Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Le dieci storie NBA da ricordare del 2021
28 dic 2021
28 dic 2021
Ripercorriamo l’anno che si sta concludendo con i momenti che ci porteremo anche nel 2022.
(di)
(articolo)
12 min
(copertina)
Daniel/Getty Images
(copertina) Daniel/Getty Images
Dark mode
(ON)

Come si calcola un anno di NBA? Provate a pensarla in questo modo: la Terra ruota intorno al sole a una distanza media di 149 milioni di chilometri, gli stessi 149 milioni che lo scorso settembre i Denver Nuggets hanno garantito a Michael Porter Jr. per i prossimi cinque anni. Questo significa che, dovendo compiere un giro completo, ed essendo sferica (scusa Kyrie!), la Terra ha a disposizione 365 miseri giorni per coprire una distanza di 936 milioni di chilometri, il che equivale ad oltre 700 volte il numero di miglia viaggiate da tutte e trenta le franchigie nel corso dei dodici mesi.

Per farcela, non godendo del turbo di De’Aaron Fox, il nostro pianeta deve mantenere una velocità orbitale media di circa 107 mila chilometri orari, pari a quasi 30 km/s, che poi è la stessa velocità con cui Adrian Wojnarowski di ESPN e Shams Charania di The Athletic devono twittare per poter sperare di essere i primi ad annunciare l’esito di una trade o di una firma in free agency.

Impastate il tutto con qualche passaggio in stile pallanuoto di Nikola Jokic, un paio di canestri impossibili di Luka Doncic, le solite dichiarazioni sull’imminente ritorno dei New York Knicks e un bel «Bang!» sparato a gran voce da Mike Breen ed ecco che otterrete il vostro anno NBA.

Scherzi a parte, ecco i migliori momenti dell’anno NBA 2021 che volge al termine.

L’anno di Giannis Antetokounmpo e dei Milwaukee Bucks

Non si può non partire da qui. Che il 2021 sia stato l’anno di Giannis Antetokounmpo e dei Milwaukee Bucks, tornati alla vittoria dopo 50 anni di attesa, lo abbiamo già scritto più e più volte. La NBA è sempre affamata di storie dalla matrice positiva e in pochi possiedono un percorso più fiabesco di quello di Giannis, la cui parabola umana e sportiva è quanto di più simile abbiamo per convincerci dell’esistenza dei supereroi. Ma quella di Antetokounmpo e dei Bucks non è stata soltanto la favola della buonanotte con cui addormentarsi all’interno di un altro anno (il 2021), dove il vento della pandemia ha continuato a soffiare forte, dentro e fuori dalla NBA.

https://twitter.com/Bucks/status/1417710800584646659?s=20

Nel corso degli ultimi dodici mesi, sia Giannis che il resto dei suoi compagni hanno mostrato un’evoluzione tecnico-tattica capace di sostenersi reciprocamente. Penso alle due stoppate clamorose rifilate da Giannis in gara-4 e gara-5 delle Finals contro i Phoenix Suns, ai suoi 50 punti con cui ha sigillato la gara-6 del titolo, ma anche alle giocate difensive di Jrue Holiday contro Miami o ai canestri decisivi di Khris Middleton contro Brooklyn e Atlanta. Penso al sistema meno eliocentrico di coach Budenholzer, alla faccia tosta di P.J. Tucker e a quella ancora più tosta di Bobby Portis, passato da “giocatore turista” a eroe nel giro di un’estate. Okay, forse i Bucks sono stati davvero una favola della buonanotte.




L’anno in cui Kevin Durant è tornato Kevin Durant

Come scritto qualche giorno fa su queste pagine: «Un anno fa di questi tempi ci chiedevamo quale versione di Durant avremmo rivisto in campo. Prima di KD, infatti, l’unico giocatore a essere tornato ai suoi livelli dopo un infortunio gravissimo come la rottura del tendine d’Achille era stato Dominique Wilkins, che dopo essersi infortunato nel 1992 è stato votato per altre tre volte come All-Star viaggiando a quasi 28 punti di media nei successivi due anni, quando aveva già 33 e 34 anni — la stessa età di KD oggi. Tutti gli altri giocatori che hanno subito un infortunio del genere non sono riusciti a tornare ai livelli precedenti, e per quanto Wilkins sia da considerare una storia di successo, non era certamente un candidato MVP come lo è ora Durant».

