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Giorgia Mecca
Federica Pellegrini è uscita di scena
29 lug 2021
29 lug 2021
La nuotatrice è riuscita lì dove molti grandi campioni falliscono: chiudere a modo proprio.
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Giorgia Mecca
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«Forse è tempo di cambiare vita»: Il 10 agosto 2016 Federica Pellegrini, fuori dal podio olimpico di 26 centesimi di secondo, mentre osserva il tabellone e il suo nome dietro a quelli di Katie Ledecky, Sarah Sjöström, Emma McKeon, pronuncia soltanto due parole: “Sono morta”. Ci si impiega di più a battere le ciglia che a far passare ventisei centesimi di secondo, eppure quel tempo è sufficiente a farla crollare, a convincerla di essere un’atleta finita, una campionessa con la particella ex davanti. Di fianco a lei, nella sua stessa piscina le sue avversarie sono tutte più giovani, hanno spalle senza ruggine, le ricordano la se stessa sedicenne, al suo esordio olimpico, quando i commentatori cominciavano a paragonarla a Novella Calligaris e lei pensava di non essere ancora abbastanza brava per sopportare quel confronto.

 

Alle Olimpiadi brasiliane, Federica Pellegrini non piange nemmeno (o almeno, non in favore di telecamere), non ci riesce, si limita a tirare uno schiaffo contro l’acqua, come se volesse farle male, restituire il torto subìto. Divina? Forse una volta. Nel momento di passaggio da predestinata (Atene 2004) a invecchiata (Rio 2016). In totale, divina o no, si possono contare cinque olimpiadi consecutive, undici record del mondo, un primo e un secondo posto ai Giochi, sei medaglie d’oro ai mondiali, la prima nel 2009 a Roma, l’ultima nel 2019 a Gwangju.

 

La Pellegrini ha detto per sempre addio alle gare in Giappone, dopo aver conquistato la quinta finale consecutiva nei 200 metri stile libero della sua carriera, come lei nessuna mai, a trentatré anni da compiere proprio in Giappone, il prossimo 5 agosto. E allora sì che in questo caso ha senso piangere, salutando per sempre l’acqua al cloro, lei che non ama nuotare in mare, salutando i Giochi, i palazzetti, le sveglie all’alba e le vigilie insonni, la schiena presa a pugni dagli allenamenti, l’ossessione del cronometro, quei ventisei centesimi di secondo che l’hanno tormentata per mesi.

 

Per la prima volta in carriera non era a caccia di medaglie, si accontentava di arrivare fino in fondo. Alla fine delle batterie, nel primo giorno di gara, l’azzurra era stata lentissima, quindicesima, penultima con 1’57’’33, soltanto Valeria Salamantina aveva nuotato peggio di lei tra le qualificate. In cima, Katie Ledecky si era sbranata tutte le altre con 1’55’’28. In semifinale l’italiana, ultima reduce degli anni Ottanta, è arrivata settima, con le unghie e con i denti la finale l’ha raggiunta, noi non l’abbiamo vista ma lei assicura che sorrideva mentre nuotava per l’ultima volta. The last dance in mezzo agli squali, lei finalmente libera di non esserlo, di divertirsi, di uscire dall’acqua e osservare il tabellone e sentirsi grata per il fatto stesso di esserci, ancora, in mezzo alle migliori del mondo, libera infine di non sentirsi in difetto, sbagliata, vecchia rispetto a Ariarne “Terminator” Titmus e la solita Katie Ledecky, rispettivamente classe 2000 e 1997, la cui rivalità è stata paragonata a quella tennistica tra Federer e Nadal e che sinceramente si rivolgono apprezzamenti del tipo: “Grazie, se non fossi stata così imbattibile io non mi sarei spinta così lontano”.

 




Sono questioni che non riguardano più Federica Pellegrini. Lei che cinque anni fa è stata fatta fuori dal cronometro, dalla spietatezza dell’anagrafe, da una previsione sbagliata sul ciclo mestruale che le ha fatto buttare via un anno di lavoro, dodici mesi dedicati al nuoto e soltanto a quello, dopo Rio 2016, con un’araba fenice tatuata addosso, ha deciso di riprovarci, e nonostante la pandemia che ha logorato ulteriormente l’attesa dell’addio, ha deciso di concedersi il privilegio più grande per un atleta: decidere quando finire, senza impietosire il pubblico, senza doversi vergognare di se stessi guardandosi allo specchio per l’ultima volta negli spogliatoi. Sembra facile e non lo è, cercare un obiettivo che sia realistico, dedicargli tutto ciò che rimane, ottenerlo.

 

«Il reparto medaglie per me è chiuso», ha detto prima di buttarsi in acqua per l’ultima volta, con lo smalto nero alle unghie, proprio come la prima volta. Nel 2004, la sera prima della sua prima finale olimpica, la sedicenne Pellegrini non riusciva a dormire, aveva paura, a un certo punto si è detta: «male che vada finisco ottava, ma almeno sarò ottava in finale». Diciassette anni dopo, si è potuta permettere di avere lo stesso pensiero e la stessa indulgenza nei suoi confronti: nessuna acqua da prendere a schiaffi, maledetti centesimi di secondo, coda dell’occhio rivolta a ciò che succede oltre la tua corsia, niente cuore che si ferma aspettando il verdetto finale, o dentro o fuori, o su o giù dal podio, l’oro o il nulla.

 

Sì che hanno senso le lacrime con cui ha strozzato ogni intervista, il pianto con cui ha salutato l’agonismo, i complimenti di Michael Phelps, la sveglia di molti italiani alle 3.41 per guardarla l’ultima volta. Federica Pellegrini lascia un movimento migliore di quello che ha trovato. «Ci sarà un bel nuoto nei prossimi anni», ha dichiarato l’ex atleta olimpica dopo la sua finale. È questo che fanno i campioni: escono di scena, lasciano il vuoto, ma preparano il campo, la vasca, per chi verrà dopo di loro. Nel nuoto c’è un prima e un dopo Pellegrini, negli Stati Uniti parlerebbero di

, è ciò che significa lasciare l’eredità. A futura memoria.

 

 

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