Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
L'anno dello sport azzurro
30 dic 2021
30 dic 2021
Tutti i personaggi e le storie dell'anno migliore nella storia dello sport italiano.
(articolo)
27 min
Dark mode
(ON)

Il 2021 si era dato il cambio con il 2020 in un rumore di fuochi artificiali assordante come mai l'avevo sentito prima. Il frastuono mi aveva colpito inatteso alla bocca dello stomaco: però, a pensarci meglio, era ovvio che le persone stessero tutte chiuse in casa e all'approssimarsi della mezzanotte fossero tornate in quei cortili e su quei balconi che avevano popolato un po' ingenuamente nella primavera precedente, nel tentativo di gettare il dolore giù dal quarto piano. Personalmente ho questo ricordo preciso: sono al telefono con mio padre per gli auguri e facciamo fatica ad ascoltare cosa ci stiamo dicendo, perché le nostre voci sono sovrastate dal baccano circostante. “Stai sentendo? La gente non ce la faceva più”.

La fine dell'anno collettivamente più brutto della nostra vita, sensazione condivisa da quasi tutta la popolazione, portava con sé un carico di speranza difficile da sostenere e realizzare, soprattutto ora che la sofferenza collettiva doveva lasciare il posto alla risalita individuale. Nei nostri singoli sforzi quotidiani per ritrovare il filo di un discorso bruscamente interrotto a marzo 2020, avevamo bisogno ogni tanto di qualcosa che ci unisse e che desse a tutti il senso più immediato di un'impresa da compiere, una rimonta da completare, un punteggio da ottenere, un bersaglio da colpire, un obiettivo da centrare. Senza troppe metafore, lo sport per tutti non è mai stato così importante come nel 2021.

Jannik Sinner – Allacciate le cinture

Il vento caldo dell'estate – come una splendida canzone scritta per Alice da Franco Battiato, avvolgente, piena di pathos ma volutamente impopolare, quasi cacofonica – era stato anticipato tra gennaio e marzo da un teenager dai capelli rossi che molti di noi faticavano a percepire come un loro connazionale. La scalata quieta ma inesorabile di Jannik Sinner alla top 10 del tennis mondiale, completata con la partecipazione alle ATP Finals di Torino, ha molto poco di italiano: se vogliamo cercare tracce del suo passaporto, le troviamo più nelle regolari difficoltà a chiudere set o partite apparentemente già vinte, com'è capitato nella finale del Masters 1000 di Miami o nella famigerata semifinale di Vienna contro Tiafoe. La prima scena spetta alla sua faccia da anti-divo, cittadino del mondo che pensa in inglese e tedesco prima ancora che in italiano, amico di Maria Sharapova e Lindsey Vonn, il ragazzo del futuro anche per la poca attenzione verso tutti quei novecenteschi orpelli psico-sociali che ci trasciniamo come zavorre e di cui tutti questi magnifici esemplari di italiani contemporanei si sono brillantemente liberati.

Pure lui però col passare dei mesi ha lasciato che si sgretolasse la sua corazza apparentemente algida (“You are not a human!”, gli aveva detto Alexander Bublik dopo averci perso a Miami, e non siamo sicuri fosse un complimento). Pure lui ha avuto bisogno del calore del pubblico per girare a suo favore partite complicate. Pure lui ha scoperto a vent'anni che nessuno si salva da solo.




Leonardo Spinazzola – Il giorno di dolore che uno ha

Apparentemente il magnifico Europeo di Spinazzola finisce a Monaco di Baviera, a venti minuti dalla fine di Italia-Belgio, nel momento di accelerare per superare in tromba Thorgan Hazard, in una delle sue ottocento sgroppate sulla fascia sinistra. Ma è solo un effetto ottico: da infaticabile pistone della corsia sinistra, il miglior esterno dell'Europeo che dà alla Nazionale di Mancini una profondità illeggibile e insostenibile per tutte le difese, Spinazzola si trasforma in formidabile molla spirituale. Resta nel gruppo e accompagna gli azzurri anche alla final four: lo notiamo zompettare in stampelle ubriaco di gioia sul prato di Wembley, e sul pullman che sta portando i campioni d'Europa in aeroporto lo vediamo dormire abbracciato alla coppa con una stramba corona in testa.