Tanto basta a spiegare l’unicità di Kevin Durant, uno dei migliori giocatori di pallacanestro mai nati. Aggiungo soltanto una cosa: in 30 delle 58 partite di regular season disputate nel 2021, KD ha segnato almeno 30 punti. In 19 di queste ha chiuso sopra il 60% dal campo. In 7 delle dodici partite di playoff ha segnato almeno 32 punti. In quattro di queste ha chiuso sopra il 65% dal campo – compresa la leggendaria gara-5 contro i Milwaukee Bucks. #CHEATCODE

https://twitter.com/BrooklynNetcast/status/1470386283675586574




L’anno in cui Steph Curry è diventato il miglior tiratore di sempre (anche se lo era già)

Dopo Durant, Curry. Sono cinque anni che KD e Steph procedono a braccetto. Nel 2016 si giocarono il titolo da rivali per poi uscire entrambi sconfitti in modo rocambolesco in due gara-7 leggendarie; durante la stessa estate unirono le forze, passando da eroi a villain nel giro di due titoli dominati; nel 2019 si separarono di nuovo – e KD si ruppe il tendine d’Achille, tre mesi prima che Curry si procurasse una frattura a una mano – e nel 2021 sono tornati, quasi nello stesso momento, al massimo della forma delle rispettive carriera. Esiste un filo nascosto tra le trame NBA più meravigliosamente intrecciato del loro?

Se al 2022 toccherà il compito di accoppiarli di nuovo, da avversari, in un’ipotetica finale NBA, il 2021 ha fatto in tempo a togliersi lo sfizio di incoronare Curry come il miglior tiratore del gioco. Un metaforico scettro (più una certificazione statistica che altro: che fosse il migliore di sempre lo si sapeva da un pezzo) che Steph ha ricevuto durante la partita che i suoi Warriors hanno giocato al Madison Square Garden, probabilmente il palazzetto sportivo più iconico al mondo, direttamente dalle mani dei predecessori Reggie Miller e Ray Allen, mentre Spike Lee immortalava il tutto con la sua fotocamera del telefono. Gli americani saranno anche un popolo con tanti limiti, non c’è dubbio, ma quando si tratta di costruire un’epica mainstream restano i marziani della nostra galassia.




L’anno delle sparizioni di Ben Simmons e Kyrie Irving

Per il 2021 NBA, Simmons e Irving rappresentano due facce delle stessa medaglia: quella della sfiducia. Da una parte Simmons e il suo disincanto nei confronti dell’amore (fraterno, ma non solo), ritrovatosi da solo a sobbarcarsi le colpe di un problema, per la verità, più ampio della sua riluttanza a sviluppare un jumper decente. Dall’altra, la cronica incapacità di Irving di fidarsi del prossimo lo ha posto lontano da quei riflettori sotto i quali in pochissimi riescono ad eguagliare il suo talento e la sua pulizia tecnica.

Se la NBA venisse raccontata attraverso le collezioni di Mysteries of the Unknown potremmo dire che tutto è successo tra le notti del 13 e del 21 giugno 2021. Il primo ad andarsene è stato Kyrie Irving, inghiottito dal buco nero della scarpa destra di Antetokounmpo, la stessa che gli è costata un infortunio alla caviglia che ha chiuso anticipatamente quella che, fino a quel momento, era stata la miglior stagione della sua carriera – una stagione dove Irving era entrato nell’esclusivo club del 50-40-90 (percentuali al tiro dal campo, da tre e ai tiri liberi).

Simmons, invece, sarebbe rimasto incastrato nel Triangolo delle Bermuda delle sue stesse incertezze appena otto giorni dopo, svanendo davanti ai nostri occhi in questo preciso momento.

[@portabletext/react] Unknown block type "imageExternal", specify a component for it in the `components.types` prop

Cosa sarebbe successo se Simmons avesse schiacciato quel pallone per due comodi punti?

