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Stefano Piri

Classici: Germania-Italia ’06

Dieci anni fa circa siamo andati a Berlino, ricordate?

30 giugno 2006, Berlino

 

A prima vista, nelle immagini non si nota niente di strano. Alla periferia sinistra dell’inquadratura si fronteggiano un drappello di giocatori argentini e uno di tedeschi. Burdisso, in alto a sinistra, fa segno di no con l’indice e poi lo punta contro un avversario: “tu! fuiste tu!” dice probabilmente. Poco più in basso un giocatore tedesco, di spalle e con la pettorina (dal taglio di capelli potrebbe trattarsi di Klose o di Schneider) si agita e si sporge aggressivamente verso un dirigente argentino in giacca e cravatta. L’arbitro slovacco Lubos Michel’ irrompe sulla scena dall’alto, ma invece di calmare gli animi provoca una scossa di nervosismo che attraversa la mischia come un’onda. Qualcuno si scansa, qualcuno spinge, qualcun altro urla.

 

Pochi minuti dopo le squadre rientrano negli spogliatoi. La Germania va in semifinale, l’Argentina a casa per colpa degli errori dal dischetto di Ayala e Cambiasso. La rissa finale, scatenata dal nervosismo degli argentini che hanno visto qualcosa di provocatorio nei festeggiamenti dei tedeschi, sembra già dimenticata, derubricata a sfogo fisiologico di una squadra che è stata in vantaggio fino a dieci minuti dalla fine e si ritrova eliminata con più di un rimpianto (il diciannovenne Messi tenuto in panchina per 120 minuti da Pekerman, ad esempio).

 

Meno di quattro ore dopo, ad Amburgo, il belga De Bleeckere fischia la fine del quarto di finale da cui esce l’avversario che i padroni di casa tedeschi dovranno affrontare in semifinale: è l’Italia, che ha battuto l’Ucraina di Shevchenko con un secco tre a zero.

 

Il mattino dopo, mentre l’attesa per l’ennesima riedizione di un classico come Italia-Germania inizia a prendere corpo, è proprio un giornale italiano a tornare sul finale di Germania-Argentina. Repubblica passa le immagini al setaccio e nota che, alle spalle del giocatore tedesco agitato che potrebbe essere Klose o Schneider, un braccio si alza e va a colpire con un gancio (o un buffetto, dalle immagini è difficile a dirsi) il viso del jardinero Julio Cruz. È il braccio di Torsten Frings, il mediano del Werder Brema che è uno dei simboli di una Germania non ricchissima di talento ma piena di volontà e senso del sacrificio.

 

 

La FIFA prima annuncia che non prenderà in considerazione le immagini, poi ci ripensa e si riserva di deliberare sulla condotta di Frings. Molti tifosi tedeschi, infuriati, accusano gli italiani di scorrettezza. La redazione di Repubblica viene sommersa di mail e lettere di protesta, che nei casi più sgradevoli – ai quali naturalmente viene data la massima visibilità – fanno riferimento alla nostra tradizionale slealtà (una settimana dopo uno striscione dei tifosi italiani rovescerà ironicamente lo spunto: «L’ultima volta che abbiamo perso con voi eravamo alleati»). Repubblica si difende dicendo: «Abbiamo solo fatto il nostro lavoro. Due anni fa agli Europei siamo stati tra i primi a diffondere le immagini dello sputo a Poulsen che è costato la squalifica a Totti».

 

È iniziata l’estate del 2006, Romano Prodi è presidente del consiglio da poco più di un mese e Angela Merkel è Cancelliere tedesco da meno di un anno. Le borse mondiali vanno benone, la crisi non è nemmeno un’ipotesi e la Lehman Brothers è quotata “triple A” da Moody’s: too big to fail, come l’Occidente. I leader europei stanno negoziando una maggiore integrazione continentale che un anno dopo si realizzerà nel Trattato di Lisbona, e i loro popoli possono ancora permettersi di giocare alla guerra per una partita di calcio. La caciara nazionalpopolare sembra ancora un innocuo intrattenimento balneare.

 

Frings prende due giornate, il tabloid tedesco Bild invita a boicottare le pizzerie italiane e avvisa che in campo i tedeschi ci “torceranno come spaghetti”, Gattuso dice che forse le mogli di questi giornalisti hanno avuto avventure con gli italiani. Tutto è pronto per la partita.

 

 

3 luglio 2006

 

Alla vigilia, Germania e Italia hanno ragioni di ottimismo a cui aggrapparsi ma anche fantasmi da scacciare. Sono arrivate alla semifinale secondo percorsi opposti, e in un certo senso addirittura speculari.

 

I tedeschi sono partiti con la grande attesa che si riserva ai padroni di casa, ma con una squadra di livello non eccezionale rispetto alla tradizione. C’è un campione come Ballack, certo, che sta per passare dal Bayern Monaco al Chelsea di Abramovich, e c’è anche un probabile futuro campione come Podolski, che invece arriva proprio al Bayern Monaco dal Colonia, ma in termini di talento i tedeschi sono partiti un gradino sotto le grandi favorite. I gradi se li sono conquistati sul campo durante la competizione, vincendo il girone a punteggio pieno e poi battendo la Svezia agli ottavi e soprattutto l’Argentina (che quasi tutti davano per favorita) ai quarti.

 

L’epico quarto di finale dei tedeschi con l’Argentina, col pari acciuffato dal Klose a dieci minuti dalla fine.

 

Noi al contrario siamo una squadra fortissimi, anche se non più nel fiore degli anni (all’epoca l’idea prevalente era che la vera grande occasione della generazione di Totti, Del Piero e Inzaghi fosse stata persa al mondiale del 2002) e soprattutto costretta a respirare un’aria molto pesante. Il primo atto di un tormentato percorso di avvicinamento si è compiuto addirittura con quattro mesi di anticipo, il 19 febbraio, quando durante una partita di campionato all’Olimpico di Roma il difensore dell’Empoli Richard Vanigli ha abboccato a una finta di Totti perdendo del tutto di vista il pallone e colpendo il capitano della Roma con una tremenda tacchettata alla caviglia. La frattura al malleolo con interessamento del legamento sembra mettere a rischio la partecipazione del numero 10 ai mondiali e scatena una “caccia” mediatica (espressione che prendo dai giornali dell’epoca) al povero Vanigli, che durerà per settimane (alla fine dovrà intervenire Gattuso con una expert opinion che assolverà Vanigli garantendo l’involontarietà dell’intervento). Totti alla fine c’è, ma per un pelo, e non è nella miglior condizione.

 

A rivedere oggi il fallo di Vanigli la polemica sembra ancora più assurda: l’intervento è piuttosto duro, ma la caviglia di Totti gira contro il terreno nella caduta e non durante l’impatto col difensore.

 

Le più nere tra le nubi che aleggiano sulla nostra spedizione sono però quelle legate all’esplosione del caso Calciopoli, che ha travolto la Juventus e quindi molti dei giocatori della nazionale, da Buffon a Cannavaro, che partono per la Germania da campioni d’Italia ma senza sapere in che categoria giocheranno la stagione dopo. Prima della partenza si è persino parlato di una sostituzione all’ultimo momento del c.t. Marcello Lippi (caldeggiata pare dallo stesso Prodi), allenatore della Juve durante alcune delle annate “sospette” e padre del procuratore Davide, implicato nello scandalo fino al collo. Lippi non ha battuto ciglio, continuando a ripetere che lui, in tanti anni alla Juve, non ha mai visto niente di strano.

 

La prova del campo, poi, non ha certo spazzato via i dubbi. Nel girone abbiamo faticato più del previsto, e abbiamo anche iniziato a perdere i pezzi. Nella seconda partita c’è stato il primo grande momento di oscurità della carriera di Daniele De Rossi, che ha rifilato un’inspiegabile e violenta gomitata allo statunitense McBride, prendendo il rosso e quattro giornate di squalifica. Contro la Repubblica Ceca invece un’ombra diversa ma ugualmente sciagurata è scesa sullo sfortunatissimo Alessandro Nesta, che si è infortunato e ha concluso il proprio mondiale in anticipo come gli era già successo nel 1998 e nel 2002.

 

De Rossi sbarbatello esce dal campo con l’aria assente di uno che ha appena fatto la conoscenza di una nuova parte di sé.

 

A volerli vedere, però, ci sono anche i segni di un allineamento astrale straordinariamente favorevole. Ad esempio quando si infortuna Nesta gli subentra Materazzi e fa subito gol. E agli ottavi con l’Australia giochiamo malino ma la risolviamo all’ultimo secondo grazie a un rigore molto generoso conquistato da Grosso – considerato uno degli elementi più deboli della squadra – e trasformato da Totti – la stella che fino a quel momento non aveva brillato. Infine con l’Ucraina, al netto della modestia dell’avversario, abbiamo finalmente tirato fuori una prestazione brillante per tutti i novanta minuti, come se fossimo tirati a lucido proprio per il gran finale.

 

In un’impresa mondiale ricca di eroi diversi, quello contro l’Ucraina è il capitolo di Luca Toni.

 

Insomma, l’Italia sembra un gigante convalescente, che sta pian piano prendendo confidenza con la sua forza, mentre la Germania è un lottatore incredibilmente concentrato e allenato, ma di qualità più ordinarie.

 

 

4 luglio 2006

 

Il teatro della partita è il Westfalenstadion di Dortmund, per l’occasione spoglio del “muro giallo” dei tifosi locali, ma sempre cornice suggestiva. Il tifo è più distribuito di quanto si potrebbe immaginare, perché in Renania sono concentrati molti immigrati italiani.

 

Per loro è una grande festa, non solo a Dortmund ma in tutto il paese, un’occasione per aggregarsi e celebrare l’incontro tra le proprie origini e il paese che li ha accolti. Più tardi saranno loro ad invadere le strade per festeggiare, e i giocatori italiani dedicheranno a loro l’impresa di quella sera.

 

Klinsmann conferma il 4-4-2 standard con il “padrone di casa” Kehl al posto di Frings e l’esclusione sulla sinistra di Schweinsteiger a favore di Tim Borowski. L’intento, realizzato almeno nella prima fase della partita, è quello di contenere Zambrotta, semplicemente inarrestabile con l’Ucraina. Tutti i centrocampisti tedeschi – da destra a sinistra Schneider, Ballack, Kehl e Borowski sono tatticamente disciplinati, bravi in entrambe le fasi e portati all’inserimento offensivo e alla conclusione. In combinazione con la grande duttilità di Lahm (che parte da terzino sinistro ma scala spesso a quinto di centrocampo) e Podolski (che svaria su tutto il fronte offensivo) questo consente alla Germania grande fluidità tattica e interscambiabilità di ruoli. A seconda delle circostanze, i tedeschi passano senza difficoltà al 4-5-1, al 3-5-2 o al 3-3-1-3.

 

L’Italia è disposta secondo un 4-4-1-1 ben più rigido, che diventa 4-2-3-1 o addirittura 4-1-4-1 in fase offensiva, con una divisione di ruoli tra i reparti molto netta. La linea difensiva rimane bassa (anche se Zambrotta e Grosso si staccano alternativamente per contribuire alla fase offensiva), a costo di allungare la squadra, ma consentendoci di fatto di avere sempre il bus parcheggiato davanti a Buffon. In fase di possesso i due centrali Cannavaro e Materazzi sono pressoché esonerati da compiti di impostazione più complessi del lancio lungo immediato. Lo schema principale prevede rilanci diretti di Buffon o di un difensore in direzione di Toni, e grande aggressività dei centrocampisti sulle seconde palle. L’idea è quella di attaccare il corridoio centrale e conquistare il possesso sulla trequarti, dove la tecnica di Totti, Pirlo e Camoranesi (esterno che però tende ad accentrarsi palla al piede) consente al nostro gioco di srotolarsi con la facilità di un gomitolo di lana, e creare pericoli con gli inserimenti di Perrotta, Camoranesi stesso, e in subordine dei terzini.

 

In fase difensiva la vocazione al sacrificio di Perrotta e Camoranesi integra il lavoro del miglior Gattuso di sempre, chiudendo la cerniera tra difesa e centrocampo e permettendo all’altra mezz’ala Pirlo di concentrarsi su compiti di costruzione e attacco (nei primi minuti Pirlo gioca molto alto, quasi all’altezza di Totti).

 

I tedeschi dal canto loro godono di una condizione fisica eccellente (nonostante i 120 minuti più rigori giocati contro l’Argentina pochi giorni prima) e provano a compensare il divario tecnico con la grande mobilità del reparto offensivo, che non dà riferimenti alla nostra difesa. Klose e Podolski si muovono moltissimo, e liberano spazi per gli inserimenti di Schneider e soprattutto di Ballack, che parte da centrale di centrocampo ma gode in sostanza della piena libertà di movimento.