Nella riunione tecnica che precede la finale, mentre sta annunciando la formazione sulla lavagna, Mancini scrive il nome dello stampellato Spinazzola nella sua abituale casella di terzino sinistro e poi, prima di cancellarlo con un tratto di penna, gli rivolge uno sguardo sornione e tenero insieme. Oltre che dal senso di rivincita per le brutture di Calciopoli, l'Italia del 2006 aveva tratto nuove riserve di energia mentale dalla tragica vicenda di un altro terzino sinistro, Gianluca Pessotto, accaduta proprio a ridosso dei quarti di finale, che aveva ulteriormente rinsaldato lo zoccolo duro dei giocatori che erano stati suoi compagni nella Juventus e in Nazionale. L'Italia del 2021 è un patchwork di esperienze umane e professionali molto diverse, tenute insieme da un entusiasmo sfacciato e adolescenziale come l'estate dei nostri quindici anni, e per diventare adulta ha bisogno di un dolore come succede al protagonista dell'ultimo film di Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio. E il dolore sportivo più grande che ci sia – la rottura di un tendine d'Achille che sancisce il “game over” fino alla fine del calendario – serve a una Nazionale parzialmente stremata per superare i due ostacoli più difficili.

È forse in questo momento che capiamo di potercela fare con l'Inghilterra, forse troppo concentrata su se stessa, sulla sua squadra, sul suo passato, sulla sua cabala, sulle sue filastrocche, al punto da non accorgersi delle virtù – tecniche, tattiche, morali – del resto del mondo. In questo caso, noi. In ogni caso, potete essere d'accordo o meno con la scelta di Southgate ma state certi che nessun italiano avrebbe mai fatto calciare gli ultimi due rigori di una serie di cinque a due ragazzi nati rispettivamente nel 2000 e nel 2001.




Matteo Berrettini – Zitti e buoni

L'11 luglio 2021 è a tutti gli effetti una giornata da scolpire nella memoria: ancora non s'immagina che nel giro di un mese ci toccherà viverne altre ancora di più leggendarie. Poche ore prima che a Wembley venga messo in palio il titolo europeo di calcio, Matteo Berrettini scende in campo sul campo principale dell'All England Club per giocare la finale di Wimbledon contro Novak Djokovic: disputa un primo set magnifico, se lo aggiudica al tie-break, poi viene lentamente sovrastato dalla montante marea del diavolaccio serbo, a sua volta proteso con ogni muscolo e terminazione nervosa a sua disposizione verso l'obiettivo impossibile del Grande Slam, che non raggiungerà. Djokovic è l'unico uomo al mondo ad aver battuto Berrettini nel 2021 al meglio dei cinque set: c'è riuscito in tre Slam su quattro (ai quarti a Parigi e New York), mentre in Australia, prima dell'ottavo di finale contro Tsitsipas, Matteo s'era arreso a un infortunio ai muscoli addominali che è tornato purtroppo a fargli visita nel momento meno indicato, contro Zverev alle Finals di Torino.

Poche ore dopo Berrettini segue la finale di Wembley accanto al presidente della Repubblica Mattarella. Alto, forte, bellissimo, inseguito dagli sponsor e dai marchi d'abbigliamento, Berrettini da Conca d'Oro è icona di un'antica e modernissima coolness italiana che nella musica si estrinseca nei Måneskin, trasteverini e cosmopoliti, furbi nel giocare con i cliché del rock, nel muoversi tra pezzi nuovi e solide cover, rapidissimi di pensiero per adeguarsi alla dittatura di Spotify e al bisogno di esserci ventiquattr'ore su ventiquattro. In un certo senso, è la declinazione artistica dello smart-working: rispondere sempre ai Whatsapp e ai DM su Instagram, non rifiutare mai una proposta, non staccare mai la spina. Finché è divertente, nessun problema.




Vialli & Mancini – L'amicizia

A metà dicembre Gianluca Vialli ha rivelato che il suo ospite indesiderato è ancora lì, tenace e silenzioso: “Sono in manutenzione”. Vialli è uno degli splendidi personaggi minori del 2021: lo Sceneggiatore Occulto gli ha riservato sequenze di straordinario pathos, di quella nuda sincerità a cui può costringerci solo lo sport. A cominciare dalla scena iniziale del documentario RAI Sogno azzurro, che si apre con il suo piano medio con la schiena voltata verso il campo di Wembley dove Jorginho sta per tirare il rigore che potrebbe farci vincere l'Europeo.

