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Per Berrettini è solo l'inizio
12 lug 2021
12 lug 2021
Per Djokovic invece è il ventesimo slam, lo stesso numero di Federer e Nadal.
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Matteo Berrettini calpesta la moquette dei corridoi dell’All England Club, attraversa le foto dei campioni con la coppa dorata in mano, le targhe dei vincitori, gli albi d’oro ricoperti da scritte dorate. Passa in mezzo a uomini e donne in divisa militare, lì per mostrargli la solennità formale del più prestigioso torneo al mondo. Porta la borsa con gli attrezzi del mestiere, beve da una bottiglia di plastica e prova a non pensarci, a quello che gli sta per succede. È il primo tennista italiano in finale di Wimbledon. L’Italia è paralizzata davanti al televisore per una partita di tennis come forse non succedeva dalla finale di Coppa Davis del 1998, Gaudenzi con la spalla lussata che cerca di resistere alla Svezia. È una giornata di straordinaria felicità e agitazione per lo sport italiano, interpretata alla perfezione dal trasfigurato papà Berrettini in tribuna. Cappello calato sopra gli occhi, massimo tre o quattro punti visti durante il torneo, mani sulla testa per la maggior parte del tempo.

 

Matteo Berrettini prima di ricevere il primo punto della partita, passeggia per il campo soffiandosi sulla mano: è l’unico tic che si concede in uno sport per nevrotici. Sembra voler dire al suo avversario: la mia mano è calda, bollente, sta andando a fuoco. Il suo servizio e il suo dritto corrono a una velocità che fa scintille. Il suo fisico pare costruito con pezzi di due persone diverse: la parte superiore ampia e possente, le gambe invece esili, persino fragili. Si sfinano fino ai piedi ingrandendosi solo un attimo intorno alle cavigliere che cercano di proteggere il suo tallone d’achille. È la parte del suo corpo che lo ha fatto soffrire: «Dovrò convivere con il lato fragile della mia natura. E averne cura, perché senza le caviglie, o con caviglie bistrattate, non vai da nessuna parte»

detto. Dall’altra parte della rete Djokovic è un unico fascio di muscoli teso e guizzante con sopra una testa. Dà l’impressione di poter rimbalzare e schizzare sul campo, annullare i vincoli della fisica. I due corpi esprimono la diversità dei due stili di gioco, quello di un grande servitore che colpisce da altezze vertiginose, e quello di un grande risponditore che può piegarsi e prendere la forma che lo scambio gli richiede. Attaccante contro difensore. Un uomo che cerca di prendere il comando dello scambio e di sfondare la resistenza dell’altro: uno dei conflitti estetici imperituri del tennis. Ma definire Djokovic “un grande difensore” è riduttivo. A volte pare prendere solo una strada più lunga e subdola per attaccare l’avversario.

 

Berrettini questo lo sa, e sa che dovrà giocare una partita lucida. Essere aggressivo senza andare su di giri; trovare tanti vincenti concedendosi un numero equo di errori non forzati; creare una partita di scambi rapidi e veloci, ma resistendo in quelli più lunghi al meglio delle sue possibilità. Davanti a lui non dovrà affrontare solo il miglior giocatore di questi campi, ma una leggenda vivente. Un uomo che è lì per lui e per la storia: vincendo aggancerebbe Federer e Nadal nel numero di slam e metterebbe un altro mattoncino per il traguardo che li scalzerebbe dai libri di storia, il Grande Slam. Con Wimbledon sarebbero tre Majors vinti, gli mancherebbe solo il quarto, a New York. Affrontare la storia è difficile ovunque, ma lo è ancora di più sul Centre Court dell’All England Club, nel torneo più dinastico del tennis. Dal 2003 a oggi ha espresso solo quattro vincitori diversi, esprimendo al meglio quest’epoca oligarchica di tennis. Djokovic lo ha vinto cinque volte, e di anno in anno il suo tennis sembra perfezionarsi attorno alle esigenze di una superficie così peculiare. I più maliziosi potrebbero aggiungere che l’erba di Wimbledon si è perfezionata per rendere perfetto il gioco di Nole, rallentando di anno in anno.

 

Che i rimbalzi arrivino troppo lenti o troppo veloci, Djokovic li calcola sciando da un lato all’altro del prato. È cresciuto con gli sci ai piedi fra le montagne serbe. Non c’è giocatore offensivo che possa mandarlo troppo in sofferenza; quando c’è da attaccare ha imparato a prendersi anche la rete volentieri, con una sensibilità di tocco sempre troppo sottovaluta. Se nel regno visibile della partita Nole non ha punti deboli apparenti, in quello invisibile è il maestro assoluto. Nessuno conosce meglio di lui le strade che portano alla vittoria, anche le meno intuitive e le più tortuose. Visto il clima Europei, si può parafrasare una frase di Cruyff sul calcio italiano: «Djokovic non può vincere, ma contro di lui puoi perdere». Puoi perdere molto facilmente. Una frase adatta in modo particolare a certe partite che Djokovic ha vinto senza dare l’impressione di fare granché. L’ultima finale di Wimbledon, per esempio, nel 2019, l’ha passata osservando il suo avversario - Roger Federer - dipingere tennis per alcuni set. Per tre set e mezzo se ne è stato in un angolo senza neanche una palla break a disposizione. Poi ha alzato un tantino il livello, il necessario per vincere il trofeo con meno punti del suo avversario. È stato inferiore in tutte le statistiche del gioco - vincenti, game vinti, palle break convertite - in uno sport che di solito è piuttosto fedele ai suoi numeri.

 

Djokovic è una sfinge. In semifinale ha sottoposto il giovane talentuoso Denis Shapovalov a un’esecuzione condita da tortura. Shapovalov è stato di gran lunga il miglior giocatore in campo per la maggior parte della partita, come ammesso da Djokovic ai microfoni. Non solo non ha vinto, non ci è andato neanche vicino, non è riuscito a togliere al suo avversario nemmeno un set. Il canadese ha giocato in modo a tratti sublime, ma nei momenti chiave della partita Djokovic, da incantatore di serpenti, ha aspettato che si battesse da solo. A fine partita Shapovalov ha stretto la mano al mostro ed è scoppiato in lacrime. Se ne è tornato a casa borsa in spalla e dita a tamponare le lacrime. Poveraccio.

 

Matteo Berrettini si soffia sulla mano, e a tutto questo prova a non pensarci. È in finale non grazie a un’impresa, a un miracolo di eroismo italiano. Ci è arrivato perché è uno dei migliori giocatori su erba del circuito. Ha vinto il Queen’s che, tradizione vuole, stabilisca il favorito ai Championships, e durante il suo percorso ha vinto partite in modo semplice e autoritario. Mettendo in discussione le proprie vittorie solo per brevi e insignificanti periodi di tempo. Forse Berrettini pensa che l’ultima volta in cui ha incontrato Djokovic, quello ha vinto, certo, ma non ha avuto la vita facile. Era il Roland Garros e dopo due set sonnolenti, Berrettini ha iniziato a martellare e a soffocare Djokovic. Ha vinto il terzo set al tiebreak, e ha giocato un quarto perso sul filo. Ha costretto Djokovic a sfoderare classe e nervi in abbondanza. Nelle fasi cruciali della partita Nole ha cacciato fuori delle urla di guerra decisamente sopra le righe. Ha calciato un cartellone pubblicitario facendone crollare le lettere. Era la terra rossa: una superficie concettualmente più avversa a Berrettini, meno generosa coi suoi colpi migliori. Ora il problema è che si tratta di una finale, dove l’eccezionalità mentale di Djokovic ha un valore ancora più evidente. Agli Australian Open di quest’anno Daniil Medvedev era arrivato circondato da aspettative e dimostrazione di forza incoraggiante, e poi si è lasciato stritolare in finale. Certi avversari sembrano partire già battuti con lui. Nole ha giocato 30 finali slam, che significa essere pronto a navigare su tutte le correnti avverse: «Se il pubblico mi tifa contro, mi è già successo; se vado due sotto, mi è già successo» ha detto, sottolineando il valore dell’esperienza. Ma temeva Berrettini. Prima del torneo gli ha chiesto di allenarsi insieme: un segno di rispetto, forse un segno di timore.

 

Come ha scritto Cristopher Clarey, nel primo game Djokovic ha chiesto a Berrettini di strappargli il servizio, e quello ha gentilmente declinato. Un game zeppo di errori, muscoli contratti e braccia tremanti. Due doppi falli di Nole, quattro errori non forzati di Berrettini, di cui tre col rovescio. Il suo anello debole. È lì, su quella diagonale, che Djokovic vuole imbrigliare la partita. Il suo colpo più forte contro il più fiacco dell’avversario. Berrettini ha bisogno di lavorare col back, che su questi campi non ha mai smesso di pagare. Ha bisogno, quando può, di girare attorno e far esplodere il suo dritto. Ma deve farlo esplodere in modo violento e definitivo, perché altrimenti scopre troppo campo alla sua destra, e dall’altra parte della rete c’è il diavolo. Era stato il peggior game possibile, quello che poteva mettere la partita nelle peggiori condizioni psicologiche possibili. In questa prima fase Berrettini è nervoso e si aggrappa completamente al servizio. Appena lo scambio si allunga, ha il fiatone. Nel quarto game concede due palle break, e alla seconda cede per la prima volta il servizio. Un recupero profondo di Nole che cade nelle ultime zolle arrostite del campo, il pugno agitato verso il suo angolo.

 

Berrettini sta commettendo troppi errori. Per esempio: è in spinta continua col dritto, Djokovic resiste, e Berrettini forse per un po’ di tensione decide di non continuare a forzare ma prova una palla corta col dritto. È ben eseguita, Djokovic è sorpreso e si limita a una ribattuta senza arte né parte. Berrettini ce l’ha comoda da spingere lungolinea, mentre l’avversario già si defila dal lato opposto. E invece la mette larga di almeno quattro metri. Non sono stati tanti questi errori clamorosi, ma sono rimasti nella nostra memoria grazie allo spietato talento di Djokovic di renderli memorabili.

 

Sul 5-2 Berrettini serve per rimanere nel set, ed è durissima. Concede due palle break, ma rimane attaccato a un game che un giocatore meno forte avrebbe fatto scivolare via. Dura quasi dieci minuti, e lo riesce a vincere. Su quello successivo ottiene il break che lo mantiene in scia. Matteo Berrettini è speciale. Gioca in modo sempre più attento col rovescio in back, resistendo di più alla lotta da fondo. Sulla palla break esce vincitore da uno scambio duro con un colpo di polso in recupero che non gli appartiene del tutto. Di nuovo, in un momento decisivo, di intensità psicologica assoluta, Berrettini si è dimostrato all’altezza della mastermind del tennis mondiale. Ha annullato un setpoint e ora è pari.

 

Berrettini entra sempre meglio nello scambio. Il dritto è penetrante, e rimane freddo sui recuperi clamorosi di Nole. Il rovescio in back comincia a girare, gli errori gratuiti diminuiscono. Vince il tiebreak, come già aveva fatto al Roland Garros: ace sul setpoint, senza tremare. Ha vinto il primo set vincendo un punto in meno del suo avversario, eccellendo quindi nella specialità di Djokovic di vincere i punti più importanti.

 

Dopo il tiebreak il set ricomincia sotto le mentite spoglie di un passaggio interlocutorio. Il momento decisivo della partita arriva mentre forse stavamo pensando ad altro. Berrettini serve avanti 40-15 nel primo game e forse per un attimo si rilassa, pensa di aver vinto il gioco. Un attimo dopo si ritrova a fronteggiare una palla break; come sempre prova ad affidarsi a una prima sostanziosa, esterna, Djokovic però è il miglior risponditore del circuito. Ha un istinto da portiere di hockey a intercettare anche le traiettorie più violente. È una risposta che cade corta, ma è dal lato del rovescio di Berrettini, un colpo che difficilmente fa male al suo avversario, quindi sceglie una palla corta. Nole schizza in recupero e gioca un’altra palla corta. Berrettini ci arriva bene, ha la palla sul dritto e può fare più o meno tutto, e decide di colpire incrociato, lì dove lo aspettava Djokovic.

 

 


Tutto comincia ad andare veloce e poco dopo Berrettini si ritrova sotto 0-4 con doppio break. L’ultimo game dura un minuto e otto secondi. In certi momenti Djokovic sembra bendare gli avversari, quelli neanche se ne accorgono, e quando gli toglie la benda si ritrovano infilati dentro buche di punteggio non più colmabili. Battere Djokovic è come provare a scalare l’Everest, ma con una persona che nel frattempo ti infila degli stupefacenti nella borraccia dell’acqua. Più ti avvicini al traguardo, più la visione si sfoca, le gambe si sciolgono come gelato e, senza neanche accorgertene, torni a vedere la vetta al doppio della distanza che immaginavi.

 

In quel momento la maggior parte dei giocatori normali avrebbe lasciato andare, se non la partita, almeno il set. Invece Berrettini vince il game successivo e lo fa vincendo il punto più spettacolare della partita, con un lob tirato da sotto le gambe piuttosto inspiegabile.

 


Nel game successivo strappa il servizio a Djokovic e accorcia di un break: non gli basta per mettere in discussione il set, ma intanto trasmette al suo avversario la sensazione che quel giorno niente sarà facile, niente gli verrà regalato. All’ora e cinquanta di gioco Berrettini è tornato e vince il primo game del terzo set con tre ace. È quello il momento in cui, però, Djokovic si dimostra semplicemente troppo per il giocatore italiano. Al terzo game del terzo set, in risposta, sfreccia in recupero alla sinistra su un dritto violento di Matteo. Divarica le gambe come uno sciatore e, totalmente fuori equilibrio, inventa un passante stretto che rimbalza appena oltre la rete. Berrettini è sorpreso, la sua mano non è sempre dolce, e il colpo si ferma a rete. Nel punto successivo ottiene il break con l’ennesima goccia cinese imbastita sulla diagonale di rovescio. Si apre qualche altra possibilità, ma Djokovic gliele richiude tutte. Nel sesto game ha due palle break, vanificate da due passanti sbagliati. Prima della seconda il pubblico gridava “Matteo! Matteo!” e dopo il punto Djokovic mostra l’orecchio al pubblico, gli dice qualcosa, proseguendo la sua guerra col sentimento altrui che dura ormai da dieci anni.

 

Se si vuole soffrire ripercorrendo altri bivi decisivi del match, si può andare a quando, nel quarto set, 3-2 avanti e 15/30, Berrettini gioca un punto sensazionale. Fa il tergicristallo difensivo, resiste a tutto, poi, appena il contesto glielo permette, esplode col dritto. Djokovic fa un recupero miracoloso, le mani sul prato, e Berrettini ha una palla comoda sul dritto a metà campo. Forse il polso gli trema, forse è una semplice scelta tattica, fatto sta che prova una palla corta che si alza troppo dalle sue corde. Il tipo di pallina che manda il sangue agli occhi a Djokovic, che ci arriva e, gambe aperte a compasso, tira un passante di dritto stretto impossibile anche solo da immaginare. È il montante definitivo della partita, che pochi minuti dopo si chiude. Il pubblico prova a spingere Berrettini, a farlo rientrare in partita, ma è benzina per Djokovic: un uomo nato con la guerra e fatto per la guerra. Poco dopo esulta steso sul prato, braccia larghe. Prima della partita aveva detto di sperare che una parte di pubblico avrebbe tifato per lui, indispettito dal tifo per Shapovalov in semifinale. Non ha avuto il pubblico dalla sua parte nemmeno stavolta, ma l’ombra del suo dominio continua a estendersi sul mondo del tennis prendendo proporzioni vaste come non mai.

 

Come Federer e Nadal, Djokovic è riuscito nella difficilissima accoppiata Roland Garros e Wimbledon. Ma è il primo giocatore, dal 1969, a riuscire a vincere tre slam consecutivi. Tra due mesi c’è New York, dove potrà raggiungere quel traguardo, il Grande Slam, che lo metterebbe automaticamente in una posizione di forza diversa rispetto agli altri due.

 

Berrettini ha perso contro un giocatore dal valore irreale, ma è riuscito nell’impresa impossibile di farlo sembrare vulnerabile, almeno per qualche fase della partita. Per vincere gli manca qualcosa nella solidità da fondo forse (ma a chi non manca contro Djokovic?), oppure avrebbe dovuto servire ancora meglio (ha chiuso con meno del 60% di prime in campo, davvero poche). Tre anni fa esordiva sull’erba di Londra, due anni fa ringraziava Federer per la lezione, quest’anno si è spinto in finale e si è concesso il lusso di lottarla. Ha 25 anni e ai microfoni ci ha rassicurati: «È solo l’inizio». Per i tifosi del tennis italiano, aver solo potuto vedere la partita di ieri è stato un privilegio e una ricompensa: per tutto il tempo passato a penare per il dritto di Sanguinetti e per il rovescio di Cecchinato; per chi si è esaltato col gioco di anticipo di Andreas Seppi e per chi ricorda ancora a memoria i punti della vittoria di Fognini su Nadal. Mai come oggi, il futuro sembra nostro.

 

A fine partita Novak Djokovic si è esercitato nel classico rito della degustazione dell’erba, e dentro ci ha sentito il sapore dei venti slam. Ora la sua bacheca contiene gli stessi di Nadal e Federer: «Sono la ragione per cui io sono qui» ha detto ai microfoni, e ci ha ricordato della nostra fortuna: aver visto i tre tennisti più forti di sempre sfidarsi davanti ai nostri occhi per vent’anni. È stato un viaggio incredibile, e non è ancora finito. Il panorama è bellissimo.

 

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