 

La linea di difesa italiana però non si fa mai prendere d’infilata e copre bene gli inserimenti di Ballack e Kehl con Gattuso e Pirlo, per cui il movimento e l’ampiezza dei tedeschi sono molto efficaci fino alla trequarti, ma non offrono molte soluzioni per entrare in area di rigore. La coperta corta li costringe a tirare appena vedono il minimo spiraglio, per cui le prime conclusioni del match sono un po’ forzate, e da una certa distanza.

 

La prima vera occasione della partita capita all’Italia, ed è perfettamente esemplificativa del quadro tattico fino a quel momento. Una volenterosa ma troppo elaborata ed orizzontale manovra offensiva porta sette giocatori tedeschi a riversarsi sulla trequarti italiana. Dopo una rimessa laterale tedesca Materazzi spazza a testa alta l’area di rigore, cercando Toni dalla parte opposta del campo. La respinta in affanno di Friederich è corta, e la palla finisce tra i piedi di Totti, che ha tempo di avanzare guardando la porta, mentre i tedeschi si preoccupano di riguadagnare le posizioni piuttosto che di contrastarlo.

 

Perrotta detta il passaggio tagliando la troppo piatta difesa tedesca, e sullo splendido passante di Totti si trova solo davanti a Lehmann. A salvare la Germania è solo il suo controllo imperfetto.

 

 

Una delle battaglie più avvincenti è quella che si svolge sulla nostra fascia sinistra, destra dei tedeschi, dove Grosso è molto propositivo, ma anche in grande difficoltà difensiva contro Schneider e le sovrapposizioni di Friederich. Nella prima mezz’ora capita almeno tre o quattro volte che la catena di destra tedesca passi facilmente alle spalle del nostro numero 3, e solo grazie ai raddoppi alla disperata di Cannavaro/Materazzi/Gattuso evitiamo guai peggiori di una rimessa laterale. Riguardando la partita, mi sono sorpreso di come un allenatore generalmente considerato prudente come Lippi abbia insistito nel tentare la sorte da quella parte, con un assetto chiaramente sbilanciato.

 

Infatti è proprio da una sgroppata di Grosso che arriva la seconda occasione italiana (tunnel elegantissimo a Friederich e cross basso per Toni, anticipato in area per un soffio), ma il suo posizionamento avanzato è anche la causa della grande chance tedesca del primo tempo. Alla mezz’ora Pirlo perde ingenuamente un pallone a centrocampo, e sulla ripartenza tedesca Grosso si trova praticamente all’altezza di Totti. A sinistra siamo scoperti, Schneider solissimo viene servito e calcia forte sotto la traversa, Buffon fa un miracolo vero, una parata talmente soprannaturale da risultare invisibile a velocità naturale.

 

 

Il divario tecnico comunque si vede, e la Germania è ammirevole per come riesce a metterci una pezza. Per rendersene conto basta osservare i duelli uno contro uno, in cui in pratica i tedeschi non prevalgono mai. Tre esempi eclatanti: al venticinquesimo Klose punta Cannavaro al limite sinistro dell’area, ma mal gliene incoglie. Il centrale azzurro pianta i tacchetti nell’erba e lo ferma senza farsi nemmeno venire il fiatone. Qualche minuto dopo Grosso tiene in campo per un pelo un pallone nella lunetta del corner, ma si trova chiuso contro la bandierina mentre Ballack gli arriva alle spalle. Si gira di scatto e aggancia il pallone con l’interno facendolo sfilare in mezzo alle gambe di Ballack e conquistando la punizione. Poco dopo fa una cosa molto simile Camoranesi, resuscitando un pallone imbizzarrito sulla linea di fondo, scherzando Lahm con un gioco di prestigio e conquistando una specie di corner corto (a proposito: quanto era matto Camoranesi? A un certo punto durante una fase di gioco tranquillissima fa un intervento col piede a martello senza nessun senso, e l’impressione è che l’arbitro non prenda provvedimenti soprattutto perché non crede ai suoi occhi. Perfino i tedeschi si guardano tra loro cercando di dare un senso alla cosa per due o tre secondi, prima di arrabbiarsi).

 

Klinsmann in panchina mi sta antipatico. È uno di quegli allenatori che fanno un sacco di scene, ma la sua gestualità esasperata ha qualcosa di posticcio, teatrale, ad uso delle telecamere. Sembra volersi mostrare più coinvolto di quanto non sia in realtà e secondo me i giocatori se ne accorgono.

 

Lippi invece è molto più convincente, ma solo perché trae la propria energia da una riserva inesauribile di risentimento. Accigliato, scettico, guarda la partita come uno che controlla i lavori in casa propria dopo aver scoperto che gli hanno montato le finestre al contrario. Protesta con il quarto uomo con la fermezza di chi si aspetta di subire ingiustizie inenarrabili ma non è disposto a rassegnarsi. È talmente italiano che potrebbe ricoprire qualsiasi incarico pubblico senza cambiare mimica o atteggiamento di una virgola: potrebbe fare il ministro, il capopopolo, il conduttore di prima serata su Rai Uno.

 

La sfida tra i due ct è una delle chiavi di lettura più suggestive della partita, perché è davvero difficile immaginare due carriere, due stili, due approcci esistenziali più lontani di quelli di Klinsmann e Lippi. Icona del calcio tedesco da giocatore, Klinsmann ha preso la panchina della nazionale nell’estate del 2004, quattro giorni prima di compiere quarant’anni e senza nessuna precedente esperienza da allenatore. Niente affatto intimidito, ha battuto la strada dell’innovazione proponendo un gioco offensivo e arioso molto lontano dalla tradizione tedesca e sbarazzandosi senza tanti complimenti dei senatori poco disposti a sposare la sua filosofia. Addirittura der Titan Oliver Kahn, il giocatore più esperto e carismatico a disposizione, è finito in panchina nei mondiali casalinghi dopo essersi lamentato pubblicamente del turnover con Lehmann.

 

Messo in discussione dalla stampa e dai tifosi per un percorso di avvicinamento al mondiale non entusiasmante, non si è lasciato turbare nemmeno dalle polemiche patriottiche di quelli a cui non va giù che l’allenatore della Germania abiti in California, dove Klinsmann si è trasferito con la famiglia da qualche anno (giocando anche una manciata di partite con la squadra semiprofessionistica dell’Orange County sotto lo pseudonimo di Jay Goppingen). Biondo, abbronzato, sicuro di sé, ottimista fino alla presunzione, Klinsmann ha rispedito tutte le critiche al mittente, e i risultati fin qui lo hanno premiato.

 

Quella sulla panchina della nazionale sembra invece la battaglia finale di quella lunga campagna bellica che è stata la carriera di Marcello Lippi. Se Klinsmann ha silurato i senatori tedeschi, Lippi ha saputo ispirare nei suoi una devozione ai limiti del fanatismo e ne ha fatto i luogotenenti con cui resistere all’assedio della stampa, degli avversari, dei tifosi ostili e verrebbe da dire del mondo intero. Nello spogliatoio italiano c’è un clima di esaltazione e paranoia da quartier generale rivoluzionario, con tanto di caccia alle spie e ai traditori. Dobbiamo all’autobiografia di Pirlo il resoconto di una spaventosa sfuriata di Lippi, che dopo gli ottavi contro l’Australia inchiodò così negli spogliatoi i suoi giocatori, responsabili secondo lui di una fuga di notizie: “Parlate troppo con i giornalisti, siete delle spie, non riuscite a tenervi neppure un segreto, sanno sempre la formazione in tempo reale. Ma dove volete andare? Non posso neanche fidarmi di voi. Andate affanculo, con voi non voglio aver più nulla a che fare. Gruppo di stronzi. Stronzi e spie”.

 

I primi 45 minuti della partita sembrano davvero la proiezione sul campo delle personalità dei due allenatori: il protagonismo frenetico ma a tratti velleitario dei tedeschi assomiglia a Klinsmann, mentre gli azzurri sembrano inchiodati a presidiare la loro zona di campo dalla stessa solenne gravità che pesa sulle spalle del loro allenatore.

 

Il primo tempo si chiude in sostanziale equilibrio di gioco e di occasioni, ma c’è un’osservazione da fare. Mentre le due occasioni italiane (Perrotta e Toni) arrivano al termine di azioni “organiche” e conseguenti al progetto di gioco degli azzurri, quella tedesca – forse la più netta – nasce da una leggerezza abbastanza incredibile di Pirlo, che perde un pallone banale in una situazione pericolosissima. Senza il suo errore, di fatto i tedeschi non sarebbero mai riusciti a rendersi pericolosi.

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Stefano Piri è nato a Genova nel 1984, ha studiato a Torino e ora vive a Bruxelles dove fa, grosso modo, il sindacalista.