Lo stesso Sogno azzurro si chiude con un sentito discorso alla squadra nel giorno del suo compleanno (che coincide con l'antivigilia di Italia-Inghilterra), in cui legge con voce rotta dalla commozione un discorso di Theodore Roosevelt. Seppur un po' spelacchiato, è il Butch Cassidy del nostro 2021, laddove Mancini è evidentemente Robert Redford/Sundance Kid. Insieme non sognano di scappare in Australia ma più semplicemente di cavalcare insieme per più strada possibile, affrontando insieme le strabilianti sorprese che gli si pareranno davanti. Nel volto di Vialli scavato ma mai vinto, che a 57 anni non rinuncia a mettere alla prova i portieri in allenamento con le sue celebri acrobazie, non si legge più la strafottenza degli anni d'oro ma la cazzimma di chi si esalta nella lotta senza dimenticare la gentilezza, elemento essenziale e ispiratore per tutti gli atleti del mondo. Sul palco il timido Mancini, sempre un po' più a disagio con i grandi discorsi, resta di lato: la sua reticenza è il sigillo di una grande amicizia.

Di fronte al loro abbraccio dopo la vittoria di Wembley sembra di sentire i primi due versi de “L'Amitié”, la struggente canzone di Françoise Hardy colonna sonora del finale de “Le Invasioni Barbariche”: beaucoup de mes amis sont venus des nuages/avec soleil et pluie comme simples bagages (“molti miei amici sono arrivati dalle nuvole, con sole e pioggia come unici bagagli”).




Fefé De Giorgi – La leggerezza

Uscita a pezzi dall'Olimpiade, la pallavolo italiana si è prodotta in due clamorosi colpi di mano nel giro di due settimane, aggiudicandosi il titolo europeo femminile (il 4 settembre a Belgrado) e maschile (il 19 settembre a Katowice): una doppia impresa riuscita in passato soltanto alle due Nazionali di pallanuoto nel 1995. Due avventure immerse nello stato di grazia su cui ha galleggiato il nostro sport tra giugno e settembre, ma anche molto diverse. La squadra femminile allenata da Davide Mazzanti aveva da farsi perdonare lo scivolone di Tokyo, dov'era arrivata con dichiarate ambizioni quantomeno da medaglia, e poteva comunque vantare la pallavolista più forte del mondo, l'unica che riesca a trasformare il volley in una faccenda individuale: così Paola Egonu, smaltite le tossine della difficile esperienza giapponese, ha demolito nel corpo a corpo la sua grande rivale Tijana Boskovic – per giunta a casa sua – e ha urlato al mondo una superiorità già più volte proclamata con le Pantere di Conegliano (76 vittorie consecutive in ogni competizione, striscia di 720 giorni interrotta a dicembre).

E pazienza se all'Italietta retrograda e rattrappita su sé stessa una campionessa nera – ancorché nata in provincia di Padova e in possesso di spiccato accento veneto – sta pesantemente sull'anima e si perita di farcelo sapere soprattutto a mezzo social, dove influencer più o meno illustri hanno criticato persino la scelta del CIO di eleggerla a portabandiera del vessillo a cinque cerchi durante la cerimonia d'apertura. È il rumore di fondo che invade le nostre vite e che pian piano impariamo a ignorare, anche grazie alla forza musicale delle nostre soddisfazioni.

Il compito della Nazionale maschile era persino più difficile. L'eliminazione ai quarti a Tokyo era la classica fine di un ciclo: era arrivata all'Europeo con un nuovo CT, Fefè De Giorgi, e un nuovo nucleo senza i senatori Juantorena e Zaytsev, con il nuovo fenomeno Alessandro Michieletto a raccoglierne idealmente il testimone insieme a capitan Giannelli. Invece questo gruppo pesantemente outsider ha prodotto, a metà del secondo set della finale contro la Slovenia, uno dei momenti più simbolici di quest'anno di sport. Siamo sotto di un set e 10-11 nel punteggio e in tv Lucchetta ha appena finito di dire “Siamo sbigottiti, siamo allibiti”. All'inizio del time-out De Giorgi guarda in faccia i suoi ragazzi, scorgendone smorfie di tensione e paura certamente comprensibili per una finale in cui ci si trova in svantaggio, ma un po' meno accettabili se rapportate a tutto il resto. Che cos'è tutto il resto? Lo scopriamo nelle parole del CT: “Vi posso dire una cosa? Stiamo facendo la finale europea, siamo 11-10, c'avete vent'anni, c'avete delle facce come a dire: cazzo oh, stiamo facendo fatica, stiamo soffrendo... ma com'è possibile una cosa del genere?”. Di quante fesserie autocommiserative ci riempiamo inutilmente la testa, per poi accorgercene di colpo magari dopo anni?

