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Stefano Piri

Classici: Germania-Italia ’06

Dieci anni fa circa siamo andati a Berlino, ricordate?

Secondo tempo

 

Le fiammate più pericolose della squadra di Klinsmann arrivano all’inizio del secondo tempo, con l’Italia presa di sorpresa dall’intensità avversaria. Al quinto minuto Klose prende palla sulla trequarti e si accentra palla al piede, seguendo una traiettoria ipnotica che nessuno riesce ad interpretare. Né Gattuso alle sue spalle né Cannavaro davanti a lui trovano il tempo dell’intervento, e finiscono per accompagnarlo fino al limite dell’area piccola. Per fortuna nemmeno Klose si decide a calciare, e in pratica si schianta contro Buffon. Più tardi è Podolski a girarsi bene al vertice dell’area piccola e calciare forte verso Buffon, che respinge coi pugni.

 

 

La ripresa è più frammentaria del primo tempo. L’Italia palleggia con una cautela e senza affondare, come se volesse testare ogni singola zolla del campo per trovare quella giusta. Solo ogni tanto le verticalizzazioni di Totti e – soprattutto – Pirlo sembrano poter strappare il tessuto della partita, ma le idee migliori naufragano per colpa di fuorigioco millimetrici. La Germania quando può si riversa in avanti con arrembaggi furiosi e fisicamente molto dispendiosi, ma spesso inconcludenti. In questa fase la partita assomiglia alla lenta avanzata di un’armata regolare contrastata dalle incursioni di una banda di guerriglieri.

 

Come spesso accade nei turni avanzati dei mondiali, a una ventina abbondante di minuti dalla fine le due squadre sono già sulle gambe. Lippi toglie Toni, generoso ma impreciso, e mette Gilardino. Klinsmann cambia Borowski e Schneider con Schweinsteiger e Odonkor. Le ultime occasioni dei tempi regolamentari capitano a Ballack, che calcia alta una punizione dal limite dell’area concessa molto generosamente dall’arbitro, e a Perrotta, travolto da Lehmann senza riuscire a calciare dopo che Totti lo ha liberato con un geniale colpo d’esterno.

 

 

Primo tempo supplementare

 

Una semifinale mondiale tra Italia Germania che va ai supplementari è di per sé un evento sovraccarico di suggestioni, positive per noi e molto meno per loro. Come accade spesso quando si supera il limite fisiologico dei 90 minuti, la partita inizia davvero ad assomigliare alle riprese finali di un incontro di pugilato, dove la Germania fa la parte del pugile suonato che cerca di far passare i secondi, mentre l’Italia evidentemente ne ha di più, ma deve combattere anche contro il tempo e la paura di non riuscire a chiuderla. Un pugile suonato che si chiude nell’angolo smettendo di attaccare e limitandosi a proteggersi dai colpi dell’avversario può resistere in piedi per molto, molto tempo, mentre i supplementari di una partita di calcio durano solo mezz’ora. Bisogna farlo uscire da lì, bisogna attirarlo a sé facendogli credere che gli si concederà un po’ di respiro, per poi colpirlo con il massimo della forza e della precisione.

 

L’inizio del primo tempo supplementare è un assedio che mette in chiaro quale delle due squadre proverà a vincerla e quale tirerà ad arrivare ai rigori. Sono passati trenta secondi dal fischio d’inizio, e su una rimessa laterale Iaquinta, appena subentrato a Camoranesi, protegge la palla con il corpo. Schweinsteiger arriva per raddoppiare ma calcia maldestramente il pallone all’indietro, permettendo a Gilardino di sfidare in velocità Metzelder. L’allora centravanti del Milan lavora il pallone alla grande, mette il corpo davanti al centrale tedesco e gli fa perdere l’equilibrio, entra in area, sterza di colpo con il destro eludendo il rientro di Ballack e poi strozza la conclusione col sinistro, sorprendendo Lehmann. La palla bacia la faccia interna del palo e poi sfila lentamente di fronte alla porta tedesca.

 

 

La lancetta dei secondi fa un solo giro, e su apertura no look di Totti (la sua prestazione riempie gli occhi: magari non è decisivo, ma massaggia il campo con un’infinità di parabole tagliate, cariche d’effetto, congegnate al millimetro) Iaquinta conquista un calcio d’angolo. Batte Pirlo, la difesa respinge, arriva Zambrotta con la sua furia elementale e scarica una sassata che fa tremare la traversa alle spalle di Lehmann.

 

 

La Germania prova a riorganizzarsi ma Lippi ci crede e fa scaldare Del Piero. Il fantasista della Juve entra in campo al minuto 103 e lavora subito una bella palla sulla sinistra. Il suo cross viene respinto sui piedi di Totti che con una giravolta evita un difensore tedesco in uscita e viene steso al limite dell’area. L’arbitro non fischia e la Germania rovescia il gioco in direzione di Odonkor, che scende sulla destra e pesca Podolski solissimo in area di rigore. L’esausto attaccante tedesco non riesce però a girare la palla nello specchio della porta, e divora una grande occasione. La Germania è ancora viva, e pericolosa. Proprio come nel 1970, i pochi minuti dei supplementari tra Italia e Germania sembrano un caleidoscopio di infinite possibilità. Non c’è più spazio per calcoli o previsioni. Comunque vada, sarà una partita storica: un’impresa indimenticabile per una delle due squadre, una ferita impossibile da rimarginare per l’altra.

 

 

Secondo tempo supplementare

 

Il primo dei tre momenti dirimenti di questa sfida all’ultimo sangue arriva al sesto minuto dei supplementari. L’Italia è buttata in avanti, perde palla e non riesce a rientrare. Il solito fresco Odonkor scende sulla destra e serve Kehl al centro che nonostante i riflessi visibilmente rallentati riesce a servire Podolski solissimo sulla sinistra. L’attaccante tedesco controlla, prende la mira, carica il sinistro e un attimo prima che Cannavaro possa intervenire colpisce il pallone con la forza bestiale di chi raccoglie in un gesto tutte le energie che gli restano. Il pallone fischia verso la porta come un proiettile, ma invece di dare la finale ai tedeschi consegna Gigi Buffon alla leggenda. Con un riflesso tanto primordiale quanto la sassata di Podolski, il portiere della Juve si contrae a mezz’aria e con la mano destra devia il pallone oltre la traversa.

 

 

Ci siamo. Arrivano i tre minuti più importanti della storia recente del calcio italiano, e anche se arrivano all’ultimo respiro non hanno niente di casuale, ma dipendono da tanti piccoli ma straordinari gesti individuali. Sul rinvio di Buffon, a due minuti dalla fine e dopo centodiciotto estenuanti minuti di gioco, Iaquinta riesce a mettere giù il pallone col petto. Gattuso arriva per primo sul rinvio corto di Schweinsteiger, aggancia il pallone come può, con la punta del piede riesce a non farselo soffiare e a superare un tedesco con un sombrero. Appoggia a Zambrotta, che la rilancia in avanti. Gilardino salta alto e spizza a favore di Iaquinta, che insegue la palla e riesce a tenerla viva girandola verso la zona centrale. Lì c’è Pirlo che aggancia col destro, se la porta avanti col sinistro, guarda la porta e calcia una mezza maledetta, che costringe Lehmann a respingere con i pugni in corner. L’azione è stata quasi commovente, gli azzurri sono talmente spossati che sembrano giocare con una palla medica.

 

Dalla bandierina calcia a giro Del Piero, la difesa tedesca respinge e la palla arriva sui piedi di Pirlo. Il tempo si ferma.

 

Pirlo ha ventisette anni, gioca nel Milan, ed è un esemplare calcistico talmente unico che il mondo in un certo senso sta ancora cercando di capirlo. La sua corsa impacciata somiglia a quella di un’anatra, ma appena calcia il pallone si trasforma in cigno. La sua presenza ha il potere di raddoppiare la zona emozionante del campo: qualunque pallone entro i sessanta metri dalla porta avversaria può trasformarsi all’improvviso in un’opportunità. Quello che succede ora però, al limite dell’area, è un prodigio diverso, e afferisce alla capacità che ha solo un numero limitatissimo di fuoriclasse di rendere per qualche secondo tutti gli elementi complici della propria volontà. Negli istanti in cui Pirlo lavora il pallone al limite dell’area i compagni, gli avversari, la sfera stessa sembrano cospirare senza esserne del tutto consapevoli ai frammenti di un piano che è chiaro nel suo complesso solo nella mente di Pirlo. Il numero 21 attira su di sé i tedeschi come un pifferaio, poi spedisce la palla alle loro spalle, aprendo uno spazio la cui esistenza gli avversari possono solo intuire in forma di vertigine. C’è Fabio Grosso, l’eroe per caso, carriera normale e mondiale straordinario, che compone le lunghe leve in un ultimo, supremo sforzo di coordinazione. Guardate ancora una volta la sua traiettoria a giro, guardate quanto vicina alla punta delle dita di Lehmann passa la palla, miracolosamente nell’unico corridoio possibile, come nei fotogrammi a rallentatore della scena finale di un film d’azione. Esiste una forma di felicità più pura ed elementare di quella che abbiamo provato tutti in quel momento? Scriviamo di questo sport per provare a catturare le emozioni più raffinate che offre, ma non dobbiamo dimenticare che la popolarità del calcio discende prima di tutto da momenti limpidi come questo, che squarciano il cielo della battaglia con una luce abbagliante.

 

 

Grosso corre in lacrime verso chissà cosa, fa segno di no con la testa e con il dito, non sappiamo perché e magari non lo sa neanche lui. Poi viene raggiunto e placcato dai compagni, che si buttano su di lui e lo coprono con i loro corpi. Arriva Del Piero, arriva anche Buffon.

 

I minuti successivi hanno la consistenza di un sogno, dove i dettagli sfumano ma restano vivide le sensazioni. La Germania si butta in avanti come un animale ferito, fa cadere un pallone in area dalla trequarti sinistra ma Cannavaro respinge di testa. La palla arriva a Podolski che non ce la fa più, ha un controllo impreciso e viene travolto da Cannavaro, il difensore che probabilmente in questi fotogrammi sta segnando la differenza che gli farà vincere il Pallone d’Oro. Cannavaro vorrebbe continuare a salire palla al piede, ma a rubargli la palla con prepotenza, invece di un avversario è Francesco Totti. Gli è venuta un’idea: alza la testa e serve in profondità Gilardino, separato dalla porta di Lehmann solo da mezzo campo e dalla presenza di Metzelder. Gilardino avanza, ma prima di arrivare in area di rigore rallenta. Punta il fondo, poi invece si accentra ricavandosi lo spazio per il tiro al limite dell’area. Ma non tira. Serve invece un’ombra che sbuca alle sue spalle dopo una corsa truffaut-iana.

 

È Alessandro Del Piero, con la maglia numero 7, perché l’infinito dualismo con Totti si è risolto per manifesta superiorità dell’altro. In questo mondiale non ha nemmeno giocato titolare, Del Piero. È entrato quasi sempre a partita in corso, come un gregario qualsiasi. In questi supplementari ha avuto un paio di buone occasioni, ma in entrambi i casi la palla gli è rimasta come invischiata tra i piedi.

 

Sono dieci anni che dicono e scrivono che Del Piero sarebbe un fuoriclasse assoluto, ma in nazionale non combina niente. Ve li ricordate i mondiali del ‘98, quando è stato asfaltato psicologicamente da Baggio? E gli europei del 2000, con i sanguinosi gol sbagliati in finale che ci impedirono di chiudere la partita prima della beffa di Wiltord?

 

Del Piero se li ricorda, mentre corre come un ragazzino verso la porta di Lehmann, aspettando che per una volta le cose vadano come devono andare, aspettando che Gilardino decida di rinunciare al tiro e dargli quel pallone. Del Piero calcia a giro sul secondo palo, in una versione semplificata del gol a cui tanti anni prima ha dato il nome. Lehmann si allunga ma non ci arriva.

 

 

Le telecamere indulgono sui giocatori e sui tifosi tedeschi in lacrime, poi sui nostri giocatori che si lasciano cadere a terra e mentre il petto sale e scende allungano le dita in aria come se potessero toccare il cielo.

 

 

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Stefano Piri è nato a Genova nel 1984, ha studiato a Torino e ora vive a Bruxelles dove fa, grosso modo, il sindacalista.