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Siete proprio sicuri che Kevin Durant non sia l’MVP?
21 dic 2021
21 dic 2021
L’inizio di stagione di KD è stato senza senso.
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12 min
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In un sondaggio non ufficiale realizzato da ESPN a inizio dicembre, il 94% degli interpellati tra i 100 che probabilmente voteranno per il premio a fine stagione hanno indicato Steph Curry come l’MVP se l’annata 2021-22 finisse oggi. Nella speranza che non sia la variante Omicron a mettere fine alla regular season prima del dovuto, si può dire che forse il sondaggio è stato un po’ prematuro — anche perché gli altri tre giocatori che hanno ricevuto almeno un voto per vincere il premio a fine anno hanno tutti alzato ulteriormente il livello del loro gioco.

Kevin Durant, in particolare, dal 10 dicembre in poi — giorno della pubblicazione del sondaggio — è stato semplicemente incontenibile, inanellando una serie di quattro prestazioni una più stupefacente dell’altra. Ha cominciato segnando 31 punti nel successo dei suoi Brooklyn Nets sul campo degli Atlanta Hawks, prendendosi la briga di marcare Trae Young e di andargli sotto pelle (quasi letteralmente) nel finale di gara. Ha proseguito realizzandone 51 in casa dei Detroit Pistons, a oggi la singola prestazione con più punti di questa stagione NBA, superando i 50 realizzati da Steph Curry contro gli Hawks a inizio novembre.

Se neanche le migliori squadre della NBA riescono a fermarlo, figuratevi di Detroit Pistons.

Dopodiché, con la squadra falcidiata dalle assenze per infortuni e per Covid-19, ha trascinato di peso i suoi alla vittoria dopo un tempo supplementare contro Toronto, chiudendo con 34 punti, 13 rimbalzi e 11 assist in una partita in cui nemmeno doveva scendere in campo (è alle prese con un problema alla caviglia) e nella quale ha finito per giocare 48 minuti e 11 secondi. Infine ha suggellato il tutto con altri 34 punti, 11 rimbalzi e 8 assist contro i Philadelphia 76ers — sempre con 7 compagni fuori per Covid-19 e con diversi scampoli di gara in cui ha condiviso il campo con quattro rookie, come non gli capitava addirittura dal 2010 (e al tempo una di quelle matricole era comunque James Harden).

Al termine della partita contro i Sixers, che KD ha deciso segnando due triple fulminanti dal palleggio per 13 punti nel solo quarto periodo, coach Steve Nash - dopo giorni in cui aveva cercato di schivare l’argomento del carico sulle spalle del suo numero 7 - ha dovuto ammettere che la situazione non poteva continuare così: «È un argomento molto importante: non so se possiamo continuare ad appoggiarci a lui come stiamo facendo. Non è la cosa giusta. So che si sta divertendo, è stato incredibile. Ma non è né sano né sostenibile continuare così. Dovremo trovare modi per concedergli delle pause».

Prima che anche Durant finisse nel protocollo salute e sicurezza contro il Covid-19, i Nets avevano preso la decisione di reinserire Kyrie Irving in squadra quantomeno per le partite in trasferta (d’altronde lo stanno ancora pagando 17 milioni di dollari per quelle, pur non avendolo in campo), cercando in questo modo di tappare le falle di una barca che continua a imbarcare assenze per Covid e soprattutto di alleggerire il carico a cui faceva riferimento Nash. Poi anche Irving è risultato positivo al primo tampone a cui si è sottoposto (ne doveva avere cinque negativi in fila per poter rientrare in squadra) e il piano è già stato rimandato, insieme alle due partite contro Denver e Washington, nella speranza di poter salvare almeno la partita di Natale che i Nets dovrebbero disputare — ormai il condizionale è d’obbligo — sul campo dei Los Angeles Lakers.

Nell’attesa e nella speranza che Durant possa tornare in campo il più presto, questa pausa forzata è forse il momento ideale per fermarsi un attimo e cercare di mettere in prospettiva quello che ha fatto nelle prime 27 partite di regular season disputate, perché a loro modo sono già un avvenimento storico.

Il miglior ritorno di sempre?

Un anno fa di questi tempi ci chiedevamo quale versione di Durant avremmo rivisto in campo. Prima di KD, infatti, l’unico giocatore a essere tornato ai suoi livelli dopo un infortunio gravissimo come la rottura del tendine d’Achille era stato Dominique Wilkins, che dopo essersi infortunato nel 1992 è stato votato per altre tre volte come All-Star viaggiando a quasi 28 punti di media nei successivi due anni, quando aveva già 33 e 34 anni — la stessa età di KD oggi. Tutti gli altri giocatori che hanno subito un infortunio del genere non sono riusciti a tornare ai livelli precedenti, e per quanto Wilkins sia da considerare una storia di successo, non era certamente un candidato MVP come lo è ora Durant.

Sin dalle prime partite dello scorso anno era difficile credere che fosse reduce da un infortunio così grave e da un anno e mezzo di inattività. Nelle prime sei partite ha viaggiato a 28 punti di media con 5 rimbalzi e 5 assist tirando sopra il 51% dal campo; tra gennaio e febbraio è salito addirittura a 32.2 con il 54% al tiro e il 45% da tre punti, andando in lunetta quasi 8 volte a partita. L’unico aspetto che ci ha permesso di ricordarci che fosse reduce da uno stop così grave è stato il suo faticoso recupero da un infortunio muscolare che gli ha fatto saltare quasi interamente i mesi di febbraio e marzo (37 partite saltate a fine regular season a fronte di 35 giocate), ma nei playoff è tornato nuovamente a terrorizzare il resto della NBA non segnando mai meno di 24 punti, con due picchi assurdi da 49 punti in tripla doppia in gara-5 e da 48 nell’overtime di gara-7 contro i Milwaukee Bucks, senza restare fuori neanche un singolo secondo di quelle due gare di secondo turno — non riuscendo ad avanzare alle finali di conference letteralmente per una questione di centimetri.

Non contento, Durant si è anche speso quest’estate per mettersi un’altra medaglia d’oro olimpica al collo (la terza in fila, pareggiando Carmelo Anthony) per poi cominciare la sua 14^ stagione NBA in campo dando la serissima sensazione che per lo status di miglior giocatore al mondo si giochi per il secondo posto dietro di lui. I 29.7 punti a partita a cui sta viaggiando quest’anno, oltre a essere il capocannoniere NBA, sono il terzo miglior dato della sua carriera dietro solamente al suo anno da MVP (32 di media nel 2013-14) e a poca distanza dalla stagione in cui aveva 21 anni (30.1 a partita). I suoi 7.1 tiri liberi tentati sono il numero più alto dal suo anno da MVP, un numero ancora più da sottolineare se si considera il netto calo di fischi in questa stagione NBA rispetto alla normalità. Soprattutto, i 37 minuti disputati a partita sono anch’essi il massimo dal suo anno da MVP, quando però la sua carta d’identità segnava 25 anni.

Anche andando a scavare nelle statistiche avanzate di Cleaning The Glass, Durant è ai massimi in carriera per quanto riguarda lo Usage Rate (32% di possessi utilizzati a partita, solo nel 2013-14 ne usava di più) ed è al top per quanto riguarda la percentuale di assist (26.9% quando è in campo), con un numero di palle perse sempre estremamente basso rispetto al volume di gioco che gli è richiesto e il minutaggio a cui è tenuto.

Il vero re della media distanza

Per quanto sia bravo a mascherarlo, questa “terza età cestistica” di KD è comunque diversa rispetto alle versioni che lo hanno preceduto a OKC e Golden State. Da quando gioca per i Nets — cioè dopo l’infortunio al tendine d’Achille — Durant non arriva più al ferro come faceva un tempo, e i suoi tentativi nell’ultimo metro di campo rappresentano meno del 20% del suo totale (erano sempre stati sopra il 22%, con il picco del 32% nel primo anno sulla Baia). Paradossalmente, anche i tentativi dall’arco non sono mai stati così pochi: solo nei primi tre anni nella lega e nel 2012-13 aveva tenuto meno del 22% della sua “dieta” di tiri da dietro l’arco, per quanto la precisione sia sempre ad alti livelli (39% da tre in stagione).