Seppur per motivi drasticamente diversi, nessuno dei due ha più rimesso piede in un campo NBA da quel momento. Chissà quando lo faranno. Chissà se la spunterà prima la volontà di Simmons di andarsene da quel nido d’amore trasformatosi in covo di vipere o quella di Kyrie Irving di piegare i protocolli sanitari alle sue convinzioni. Vedremo prima Simmons vestire un’altra maglia oppure Irving scendere in campo, da no-vax convinto, per aiutare i suoi Brooklyn Nets falcidiati dalle positività alla COVID-19?




L’anno in cui a Phoenix è tornato a splendere il sole

Probabilmente la mia storia NBA preferita del 2021. Una franchigia notoriamente autolesionista, guidata dal miglior emule moderno di Kobe Bryant (Devin Booker) e dal giocatore scelto alla numero uno nello stesso Draft di Luka Doncic (Deandre Ayton), che diventa una delle organizzazioni più efficienti della lega grazie a un capo-allenatore (Monty Williams) e un giocatore (Chris Paul) arrivati in città con l’obiettivo di ricostruire le rispettive carriere.

È una storia dall’attrattiva potente, quella della classe operaia che arriva davvero (stavolta sì, ci siamo, eccolo…) a toccare la punta del paradiso, poi crollare sotto il peso della realtà e di un supereroe divenuto invincibile. È una storia di perdenti che realmente non lo sono, intrisa di quel romanticismo da celluloide che si sposerebbe a meraviglia con la penna di Aaron Sorkin. Nel frattempo che attendiamo la sceneggiatura del miglior film sportivo dai tempi di Moneyball, i Suns sono finalmente fuoriusciti dal tunnel di disperazione in cui si erano cacciati nel corso dell’ultima decade. E a giudicare da quanto visto in questo primo scorcio di stagione 2021-22, il sole dell’Arizona rischia di splendere ancora alto a lungo.




L’anno del divorzio tra James Harden e gli Houston Rockets

Quella tra James Harden e gli Houston Rockets è stata una rottura in piena regola. Prima un po’ di scaramucce verbali, poi gli sguardi truci di chi capisce che il legame si è spezzato, poi ancora i chili messi su durante il periodo della depressione, un paio di scappatelle a Las Vegas per non farsi mancare la dose di esagerazione infantile e spensieratezza, e per finire i lunghi mesi d’attesa, quelli delle pratiche burocratiche in vista del divorzio – o, si capisce, delle pedine da incastrare per comporre la mega trade a quattro squadre.

La trade del 2021.

Il matrimonio tra il Barba e i Rockets si era esaurito da tempo, forse da prima ancora dell’ennesima delusione playoff. Le partenze di Daryl Morey e Mike D’Antoni di sicuro non hanno aiutato, ma probabilmente anche per Houston era arrivato il momento di voltare pagina. Nella vita può capitare a tutti di sentire il bisogno di cambiare vita, niente di davvero eccezionale. A volte l’amore finisce e la cosa migliore da fare è dirsi addio e ripartire da capo. Questo non vuol dire che sia semplice: come dimostrano i risultati recenti dei Rockets o delle difficoltà di Harden nella sua nuova esperienza newyorkese, lasciarsi significa anche dover convivere con le difficoltà di un nuovo inizio.

Ma dopo otto anni di isolamenti immarcabili, triple in step-back e pisolini nella metà campo difensiva per Harden e i Rockets era tempo di dirsi addio. Perché come ci ci insegnano le relazioni moderne e i film della trilogia di Matrix: tutto quello che ha un inizio ha anche una fine (almeno fino a quando non ci si mette di mezzo la nostalgia).




I tre mesi in cui Zion Williamson è stato onnipotente

Nel periodo che va tra il 29 gennaio e il 3 maggio 2021, Zion Williamson ha segnato 28 punti di media a partita, servito 4.4 assist (!) a sera e tirato con una percentuale reale del 62% nonostante uno Usage maggiore del 25% (unico giocatore della lega a riuscirci) e la consapevolezza di essere braccato da un paio di avversari su ogni possesso.

Nello stesso periodo, con Zion in campo, i Pelicans viaggiavano a 120.5 punti per cento possessi – ovvero tre punti su cento possessi in più rispetto allo storico attacco dei Brooklyn Nets di Durant, Irving e James Harden – e sovrastavano gli avversari di 5.6 punti su cento possessi, un dato peggiore soltanto di quelli che Jazz, Clippers, Bucks e Suns hanno tenuto per tutta la stagione.

https://twitter.com/PelicansNBA/status/1442528521046351878?

Che sia già tutto finito?

Esisterà sicuramente una lunghissima parola tedesca che spieghi quello che Zion è in grado di fare, fisicamente e tecnicamente, quando è al suo meglio. Sicuramente esisterà anche una lunghissima parola tedesca che spieghi quello stato mentale che prende ogni appassionato NBA nel pensare che quei pochi mesi di Point Zion rischiano di restare un unicum all’interno della sua carriera. Che Traurigkeit!




L’anno in cui Mike Conley è diventato un All-Star ❤️

Finalmente, alla quattordicesima stagione da professionista! Uno dei momenti più teneri dell’anno.




L’anno in cui Russell Westbrook ha battuto il record di triple doppie

Lo scorso 10 maggio Russell Westbrook ha superato il record di 181 triple doppie di Oscar Robertson. Siccome è Russell Westbrook, lo ha fatto con una partita à-la-Robertson: 28 punti, 13 rimbalzi e 21 assist. Siccome è Russell Westbrook, lo ha fatto in una partita che la sua squadra nel finale ha perso di un punto. E siccome lui è il solo e unico Russell Westbrook, lo ha fatto in un misto di applausi e critiche.

Westbrook è un enigma. Lo è sempre stato: o lo si ama, o lo si odia. Un giocatore all’apparenza lineare, dotato di un gioco muscolare, possente ed esplosivo, ma con un sottotesto tecnico talmente florido da risultare impossibile da decifrare per intero. Westbrook è al tempo stesso barbaro e bizantino, tonitruante e capzioso, spettacolare e illusorio. Sembra sempre debba spaccare il mondo, con quei balzi immensi e quegli split scenografici; eppure, la sua intelligenza cestistica resta tutt’oggi oltremodo ricercata — ancora più ricercata dei capi d’abbigliamento nel suo armadio.

Per contesto, questa è la lista dei giocatori in grado di chiudere una partita con almeno 25 punti, 10 rimbalzi e 20 assist: Robertson (x 2), Westbrook (x 2) e Doncic – il quale, ironicamente, ci è riuscito lo scorso 5 gennaio proprio contro gli Wizards di Westbrook.

Non possedere un jumper ha finito col definirne la carriera, nel bene e nel male, ma mai quanto il suo mangiarsi le statistiche come fossero caramelle. Il problema con Westbrook è sempre questo: i numeri. Quando troppi, quando troppo pochi. Spero che Westbrook possa restare nell’immaginario collettivo come qualcosa di più sofisticato di uno “statpadder”, come si definiscono in genere questo tipo di giocatori sempre pronti a rimpinguare il proprio bottino. Lo spero perché sono convinto che Westbrook stesso sia ossessionato dai propri numeri, che li ami e li odi allo stesso modo in cui loro (cioè i numeri) lo hanno amato e odiato nel corso della sua carriera. «Mangiate anche questo, numeri. E sognate di aver ucciso un uomo».




L’anno in cui giocatori e tifosi non sono andati sempre troppo d’accordo

Magari la colpa è davvero di LeBron James, che dopo aver vinto tutto quello che si poteva vincere si è messo in testa di realizzare il proprio sogno nascosto di diventare un buttafuori, decidendo chi può stare a bordo campo a vedere una partita e chi no. Magari è colpa di Russell Westbrook, il quale si trovava proprio sotto alla postazione in cui a un malcapitato tifoso cadevano accidentalmente di mano dei popcorn. O forse aveva ragione Bill Burr, quando diceva che sbronzarsi agli eventi sportivi non è mai una grande idea.

Su una cosa, però, possiamo concordare tutti: pagare dei soldi (spesso tanti soldi) per andare a tirare una bottiglietta in testa a un giocatore professionista è una cosa di una stupidità incalcolabile. Una stupidità superabile solamente dalla stupidità di quelli che vanno a vedere le partite soltanto per sfogare il proprio odio razziale. Dal momento che le feste sono un periodo di unità e di celebrazione collettiva, dove tutti siamo notoriamente un po’ più buoni, facciamo in modo che questo 2022 ci porti in dote un rapporto più sano tra i giocatori NBA e il proprio pubblico?

Buon anno!




Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura