più grandi, ma con l’esperienza accumulata in Galizia potrebbe esplodere da un momento all’altro. Valverde è perfettamente a suo agio vicino alla propria area come a quella avversaria, dove con un tiro potente può essere pericoloso sempre, un vero tuttocampista che non ha paura di prendersi responsabilità con la palla e senza.
Valverde è un centrocampista intelligente, instancabile, tecnico e dinamico, la cui migliore caratteristica è la conduzione che gli permette di spezzare le linee di pressione trascinando di peso la manovra della squadra avanti. Il controllo del pallone e l’atletismo di cui dispone vanno quindi a sommarsi alle ottime letture per sapere come e quando partire in conduzione. È creativo e con la sua visione di gioco può tentare anche passaggi rischiosi, si vede che nel suo calcio, magari in un futuro prossimo, c'è la possibilità di dare anche l’ultimo passaggio. Non è inimmaginabile pensare che già a fine 2018 sarà difficile trovare punti deboli nel suo gioco.
Justin Kluivert, ‘99, Ajax
di Emanuele Atturo
Al termine dell’ultima finale di Europa League, mentre i giocatori di Ajax e Manchester UTD erano in giro per il campo a salutarsi in attesa della premiazione, Josè Mourinho è andato da Justin Kluivert e con un atteggiamento teatrale ne ha benedetto il talento: «Ti fai un altro anno, poi vieni al Manchester UTD e vinciamo Champions League e Premier League». Un po’ cinematografico: il vecchio maestro della panchina che al termine di una partita che assegnava una coppa è andato a promettere il destino a un giovane talento avversario, figlio predestinato di un altro grande calciatore. Bisogna però dire che Mourinho non è mai stato generoso in questo tipo di complimenti (a differenza di altri colleghi...), e questo dà più credibilità alle sue parole.
Kluivert ha esordito in prima squadra neanche un anno fa, il 15 gennaio del 2017, e nel 4-3-3 di Peter Bosz ha trovato il contesto ideale per ambientarsi nel calcio professionistico. In un sistema che faceva largo affidamento sugli uno contro uno sugli esterni, Kluivert ha potuto esprimere tutto il proprio talento nel dribbling e nel controllo palla. Quest’anno il suo rendimento è già salito e il 26 novembre, contro il Roda, ha siglato una tripletta che ha fatto sognare potenzialità infinite. Kluivert è un’ala velocissima, ma ciò che lo rende speciale è soprattutto un controllo palla al velcro, sia nella prima ricezione che nel dribbling. Il modo in cui, quando corre, riesce a entrare in simbiosi col pallone ha qualcosa di intangibile che appartiene a pochi giocatori.
Da quello che sta mostrando in questa stagione, Kluivert ha grandi margini di miglioramento soprattutto come finalizzatore. La facilità con cui inganna i portieri calciando in maniera scolastica sul secondo palo - nascondendo la forza dei suoi tiri - è un’altra cosa da tenere d’occhio.
Kluivert è uno dei giovani che dovreste seguire con più attenzione non solo perché è uno dei giocatori più divertenti da veder giocare, ma anche perché dove potrà arrivare, anche solo alla fine di quest’anno, nessuno lo sa.
Joris Gnagnon, ‘97, Rennes
di Dario Saltari
Gnagnon è un talento precoce: quella scorsa è stata la sua prima stagione da titolare, eppure si è già affermato come uno dei migliori giovani centrali difensivi francesi in circolazione. Gourcuff senior, che lo allena al Rennes, ha detto di lui: «Sa usare il fisico benissimo, ma sa anche leggere la gara benissimo e portare palla. Per me è il difensore ideale». In realtà, Gnagnon è ancora un giocatore molto acerbo (e non potrebbe essere altrimenti, d’altra parte): spesso è troppo passivo nel leggere i movimenti avversari e il suo rendimento è ancora troppo dipendente dalla propria esplosività sui primi passi. È aggressivo in marcatura, anticipa bene e ovviamente in copertura è un avversario difficilissimo da superare. In questa stagione sta dimostrando una forma meno scintillante della scorsa, ma se dovesse confermare le sue qualità in anticipo, nell’utilizzo del corpo e nell’aggressività, il 2018 potrebbe regalare un altro grande prospetto alla Ligue1 pronto per il salto.
Alexander Isak, ‘99, Borussia Dortmund
di Emanuele Atturo
Se è vero che l’appellativo di “Nuovo Ibra” affibbiato a un centravanti alto e tecnico suona sempre ridicolo, bisogna ammettere che non era sembrato tanto promettente come per Aleksandr Isak. È un centravanti svedese di origini eritree di un metro e novanta incredibilmente filiforme. I dati di Wikipedia riportano che pesa 70 kg ma l’impressione dalla tv è che sia persino più magro. È un giocatore buffo da vedersi, con le leve lunghe, sempre sul punto di inciampare. Isak fa parte di quella categoria di giocatori che si distingue nel calcio contemporaneo per un fisico che non corrisponde allo stile di gioco. Pur essendo un centravanti, Isak ama accorciare all’indietro in zona palla e dialogare con i compagni. Il modo in cui tocca il pallone, effettua dei cambi di gioco, rifinisce l’ultimo passaggio, sembra sempre un po’ istintivo e improvvisato, e per questo lascia immaginare enormi margini di miglioramento. Idealmente, Isak sembra poter diventare un centravanti moderno, bravo a finalizzare (ha una freddezza impressionante davanti alla porta) ma anche ad aiutare la squadra metri indietro.
Tutte queste cose Isak le aveva fatte vedere ormai più di un anno e mezzo fa, quando giocava ancora con il Malmoe (l’ex squadra di Ibra, tanto per alimentare la mistica) e aveva messo insieme 10 gol in 24 partite ad appena 17 anni, oltre che una bella serie di giocate da compila di YouTube.
Sembrava essere "il" giovane da seguire anche a inizio 2017, quando - proprio di questi tempi - si era appena permesso di rifiutare il trasferimento al Real Madrid preferendo il Borussia Dortmund, che gli avrebbe permesso di crescere con meno riflettori addosso (almeno in teoria). Il suo inserimento è stato però più graduale del previsto: nel contesto caotico del Borussia Dortmund dell’ultimo periodo, Isak è stato preservato nelle squadre giovanili, e ha giocato in totale appena 6 partite (segnando 1 gol). Quest’anno capiremo di più su Isak, se si tratta solo di un attaccante giraffa - strano e deperito - o di un nuovo prototipo di centravanti.
Trent Alexander-Arnold, ‘98, Liverpool
di Emanuele Atturo
Il calcio rimane uno sport in cui conta più di tutto come si calcia. E pochi giovani calciano meglio il pallone di Trent Alexander-Arnold, ultima invenzione di Jurgen Klopp da terzino destro del Liverpool. Lo avrete visto anche voi, quel passaggio allucinante che ha fatto qualche settimana fa, con la palla che ha attraversato le linee avversarie con la fredda precisione di un drone telecomandato. Arnold aveva preso la palla con un mezzo taglio d’esterno e aveva mandato in porta, 50 metri più avanti, Roberto Firmino. Ad ottobre, nei preliminari di Champions League contro l’Hoffenheim, aveva segnato al suo debutto con un calcio di punizione a giro sopra la barriera. Arnold è molto grezzo e non si capisce fino a dove possono essere limati i suoi limiti, offensivi e soprattutto difensivi. Come tutti i giovani inglesi, ha addosso una quantità di occhi spropositata, e Klopp ha già avuto modo di lamentarsi: «È un grande talento ma si parla troppo di lui!».
Carles Aleñá, ‘98, Barcellona
di Daniele V. Morrone
Carles Aleñá ha iniziato il 2018 allenandosi con la prima squadra e in conferenza stampa Valverde ne parla come di un giocatore che vuole mantenere all’interno di questo gruppo. L’idea del tecnico è evidente: fino a fine stagione vuole farlo allenare con i grandi il più possibile, e poi nel fine settimana farlo giocare con il Barcellona B in Segunda. Nella prossima estate capirà se promuoverlo in prima squadra o mandarlo in prestito una stagione ad una squadra della Liga, per farlo giocare sempre.
Nel futuro a medio termine di Aleñá c’è la maglia da titolare del Barcellona: da anni studia per questo. Cresciuto nella Masia e riconosciuto da subito come il talento più grande a centrocampo dai tempi di Thiago Alcantara, è stato inserito in una corsia preferenziale che lo aiuti nell’apprendimento, ma che al contempo lo protegga dalla pressione dell’ambiente. Come da dettame di Cruyff, viene fatto giocare in più ruoli, anche per metterlo a disagio: per forzarlo ad imparare cose nuove in un contesto meno favorevole. Mezzala sinistra, destra, regista, addirittura esterno. Ogni anno impara qualcosa, pulisce qualcosa del suo gioco.
La novità più recente è un controllo orientato di una pulizia tecnica impressionante, raggiunto forse grazie proprio all’allenamento vicino ad un maestro del fondamentale come Iniesta. Aleñá è al contempo l’erede della grande tradizione di centrocampisti della Masia e l’evoluzione della specie: il fisico è già bello strutturato su 180cm, le gambe gli danno una reattività nel breve inedita e quindi una conduzione palla al piede e una potenza di calcio senza paragoni con i suoi illustri predecessori (per dire al suo esordio con la prima squadra ha segnato da fuori area). Il Barcellona ha in casa un tesoro e il 2018 sarà l’anno in cui la seconda squadra comincerà ad andargli stretta.
Ezequiel Barco, ‘99, Independiente
di Fabrizio Gabrielli
Gli ultimi sei mesi della vita di Ezequiel Barco equivalgono a quello che nella normalità corrispondono all’intera carriera di un calciatore. Pochi altri classe ‘99 possono vantare un’escursione termica elevata come quella che ha vissuto lui, tra la nottata glaciale di fine giugno, quando sbagliando un rigore decisivo contro il Lanús ha impedito all’Independiente di tornare a giocare la Libertadores; e il trionfo torrido del Maracanã, dove è andato a calciare - caricandosi sulle spalle la responsabilità come solo i predestinati o i pazzi - un rigore che ha spalancato ai “Diablos Rojos” la strada verso la conquista della Copa Sudamericana. Ma quando si parla di calciatori così giovani la consacrazione si scosta dal bruciarsi solo di qualche centimetro.
E proprio in virtù di questo semestre vissuto come in un acceleratore atomico di particelle emozionali, forse scegliere la MLS (perché mentre scrivo è chiaro che la volontà di Barco sia trasferirsi ad Atlanta, a prescindere da quando, come e a quali condizioni, lo cederà l’Independiente) potrebbe rivelarsi una mossa non è del tutto sbagliata, anzi potrebbe essere davvero la più sensata. La franchigia georgiana è un laboratorio interessante, dove gli esperimenti li guida il “Tata” Martino e le componenti chimiche hanno i nomi di Miguel Almirón, Josef Martínez e Héctor Villalba: vale a dire prospetti sudamericani che nella Big Peach non cercano un buen retiro anticipato e rinunciatario, ma un ambiente rilassato in cui affinarsi prima di approdare, perché inevitabilmente avverrà, in Europa. Oltre a un luogo in cui “scappare” dall’Argentina per costruire un futuro anche economicamente solido (dopotutto Barco è uno di quelli cresciuti nelle case col tetto di paglia).
Barco è un trequartista molto dinamico, appariscente nella misura in cui sembra avere il pallone attaccato ai piedi mentre si muove per il centrocampo; ha una tecnica di passaggio sopraffina, un buon lancio lungo e soprattutto carisma, che nel suo ruolo non guasta per niente. Ricorda per certi versi Charlie Aránguiz: per la tenacia nei contrasti, la visione limpida delle linee di passaggio e la propensione al turbodinamismo. Non sarei sorpreso se tra un anno esatto ce lo trovassimo in Bundesliga. Solo il 2018, in cui molto probabilmente avrà imparato l'americano, saprà confermare o disattendere le aspettative.
Phil Foden, 2000, Manchester City
di Flavio Fusi
Dopo aver vinto il Mondiale Under 17 da protagonista, con una doppietta in finale e il titolo di miglior giocatore della manifestazione, il 21 novembre scorso Phil Foden ha finalmente fatto anche il suo esordio in prima squadra, diventando il più giovane debuttante in Champions League nella storia del Manchester City.
Mancino naturale diventato praticamente ambidestro, dotato di un controllo di palla eccezionale, gioca sempre a testa alta e ha una consapevolezza tecnica tale con entrambi i piedi che gli permette di essere tanto bravo nel passaggio quanto nel dribbling e che gli permette di essere costantemente un passo avanti ai propri avversari. Può giocare esterno, come ha fatto in Nazionale, o a centrocampo, come ha fatto da quando indossa la maglia del club che lo ha cresciuto dai tempi dell’Under 9-, e indipendentemente dal ruolo, ha segnato praticamente quanto un attaccante e servito assist al ritmo di un trequartista (almeno a livello giovanile).
La taglia minuta, la consapevolezza posizionale e lo stile di passaggio lo fanno assomigliare ad un prodotto della Masia, ma il pupillo di Guardiola è il simbolo di una generazione di calciatori inglesi che ha vinto praticamente tutto a livello giovanile è ha fatto parlare qualcuno di “new Golden Generation”. Il 2017 è stato per Foden un anno da predestinato, ma il 2018 sarà ancora di più importante per la sua carriera: dovrà gradualmente guadagnarsi il suo spazio nel calcio professionistico senza perdersi per strada come hanno fatto tanti giovani prodigi suoi connazionali.
Dominik Szoboszlai, 2000, FC Liefering
di Flavio Fusi
L’Ungheria, un tempo patria dell’Aranycsapat, la celebre “squadra d’oro” degli anni ‘50, sta producendo sempre meno giocatori di talento, ma è difficile non intravedere un bagliore di speranza di fronte alle qualità di Dominik Szoboszlai. Formatosi tra Főnix Gold FC, l’ambiziosa academy del padre e MTK Budapest, il classe 2000, inseguito dalle principali squadre europee, è stato infine prelevato dal RB Salisburgo nella passata stagione.
Il 2017 è stato già un anno eccezionale per Szoboszlai: anche se non ha preso parte al trionfo in Youth League del Salisburgo, si è ampiamente rifatto in campo internazionale portando l’Under 17 ungherese al suo primo Europeo dal 2006, segnando tutti e tre gol dei magiari nelle ultime due gare di qualificazione, compresi i due gol all’ultimo minuto valsi la vittoria contro Russia e Norvegia. Dopo un tale exploit, a 17 anni da compiere (è nato il 25 ottobre) è stato promosso in Under 19 e a giugno è persino arrivata la convocazione in Nazionale maggiore.
Regista o trequartista, ma all’occorrenza anche mezzala o esterno, Szoboszlai ha un QI calcistico fuori norma. Può dettare i tempi della manovra, ma ha nei piedi anche l’ultimo passaggio e nel vederlo giocare sia ha sempre una sensazione di controllo. Tratta il pallone come pochi, ha un gran tiro dalla distanza ed è letale sui calci piazzati. Pur non essendo rapidissimo, dribbla gli avversari quasi con nonchalance. Alto 1 e 85, è dotato di grande resistenza ed è sempre in movimento quando la palla ce l’hanno gli avversari o i compagni.
All’inizio di questa stagione è stato aggregato al Liefering, la seconda squadra del Salisburgo che milita nella seconda divisione austriaca e si è imposto immediatamente, chiudendo il 2017 con 6 gol e 3 assist nelle ultime otto partite dell’anno, oltre ad altre 3 assistenze in quattro presenze di Youth League. Se continua così, nel 2018 potrebbe saltare il passaggio quasi obbligato in prima squadra e trasferirsi direttamente al Lipsia.
Wuilker Fariñez, ‘99, Caracas FC
di Fabrizio Gabrielli
Wuilker Fariñez è stato uno dei (tanti) fantasmi che l’Argentina ha dovuto schivare, cercando di non farsi terrorizzare a morte, prima di qualificarsi ai prossimi Mondiali. Volto fresco e sprezzante, atteggiamento in campo di chi è sicuro dei propri mezzi ma senza spocchia, Wuilker è un portiere atipico per il contesto sudamericano: più basso della media, bravo coi piedi ma disciplinato nelle uscite, esplosivo nell’uso dei riflessi. Un portiere dotato di un nervosismo misurato. Dudamel - ex storico portiere della nazionale venezuelana - a inizio 2017 ha deciso di affidargli i pali della Vinotinto, e in sei partite di qualificazione ai Mondiali, Wuilker ha subito solo 6 reti (nelle prime 12 erano state 29): il Venezuela era già eliminato ma lui si è comportato così bene (ha parato un rigore ad Alexis e fermato Falcao) che ha rischiato di tirarsi dietro, con una serie di parate assurde al Monumental di Buenos Aires, anche l’Albiceleste.
La promozione tra i titolari in nazionale è stata la glassa sulla torta di una stagione perfetta, in cui ha trascinato il Venezuela alla sua prima finale di un torneo FIFA, il Mondiale U20 (in cui ha segnato anche, primo portiere a farlo, un gol su rigore) poi perso contro l’Inghilterra. Ma è stata anche il coronamento di un percorso che lo vede nel giro della Nazionale da almeno due anni, cioè quando era ancora minorenne. E dire che solo a 14 anni ha scelto di fare il portiere e non l’attaccante. Nel 2015 è rimasto 689 minuti senza subire reti, aveva diciassette anni (e più o meno in quel periodo ha provato a sfondare in Europa: quando il Real Madrid gli fece fare un provino insieme a Peñaranda, non se ne fece nulla). Bisognerebbe chiedergli di rifarlo oggi, su un palcoscenico più provante della Serie A venezuelana. Non è detto che non possa riuscirci.
Moise Kean, 2000, Juventus/Verona
di Marco d’Ottavi
Foto di Marco Luzzani / Getty Images.
Il 2018 sarà il primo anno di Kean speso interamente tra i professionisti, dopo aver messo sottosopra il campionato Primavera ed essersi guadagnato un posto nella rosa del Verona. Nonostante sia ancora giovanissimo (è nato nel 2000), nella prima parte di stagione ha accumulato minuti importanti, dimostrando che il suo percorso di crescita è più avanti rispetto a quasi tutti i suoi pari età. È infatti molto raro vedere una punta di neanche 18 anni giocare così tanto (tra gli under 20 in Serie A solo Donnarumma ha giocato di più), soprattutto in una squadra che lotta per non retrocedere.
Pecchia lo usa spesso come un’arma per sfiancare i difensori avversari nei primi 60’ di gioco. Kean è infatti già molto fisico per la sua età e non si fa problemi nel duellare con avversari molto più grandi (di età) ed esperti di lui. Molto rapido in progressione e con una spiccata propensione al dribbling (ne prova quasi 4 ogni novanta minuti, riuscendo in circa il 50% dei casi) sarà interessante seguire la sua evoluzione quest’anno. Ad oggi è ancora un po’ acerbo, tende ad intestardirsi nella soluzione personale, ed è ancora poco propenso ad un gioco associativo come richiesto oramai a tutti i centravanti.
Ma le qualità fisiche e tecniche sono evidenti. Proprio per questa sua velocità e capacità nel saltare l’uomo, il futuro di Kean potrebbe vederlo muoversi dal centro dell’attacco all’esterno, dove potrebbe diventare un giocatore determinante. La Juventus, che detiene il suo cartellino, non ha fretta: nel 2018 saranno in molti alla finestra per controllare la crescita di uno dei talenti italiani migliori della sua generazione.
Panagiotis Retsos, ‘98, Bayer Leverkusen
di Flavio Fusi
Il calciatore greco più costoso della storia ha origini sudafricane, fa il difensore ed è passato in estate dall’Olympiakos al Bayer Leverkusen. Retsos può giocare sia da centrale che da terzino, ma all’occorrenza può essere schierato davanti alla difesa. È alto 1,85, fatto che lo rende efficace nei colpi di testa, ma allo stesso tempo è anche rapido e scattante oltre che molto aggressivo nell’uscire in pressione, caratteristica che in patria gli è valsa più di un paragone con Kostas Manolas. Non ha paura di lanciarsi in qualsiasi tipo di contrasto e il suo coraggio è supportato da un forse fisica non indifferente.
Nonostante i 20 anni da compiere ha già ottime letture che lo rendono particolarmente efficace negli anticipi, sia che giochi al centro della difesa o sull’esterno. Ma la sua comprensione dello sviluppo del gioco non si limita alla fase difensiva: Retsos si fa apprezzare anche con la palla tra i piedi. Gli piace molto portare la palla, fondamentale in cui è lucido e calmo e dispone di un lancio lungo considerevole, oltre che preciso. La sua versatilità lo rende importante anche quando gioca sulla fascia: il suo atletismo e l’ottima resistenza che gli permettono di percorrere la fascia avanti e indietro.
Al Leverkusen Retsos sta confermando tutte le sue doti naturali, oltre che una poliedricità notevole, elemento sempre più ricercato nel calcio di oggi. Deve ancora limare alcuni aspetti del suo gioco (a volte è aggressivo ai limiti del falloso e troppo sicuro di sé con la palla), ma potrebbe essere pronto a fare un altro grande salto già nel 2018.
Martin Ødegaard, ‘98, Real Madrid/Heerenveen
di Daniele Manusia
Sembra incredibile a dirsi ma sono passati già tre anni da quando Martin Ødegaard è stato acquistato dal Real Madrid. Zinedine Zidane all’epoca non era neanche l’allenatore della prima squadra e Ødegaard aveva già tutti gli occhi puntati addosso. Non si è adattato a Madrid (anche perché, da contratto, si allenava con Cristiano Ronaldo e co. anche se il week-end giocava con il Castilla) e dallo scorso gennaio è in Olanda, in prestito all’Heerenveen dove ha finalmente ripreso un normale percorso di crescita. Ne sentiamo parlare da quando ha quindici anni ed è difficile avere la giusta prospettiva su di lui, ma è comunque nato nel dicembre ‘98 ed è uno dei più giovani in questo elenco.
Per chi nel frattempo si fosse dimenticato cosa aveva Ødegaard di tanto speciale, mettiamola così: con il piede sinistro può mettere la palla in un punto del campo qualsiasi a sua scelta nel raggio di trenta-quaranta metri. Sarebbe capace di far entrare la palla in una finestra aperta a metà al quarto piano di un palazzo, calciando dal marciapiede di fronte; di metterla sul piede di un compagno che corre bendato verso la porta avversaria in modo che la palla si stoppi da sé. Il suo piede sinistro equivale al miglior braccio del miglior quarterback di NFL; il suo occhio a quello di un pesce volante capace di calcolare, sotto la superficie dell'acqua, la velocità, l'altitudine e la traiettoria degli uccelli che caccia... Potrei andare avanti tutto il giorno elogiando il piede sinistro e la visione di Martin Ødegaard, perché ne ho visti davvero pochi di giocatori con quella qualità.
Foto di Trond Tandberg/Getty Images.
Ovviamente ha ancora molto da migliorare, tecnicamente e fisicamente. Ma se non è ancora un giocatore da Real Madrid, oggi Ødegaard è di sicuro già un giocatore vero. È un numero 10 abituato a muoversi partendo da destra, perché in protezione non è molto sicuro ed è meglio non riceva con l’uomo alle spalle, ma che una volta giratosi verso l’interno del campo può entrare in relazione con qualsiasi compagno, nel breve come nel lungo. Con quel piede i compagni gli dettano spesso passaggi nello spazio e lui serve meglio i compagni sul movimento che sul piede, per questo il contesto ideale per lui è una squadra verticale e dinamica. Ha un buon dribbling ma non ha la potenza per essere sicuro di non venire recuperato. Ha sviluppato anche una fase difensiva attiva, tagliando le linee, andando in pressione e provando a recuperare la palla. Insomma, Ødegaard sta diventando un giocatore completo e il limite più grande sembra quello fisico (infortuni compresi). A giugno scade il prestito con l’Heerenveen e starà al Real Madrid, e a Florentino Perez, decidere cosa fare di lui, anche se un altro prestito non può che fargli bene.
Patrick Cutrone, ‘98, Milan
di Federico Aquè
La rivoluzione estiva ha aperto per qualche settimana un vuoto di potere al centro dell’attacco del Milan, riempito con una naturalezza sorprendente da Patrick Cutrone. Dopo aver attraversato tutte le categorie del settore giovanile rossonero, Cutrone aveva assaggiato la Serie A alla fine della scorsa stagione, per pochi minuti contro il Bologna, e sembrava destinato a una cessione in prestito. E invece i gol segnati in estate, tra le amichevoli e le prime partite stagionali, hanno convinto la società a trattenerlo e a rinnovargli il contratto, nonostante gli acquisti di André Silva e di Kalinic.
Vincenzo Montella, che lo ha lanciato e ha avuto un ruolo fondamentale nella scelta di non mandarlo in prestito, aveva detto che Cutrone gli somiglia nella ricerca continua del gol. È in effetti il tratto che meglio definisce il suo stile di gioco, con e senza palla. Gran parte della sua partita si riduce alla scelta del modo migliore per attaccare la porta, è veloce a coordinarsi e a trovare la soluzione più adatta per calciare. Questo tipo di sensibilità gli ha permesso di costruirsi in fretta un’ottima reputazione come finalizzatore: ha segnato 9 gol in tutte le competizioni ed è il capocannoniere stagionale del Milan. Cutrone riempie comunque le sue partite con tanti dettagli che piacciono agli allenatori e ai tifosi: duelli fisici con i difensori, corse all’indietro per seguire un avversario, pressioni ostinate su chi ha la palla. Fuori dall’area non ha qualità particolari, ma sa farsi valere sia palla al piede che negli scambi veloci che solitamente coinvolgono gli attaccanti, tanto che in alcune partite è stato schierato da esterno sinistro, più che altro per dargli la possibilità di entrare in area in corsa tagliando dalla fascia.
Dopo l’exploit iniziale, la sua stagione si è comunque normalizzata: Kalinic si è imposto come centravanti titolare e Cutrone ha trovato spazio soprattutto in Europa League. Il gol decisivo segnato nel derby di Coppa Italia ha però fatto impennare di nuovo le sue quotazioni e gli ha garantito il posto da titolare anche in campionato. Ancora una volta le sue prestazioni potrebbero riscrivere i piani della società (si parla ad esempio della cessione di André Silva) e stravolgere le gerarchie dell’attacco milanista, com’era già capitato la scorsa estate. Nell'incertezza generale, la sola cosa sicura è che, in un modo o in un altro, il 2018 sarà l'anno in cui Cutrone dovrà confermare quanto di buono fatto fin qui.