Durant ha compensato l’età che inevitabilmente avanza aumentando ancora di più la sua dieta di tiri dalla media distanza, che rappresentano il 62% delle sue conclusioni. O meglio, una particolare tipologia di tiri dalla media distanza: quelli presi tra il semicerchio dello sfondamento e la linea del tiro libero, una zona di campo sempre più esplorata dalle squadre NBA specialmente con i floater. Già lo scorso anno KD aveva scollinato sopra il 30% delle sue conclusioni da quella distanza, salendo ulteriormente al 37% quest’anno; soprattutto, però, mantiene delle percentuali di realizzazione semplicemente insensate per quel volume di tiro, mantenendosi stabilmente sopra il 50%, che diventa un assurdo 58% (massimo in carriera) nei cosiddetti long 2s. Durant sta facendo per il tiro dalla media quello che Curry ha fatto per le triple: ridefinisce il concetto di cosa sia un buono e un brutto tiro.

Peraltro la difficoltà dei suoi tentativi è più o meno sempre questa, con gli avversari aggrappati sotto di lui mentre si alza in aria come un semidio. Tenta oltre 12 tiri da due punti a partita con un avversario entro un metro di distanza: la sua percentuale di realizzazione è un assurdo 53.6%

KD è sempre stato tra i più vocali leader del movimento “anti triple & ferro a tutti i costi”, sostenendo che le stelle dovessero essere libere di prendersi le proprie conclusioni seguendo il proprio istinto e non sottostando ai dettami delle statistiche avanzate. Le quali, peraltro, non si sono mai sognate di negare un tiro dalla media distanza a uno come Durant (o Dirk Nowitzki, o Chris Paul per quel che vale): sono tutti gli altri, i cosiddetti role player, che dovrebbero evitare il più possibile di prendersi quelle conclusioni che le difese accettano più che volentieri.

La prolificità senza pari di Durant dalla media distanza si inserisce poi in un discorso più ampio su dove stanno andando gli attacchi della NBA. In un interessantissimo articolo di qualche settimana fa, Zach Kram di The Ringer ha analizzato una tendenza sempre più persistente nella NBA di questa stagione: una dieta di tiri “analitica” (cioè basata soprattutto su triple e tiri al ferro) non è più predittiva di un attacco efficiente, anche perché tutti hanno imparato il trucchetto e non esiste più una squadra che non sappia quanto sia importante mantenere alti i tentativi da tre punti. “Quando la selezione di tiri di tutti è super, allora nessuna lo è” si legge nel pezzo, nel quale viene fatto notare come gli Spurs — ultimi da tre punti nell’attuale regular season con 29.5 triple tentate per 100 possessi — sarebbero stati secondi in NBA non più tardi del 2014-15, anno in cui gli Houston Rockets hanno scavallato per la prima volta oltre le 30 triple tentate per 100 possessi.

Se la selezione di tiri non è più un vantaggio, quello che fa davvero la differenza è la capacità di segnare quei tiri — cioè lo shot making, la qualità che maggiormente si cerca ad esempio in fase di Draft. E visto che solo le stelle si prendono tiri dalla media distanza, avere un alto numero di tentativi da quella zona di campo non è più una “zavorra” per l’efficienza complessiva della squadra, proprio perché sono in grado di mantenere alte percentuali da quella zona di campo. I Nets, in particolare, oltre a Durant hanno anche un altro specialista come LaMarcus Aldridge, capace di tirare con il 56% da quella zona di campo da cui prende quasi il 70% dei suoi tiri.

Durant basta e avanza per vincere l’Est?

Limitare l’impatto di Durant solamente ai tiri dalla media distanza però sarebbe una semplificazione del suo gioco, che non è mai stato così tanto sfaccettato. I Nets infatti, complice l’assenza di Kyrie Irving e la partenza a rilento di James Harden, gli chiedono semplicemente di essere tutto: non solo la punta di diamante offensiva, ma anche il giocatore che mette in ritmo i compagni (con quasi 6 assist a partita siamo ai massimo in carriera) e quello che li tiene in piedi dal punto di vista dell’efficienza. Senza Durant in campo i Nets segnano 11.5 punti su 100 possessi in meno rispetto a quando c’è, ma soprattutto segnano dal campo con quasi 9 punti percentuali in meno — il numero più alto di tutta la NBA, anche peggio dei Denver Nuggets quando esce Nikola Jokic o Golden State nei minuti senza Curry, giusto per rimanere ad altri due candidati MVP.

Tutto il meglio del mese di novembre di KD, che potrebbe puntare anche al bis a dicembre.

Soprattutto Durant rappresenta la chiave difensiva per poter reggere con quintetti molto spesso sottodimensionati. Steve Nash preferisce di gran lunga giocare con un solo lungo “di ruolo” tra i vari Aldridge, Blake Griffin, Paul Millsap e Nic Claxton, consapevole che avere Durant in posizione di 4 (anche per proteggerlo un po’ lontano da canestro, dove non muove i piedi benissimo) gli permette di reggere a rimbalzo e di creare mismatch favorevoli in attacco. Se lo scorso anno i Nets erano 24esimi a rimbalzo difensivo, quest’anno sono vicini alla media NBA al 18° posto e con KD in campo ne concedono il 5% secco in meno, uno dei migliori dati di tutta la lega. E se a livello di percentuali al ferro i numeri sono in linea con lo scorso anno, gli avversari tirano di meno e nettamente peggio nei dintorni del canestro quando le sue braccia chilometriche sono nei paraggi.

C’è poi tutto il discorso emozionale che comporta avere uno come Durant dalla propria parte. Con lui in campo i Nets sanno di avere quantomeno una chance di poter vincere qualsiasi partita, anche quelle come contro Toronto e Philadelphia nella quale hanno avuto a disposizione solamente Mills, la buonanima di Blake Griffin (che era finito fuori dalla rotazione di Nash per scelta tecnica), Nic Claxton (che ha autonomia limitata) e quattro rookie come Cam Thomas (acerbo), Day’Ron Sharpe (mai utilizzato), e due two-way come David Duke Jr. e Kessler Edwards. Con questo supporting cast Durant è comunque riuscito a cavare fuori altre due vittorie, e se si mette in prospettiva tutto — considerando le condizioni di Harden, i tanti volti nuovi in squadra e le assenze (non solo Irving, ma anche l’infortunio alla caviglia di Joe Harris) — il primo posto a Est è un risultato tutt’altro che scontato o banale.

I Nets sono primi nella Eastern Conference con due gare di vantaggio sulla seconda e nessuno ha vinto più di loro in trasferta (11 successi su 14), anche se il record contro le squadre sopra il 50% è solo di 7-7 con alcune sconfitte pesanti contro future rivali ai playoff come Milwaukee, Miami e Chicago (due volte) e dell’altra conference come Golden State e Phoenix in una eventuale finale NBA. È in quelle partite in particolare che si è sentita la mancanza di Irving, che al netto di tutto riusciva ad elevare il rendimento offensivo della squadra a vette di shot-making impossibili da pareggiare per le altre squadre, specie quando Harden è stato il vero Harden. Ed è a quello che si aggrappano in prospettiva playoff, a cui comunque l’obiettivo numero uno è arrivare in salute, se non proprio al completo.

I casi di positività in squadra e l’eventuale ritorno di Irving part-time rendono impossibile prevedere come procederà la stagione dei Nets, ma quello che rimane è che in questo primo terzo di stagione Durant ha giocato a livelli celestiali, che probabilmente in altre stagioni senza altri tre candidati così forti come Curry, Jokic e Giannis Antetokounmpo gli sarebbe valso una chiara pole position per il secondo premio di MVP in carriera. Ma è anche il bello della NBA: il livello del talento è talmente alto che nemmeno un All-Time Great come Kevin Durant al picco del suo rendimento può essere considerato senza dubbio il miglior giocatore della lega.

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