Le ultime parole del discorso vengono sommerse dalle urla dei giocatori, improvvisamente risvegliati dal torpore. Qualcuno addirittura sorride, come se in quel tesissimo time-out De Giorgi avesse trovato il tempo e lo spazio per infilarci una battuta. La leggerezza fa miracoli: l'Italia vincerà il secondo set 25-20, vincerà la partita, vincerà l'Europeo.




Filippo Ganna – Il motore del Duemila

A metà Olimpiade la situazione sfugge definitivamente di mano. Dopo una prima settimana faticosa, in cui facciamo collezione di argenti e bronzi ma gli ori continuano ostinatamente a sfuggirci (sul banco degli imputati c'è soprattutto la Santa Scherma, come spiazzata dalla modernità e dall'aggressività di tanti Paesi emergenti a cominciare dall'Estremo Oriente), iniziamo a ingranare. Ori come quelli dei velisti Ruggero Tita e Caterina Banti, del karateka Luigi Busà, del taekwondoka Vito Dell'Aquila o delle canottiere Valentina Rodini e Federica Cesarini, autrici nel doppio pesi leggeri di un magnifico rush finale il cui commento non sarebbe dispiaciuto a Gian Piero Galeazzi. Ori purtroppo passati in secondo piano, al cospetto di un ragazzo di Verbania di 25 anni.

Quello che lascia senza fiato accade alle 11:14 del 4 agosto 2021, una data e un'ora che vanno ricordate con estrema precisione come se si trattasse dello sbarco dell'uomo sulla Luna. L'Italia è un Paese con un solo velodromo coperto (a Montichiari, Brescia), con una cultura da pistard appassita da decenni di mala gestione e semplice calo di vocazioni, ma nella sua manica prodigiosa e infinita nasconde l'asso a sorpresa. Metodo, scienza, meccanica di precisione sono parole che raramente associamo all'Italia, più pigramente descritta come la solita ode all'arte di arrangiarsi. Serve calarsi nell'estremo avamposto di tecnologia di un'Olimpiade, la finale dell'inseguimento a squadre, dove tutto è studiato al millesimo di secondo, per rendersi conto di quanto ci stiamo sbagliando: il treno dei desideri azzurro transita a un chilometro dalla fine con 86.7 centesimi di ritardo dai formidabili danesi, campioni del mondo in carica. È un distacco che tende al secondo e si direbbe incolmabile, se non che entra in scena Pippo Ganna. È stato calcolato che in pochi attimi raggiunga una potenza di 1.400 watt, come quelli di una lavatrice in centrifuga a 600 giri.

L'individualità al servizio del gioco di squadra è il segreto di ogni trionfo collettivo: però dire che Ganna vince da solo sarebbe guardare il dito, quando il tempo dell'inseguimento a squadre viene misurato sul terzo e non sul primo, e dietro di lui ce ne sono altri due-tre che vanno quasi al suo passo e si chiamano Simone Consonni, Francesco Lamon e Jonathan Milan. Il corpo umano si fa macchina e il limite tra la vittoria e la sconfitta è puro numero, frazione di secondo, un'allucinazione di James Cameron. Il distacco si sgretola giro dopo giro e qui bisogna citare anche la bravura del telecronista di Eurosport Luca Gregorio nello scandire puntualmente gli step, come davvero fosse la cronaca di un allunaggio, fino al trionfale 3'42”032 finale che è anche il nuovo record del mondo. Chi non si è alzato in piedi in quegli ultimi 40 secondi, fatti di velocità ed emozione pura impossibili da fermare anche con una macchina fotografica, sta mentendo.




Sonny Colbrelli – La fatica

Alla Parigi-Roubaix il fango rende indistinguibili tutte le facce e tutte le divise dei ciclisti e realizza l'utopia dell'uguaglianza. A differenza di tutti i suoi compagni di questa galleria di eccellenze, Colbrelli non è né un predestinato né un virtuoso della bicicletta né un atleta sovrumano: è un normale ragazzo di 31 anni che proviene dall'Italia profonda – Brescia, la quinta provincia più popolosa d'Italia dopo Roma, Milano, Napoli e Torino – con un nome di battesimo, ispirato a Sonny Crockett di Miami Vice, che fa pensare a impossibili fughe in avanti per evadere dalla banalità degli inverni padani.

Sonny Colbrelli ha trovato la fuga giusta nella prima Roubaix bagnata dopo 19 anni, quando la fatica trascende e i più ispirati possono perfino giungere a provare una qualche forma di piacere, come testimonia la britannica Lizzy Deignan vincitrice della prova femminile, sorridente al traguardo nonostante le mani sanguinanti per le vesciche. Come il Nino di Francesco De Gregori, Colbrelli vince con coraggio, altruismo e fantasia, urlando di gioia e sgomento sul prato del velodromo di Roubaix, senza dimenticarsi di ringraziare il destino che ha voltato le spalle a Gianni Moscon, beffato da una gomma forata quando aveva oltre un minuto di vantaggio. Peggio è andata ad altri comprimari come Matteo Jorgenson della Movistar: “Una notte non riuscivo a dormire e la febbre mi saliva sempre di più, così il mio medico mi ha fatto delle analisi del sangue e mi ha diagnosticato una malattia che si presenta solo se qualcuno si inietta o mangia feci animali. E io avevo trascorso tutta la gara a ingoiare fango e sterco di mucca”.

Regnare all'inferno è privilegio di pochi.




Vanessa Ferrari – La salita

In cima a una lunga e ripida scalinata che come tappe intermedie prevede una frattura dello scafoide (2007), una tendinite (2008), una rottura del tendine d'Achille (2017), un doppio intervento alle due caviglie (2019), una tiroidite di Hashimoto (2019), una forma d'asma e dulcis in fundo il Covid (marzo 2021), sta il sogno irriducibile di una tua medaglia olimpica. Ti è rimasto un solo tentativo per vincerla, dopo i quarti posti amarissimi di Londra e Rio de Janeiro, due ricordi che da soli dovrebbero scoraggiarti a riprovarci. Ma a Tokyo la ginnastica artistica ha vissuto il terremoto emotivo dello spettacolare passo indietro di Simone Biles, giù dalla pedana nelle qualificazioni del corpo libero per gridare al mondo con estremo sollievo la propria imperfezione: it's OK to not be OK. Così, in nome del bene superiore, si è chiamata fuori da quasi tutte le finali di specialità, liberando un posto sul podio al resto del pianeta.

Tocca a te, quinta su otto a esibirti al corpo libero, sulle note di “Con te partirò”, un esercizio di novanta secondi eseguito in un ideale corridoio alle cui pareti sono appesi i ritratti di giganti della ginnastica come Daniela Silivas, Mitsuo Tsukahara, Kerri Strug, i cui cognomi identificano altrettante evoluzioni, piroette, salti mortali (c'è anche una particolare figura inventata proprio da Vanessa che pertanto si chiama “il Ferrari”). È un minuto e mezzo lieve e poetico, senza drammi e senza sbavature: nonostante lo spettatore più apprensivo trattenga il fiato ad ogni atterraggio su quei tendini martoriati, è un minuto e mezzo da farfalla.

L'esercizio della vita, una vita sportiva certo non semplice, dove però finalmente tutto si appiana e si allinea per andare dritto verso la medaglia d'argento. Bisognava esserci accanto a Vanessa Ferrari per ogni giorno di ognuno dei quindici anni trascorsi a inerpicarsi su quella salita, per farsi bagnare almeno da una goccia delle lacrime di soddisfazione che ha versato quand'è arrivata in cima.




Quelli che non hanno vinto

Gregorio Paltrinieri che non si arrende alla mononucleosi che lo aggredisce a metà giugno, si rimette in piedi al meglio che può, ingoia l'amarezza di un quarto posto nei suoi 1500 in cui era campione uscente e piazza due numeri alla Alberto Tomba che aprono il dibattito: è più sovrumano l'argento negli 800, dopo una condotta di gara da cavallo pazzo in cui tenta l'azzardo di una fuga dalla prima vasca, o il bronzo nella 10 km di fondo nella brodaglia della baia di Tokyo, nuotata sempre all'attacco nonostante fosse allo stremo delle forze?

Pur senza medaglie d'oro, la conferma da punto esclamativo dell'Italia natatoria nell'Olimpo delle potenze mondiali, certificato dall'argento della 4x100 stile libero (Miressi, Ceccon, Zazzeri, Frigo) e dal bronzo della 4x100 mista (Ceccon, Martinenghi, Burdisso, Miressi). Due nomi per il futuro: il polivalente Thomas Ceccon e il delfinista Alberto Razzetti, oro in vasca corta ai recenti Mondiali di Abu Dhabi.

L'Italia del basket, all'apparenza senza arte né parte, disertata dai top player, con un CT quasi silurato, partita nel disinteresse generale verso un pre-olimpico impossibile, che va a Tokyo vincendo a Belgrado con il cagnaccio Pajola, con Mannion, con Fontecchio e Polonara, soprattutto con Meo Sacchetti sulla tolda del comando a ribadire qual è la parola d'ordine del 2021: leggerezza. E anche alle Olimpiadi se la gioca fino in fondo contro la Francia, obbligando a ripetere la litania: anche quando non vincono, le squadre migliori sono sempre molto più che la semplice somma delle individualità.

Federica Pellegrini che ci saluta con la quinta finale olimpica consecutiva nei 200 stile libero, artigliata con le ultime gocce di benzina, e si prepara a uno scintillante futuro dentro e fuori lo sport. Con lei saluta anche Valentino Rossi, l'uomo che tra le altre cose ha indicato la strada e i nuovi confini della comunicazione sportiva. Due giganti che a un certo punto credevamo eterni, e che per fortuna, invece, appartengono alla nostra stessa specie. Toccherà ad altri raccogliere il testimone delle loro grandi imprese: a cominciare tra poche settimane da Sofia Goggia, portabandiera italiana a Pechino 2022 e donna da battere in discesa e super-G.




Centonove medaglie

Per la prima volta la somma totale delle medaglie italiane tra Olimpiadi e Paralimpiadi ha superato quota 100: esattamente 109, 40 + 69, con la passerella trionfale di Ambra Sabatini, Martina Caironi e Monica Contrafatto, tripletta oro-argento-bronzo nei 100 metri che meriterebbe più di una semplice citazione. Due ori a testa per i nuotatori Arjola Trimi, Carlotta Gilli e Francesco Bocciardo. Bebe Vio ha vinto l'oro nel fioretto individuale e l'argento nella prova a squadre e per l'ennesima volta si conferma primatista mondiale di magnifico black humour. “Ad aprile in ospedale ho preso un'infezione da stafilococco e ho rischiato di morire per setticemia, o perlomeno la definitiva amputazione dell'arto sinistro. Mi ha salvato l'ortopedico dell'Ospedale Galeazzi di Milano, che oltretutto di cognome si chiamava Accetta”.




Gian Marco Tamberi, Marcell Jacobs, Filippo Tortu – Sta per succedere una cosa

“Abbiamo vinto tutto”, pausa, “alle Olimpiadi!”. Proviene dal fondo del cuore l'esclamazione fanciullesca di Stefano Tilli, un uomo di quasi sessant'anni che prima da atleta e poi da dirigente ha attraversato ere dell'atletica italiana, alcune veri e propri deserti alla Dune, prima di arrivare a questa settimana giapponese e commuoversi come un bambino incantato davanti all'albero di Natale più bello e grande e illuminato che esista. Il giorno più glorioso della storia dello sport italiano ci ha colto di sorpresa, in spiaggia, in campagna, in giardino o semplicemente stravaccati sul divano con il condizionatore acceso. Non lo dimenticheremo mai.

È un tir di emozioni che ci ha travolto prendendo la rincorsa da lontanissimo, salendo di marcia fin dalle stradine più nascoste della nostra memoria, da Mennea che sorpassa Allan Wells in ottava corsia, da Silvio Fauner che brucia i norvegesi a Lillehammer, Paolo Rossi che segna tre gol al Brasile... Siamo rimasti annichiliti, senza difese, anche se i più avveduti di noi ci avevano avvertito che il tir stava arrivando – quelli che si erano accorti che Lamont Marcell Jacobs aveva corso la semifinale in 9”84 nuovo record europeo, e che Gimbo Tamberi era pimpante come nelle migliori occasioni perché nascondeva un segreto che come tutti i migliori segreti era custodito en plein air, alla luce del sole, scritto su un gesso che si porta dietro da cinque anni. Sarebbe un brutto film, prevedibile e inverosimile nello svolgimento, se non fosse che è tutto vero.

Inizia a declinarlo Tamberi secondo le cadenze della commedia all'italiana: salta e passa sempre l'asticella, all'inizio la sorvola con stile esemplare, poi a 2 metri e 35 la sfiora coi talloni ma quella gli fa il favore di restare su. Jacobs sta facendo il pieno di adrenalina e si carica anche nell'ispirazione di Tamberi, che chiama l'applauso di uno stadio vuoto all'eccezione di pochi intimi tra cui suo padre Marco, cui lo lega una relazione quantomeno complicata. Rimangono in tre uno dei quali però, il bielorusso Nedasekau, è appesantito da un errore che gli ha impedito di fare il percorso netto riuscito a Tamberi e al suo miglior amico in pedana, il qatariota Mutaz Essa Barshim, con cui ha condiviso il dolore dello stesso infortunio alla caviglia sinistra. Quando l'addetto del CIO gli svela che data la situazione di punteggio potrebbero persino mettersi d'accordo per dividersi l'oro, la faccenda diventa puro Ettore Scola, la ribalderia andata a buon fine, il mondo a immagine e somiglianza dell'Italia: two is megl che one. L'oro più bello e cinematografico nell'epoca dell'individualismo e dell'isolamento più o meno forzato, una roba da “Momenti di Gloria” 97 anni dopo “Momenti di Gloria”. Per come siamo stati abituati in cent'anni di Olimpiadi, dove l'atletica leggera ci ha servito la gioia sempre con un severo contagocce, non si può ancora immaginare che è stato solo l'antipasto.

Jacobs è nato a El Paso, Texas, dove Quentin Tarantino ha ambientato il massacro alle prove del matrimonio della Sposa Uma Thurman in Kill Bill. I casi della vita lo hanno fatto diventare bresciano e gli hanno dato un vicino di casa (Alberto Papa, 59 anni, ex primatista italiano di salto in lungo over 50 anni) che possiede una pista d'atletica in giardino, per potersi allenare anche nei mesi più cupi del lockdown. Suo padre è texano ma l'inglese di Marcell sembra quello del suo vicino di lago Jerry Calà in “Vacanze in America”. Ha una tamarraggine naturale che è lievitata insieme all'autostima infusa dalla mental coach Nicoletta Romanazzi, sempre in cima ai ringraziamenti delle settimane successive. Molti di noi sono ancora abituati a considerare le imprese sportive come una combinazione di talento e allenamento fisico, ma soprattutto queste ultime Olimpiadi hanno insegnato l'importanza di saper riconoscere e schiacciare i giusti interruttori mentali, nel bene e nel male: il marciatore Massimo Stano, oro nella 20 km di marcia in coppia con la conterranea Antonella Palmisano, ha iniziato a progettare l'impresa ripetendosi in continuazione di essere il più forte del mondo (“a volte il cervello va ingannato così”). Alle 14:50 del 1° agosto 2021 Lamont Marcell Jacobs è lui l'albero di Natale, tutto acceso e brillantissimo anche quando c'è da stare fermi: è quello che meno si scompone alla partenza falsissima del britannico Zharnel Hughes, che lo priva del punto di riferimento del vicino di corsia. Quando poi è tutto valido, Jacobs è una palla di fucile che supera i 40 all'ora con una compostezza ammirevole, senza mai scomporsi, senza digrignare i denti. Bellissimo da vedere e rivedere nei duecento replay successivi mentre nelle immagini live sembra inebetito dall'enormità di quel che ha appena fatto, e già Tamberi lo aspetta trenta metri oltre il traguardo con la bandiera al collo, in questa festa italiana che ormai non ammette limiti né inibizioni, tanto che un telecronista austero come Franco Bragagna lo festeggia citando Fellini e urlando "Marcelloooo!", una delle frasi più famose di sempre che siano mai state rivolte a un italiano.

Prende corpo la visione di Paolo Conte che in “Azzurro” cantava la noia delle domeniche d'agosto: Jacobs è quella cosa che sentiamo fischiare sopra i tetti, un aeroplano che se ne va. Capiremo a pieno la portata di tutto questo cinque giorni dopo, in un venerdì pomeriggio in cui combattiamo tra un razionale senso di appagamento, simile alla sazietà che ti travolge sul divano dopo un abbondante cenone, e lo stato di esaltazione di chi ne vuole ancora, che il momento è adesso e che se l'avversaria da battere è la Gran Bretagna, ben venga la Gran Bretagna. Ancora oggi che sono passati cinque mesi non è chiaro da quale angolino della mente siano saltati fuori il 10”56 di Patta e il 9”17 lanciato di Desalu, perfetto anche nella raccolta del testimone da Jacobs. È qui, esattamente all'istante 24”3, mentre Desalu sta chiudendo la curva della terza frazione, che Bragagna, per venticinque anni cantore RAI della grande atletica senza mai la gioia di un trionfo italiano come Dio comanda, pronuncia la frase storica: “Sta per succedere una cosa”.

Quella cosa la fa succedere Filippo Tortu, un ragazzo che in pochi giorni aveva visto sfiorire il suo status di italiano più veloce di sempre, primo ad andare sotto i 10 secondi nel 2019, eclissato dalla cometa Jacobs. Tortu non ama Jacobs, e come potrebbe; a stento gli rivolge lo sguardo anche nelle interviste post-gara, ma la sceneggiatura dell'estate italiana gli ha regalato il rettilineo ideale, quello in cui non c'è banalmente da mantenere la posizione – e dunque si ha tutto da perdere – ma quello dove c'è da rimontare, rimontare un inglese in ottava corsia come Pietro Mennea a Mosca 1980, rimontare un inglese in ottava corsia dopo aver ingoiato per una settimana il fiele dell'eliminazione in semifinale. Cosa ci potrebbe essere di meglio? Forse vincere al fotofinish, di un centesimo, con la rotondità di un 37”50 (“37 e mezzo, non è febbre, è un febbrone da cavallo!”).

Ecco cos'è successo, un'ultima frazione da 8”85!, e il meme si confeziona da solo, con Chiellini che si aggrappa da dietro all'inglese Nathaneel Mitchell-Blake come se fosse Bukayo Saka e lo strattona quel tanto che basta. Già, Chiellini.




Giorgio Chiellini – Cos'è il genio

Le emozioni più grandi ce l'ha date l'atletica, e le saremo grati per sempre. Ma il senso di questo incredibile anno, forse persino dell'Italia stessa - “l'Italia che si dispera e l'Italia che s'innamora”, dice il poeta - tocca cercarlo ovviamente nel calcio, lo sport dove questo Paese inevitabilmente si rispecchia. È fin troppo banale collegare il trionfo di Wembley al trauma di Italia-Svezia 2017, così come sarebbe fin troppo banale (e speriamo non accada) collegarlo a una futura eliminazione da Qatar 2022 in piena sindrome da appagamento. Il senso profondo dell'Italia, per la precisione, ce lo dà una scena che potrete trovare divertente, esaltante, caciarona o addirittura disgustosa e ognuno di questi punti di vista avrà le sue ragioni.

Succede tra i supplementari e i rigori della semifinale Italia-Spagna, quando l'arbitro Brych chiama a sé i due capitani per il sorteggio: per un malinteso Jordi Alba crede di aver vinto e di avere lui diritto a scegliere la porta, ma per questo viene preso in giro da un Chiellini stranamente su di giri. “Mentiroso!”. Certo, il nostro capitano sa che difficilmente toccherà a lui presentarsi sul dischetto, e lo sgravio di responsabilità lo rende molto più sereno degli altri; ma non è solo quello. È una pagina di cultura popolare che merita di entrare nello stesso catalogo della grande letteratura e cinematografia dell'italiano che parla straniero e si rende ridicolo, da Lino Banfi al Maracanà a Pieraccioni con le ballerine di flamenco, da Berlusconi che canta in francese a Totò che approccia il vigile urbano in Piazza Duomo. “Mentiroso, mentiroso!”, e ride, sgangheratamente, apposta per fargli saltare i nervi. Il povero Jordi Alba è divorato dalla tensione e non ha alcuna voglia di stare al gioco: anzi cerca di sottrarsi agli abbracci, ai buffetti, a tutto quel cinema che lo sta mettendo in ridicolo, come se fosse una vittima di bullismo. Gli spagnoli si macereranno nel dubbio: ci fosse stato Sergio Ramos, sarebbe stato trattato allo stesso modo?

La sottigliezza dell'operato di Chiellini sta nel fatto che quasi tutto il mondo ha elogiato la sua serenità, eleggendo questo come il momento in cui l'Italia ha vinto la partita (come ha fatto persino l'ineffabile Pedrerol al Chiringuito). Invece noi italiani ne abbiamo riconosciuto la perfidia, l'improvvisazione portata al parossismo per invertire il corso mentale di una sfida che ci aveva visto in grande difficoltà (Chiellini sapeva che contro la Spagna ai rigori avevamo perso due volte su due, essendo in campo entrambe le volte). Quella sceneggiata alla Bud Spencer ha infuso coraggio ai suoi, ciò che invece il pallido Jordi Alba non è riuscito a trasmettere agli spagnoli. “Cos'è il genio?”, era la domanda retorica di quella famosa scena di “Amici Miei” in cui il Necchi risolveva brillantemente un'emergenza fisiologica facendo la cacca nel vasino di un neonato. Il genio è questione d'ispirazione: un prestigio, un istante appena e li abbiamo fregati col sorriso sulle labbra.

Come diceva Giorgio Gaber, detentore di un nasone almeno pari a quello del Chiello nazionale, nella sua canzone più rappresentativa sull'Italia e sugli italiani: “Benvenuto il luogo dove/dove tutto è ironia/il luogo dove c'è la vita/e i vari tipi di allegria”.




Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura