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Vincere rimanendo fedeli a se stessi
21 lug 2021
21 lug 2021
I Milwaukee Bucks sono diventati campioni NBA senza snaturare quello che sono, nonostante le pressioni esterne.
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Foto di Joe Murphy/NBAE via Getty Images
(foto) Foto di Joe Murphy/NBAE via Getty Images
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Chissà se durante il suo ultimo giro in lunetta, segnando il libero che gli ha permesso di arrotondare il proprio tabellino personale a 50 punti, Giannis Antetokounmpo ha ripensato a questo suo tweet. https://twitter.com/Giannis_An34/status/489587746063650817?s=20 Ci sono voluti quasi otto anni esatti per trasformare il messaggio di un ragazzo euforico che stava scoprendo i suoi superpoteri in una profezia mistica - e anche un po’ sinistra: segnare 50 punti esatti nella partita che restituisce il titolo a Milwaukee dopo 50 anni esatti dal primo e unico titolo è quantomeno assurdo -, ma il fresco MVP delle Finals 2021 ce l’ha fatta davvero. Al termine di una stagione NBA complicata, tortuosa, incerta, emozionante, e rinvigorente, iniziata con gli spalti vuoti e chiusa con i 65.000 del Deer District in delirio fuori da un palazzo gremito e palpitante, i Milwaukee Bucks sono campioni NBA. La storia sa essere spietata e meravigliosa, un po’ come le prestazioni di Antetokounmpo in queste Finals, o come la cavalcata trionfale della franchigia, arrivata a chiudere un cerchio iniziato tre anni fa con l’arrivo di Mike Budenholzer come allenatore. Rimettete l’orologio indietro al 20 maggio 2019. I Bucks sono sopra 2-0 contro i Toronto Raptors nella finale di conference dell’Est. Hanno vinto 10 partite su 11 ai playoff e 62 partite su 82 in regular season. Il secondo supplementare è iniziato da pochi secondi quando Pascal Siakam penetra procurandosi il sesto fallo della partita di Antetokounmpo, innescando un domino di eventi che porterà Toronto a ribaltare la serie e vincere il più inaspettato dei titoli NBA. Un’altra squadra avrebbe visto chiudere il proprio ciclo in quella disfatta; una squadra meno testarda e ispirata si sarebbe sciolta, sarebbe calata – e la bruttissima campagna playoff 2020 nella bolla di Orlando aveva tutta l’aria di aver calato il cartello Fine.Invece i Bucks hanno continuato a crederci. Hanno saputo trasformare il dominio da regular season in una mentalità vincente, ribaltando i problemi strutturali di una squadra tanto forte quanto idiosincratica in livelli da superare per scalare la vetta. E la paura per il possibile abbandono di Giannis a fine stagione nel coraggio per spingere tutte le fiches al centro del tavolo nel tentativo di migliorare ulteriormente la squadra aggiungendo i giusti tasselli. Jrue Holiday, ovviamente, ma anche quei PJ Tucker e Bobby Portis così preziosi in questi playoff. E se è vero che la fortuna aiuta gli audaci, allora i Bucks sono stati spietati e chirurgici nel costruirsi la propria meravigliosa cavalcata playoff, partendo dal scacciare i fantasmi del passato (bastonando Miami al primo turno con un secco 4-0) e finendo per rimontare per ben due volte da 0-2 (unici insieme agli L.A. Clippers a riuscirci nella storia della NBA), infliggendo ai Phoenix Suns la stessa medicina ricevuta da Toronto, trasformando una stagione iniziata senza i favori del pronostico in un capolavoro. L'intensità di una gara decisivaDopo aver compiuto l’impresa in gara-5 andando a vincere sul difficilissimo campo dei Suns, che avevano perso solo due volte tra le mura amiche in questi playoff, i Bucks avevano un match point da non sprecare. L’elettricità di un pubblico in delirio può gasarti ma anche farti sentire l’onore del peso della corona. E infatti nei primi minuti la partita vede le due squadre estremamente contratte, che si scambiano più palle perse che canestri, con i Bucks che rimangono a contatto più grazie alla scarsa vena realizzativa dei Suns che per loro meriti. Phoenix infatti riesce a creare buoni tiri con una fluidità più simile a quella di inizio serie che alle ultime brutte uscite ma non riesce a capitalizzare, sparando a salve dal perimetro. Le 14 triple sbagliate da Jae Crowder e Devin Booker non puniscono il piano partita di coach Budenholzer, che puntava a riempire l’area a tutti i costi e a sperare nelle percentuali al tiro dei comprimari in maglia arancione, costringendo i Suns a giocare la partita fisica che Milwaukee predilige.

Non solo Crowder ha sbagliato cinque delle ultime sei triple tentate in partita, ma Booker ha chiuso la sfida con 0/7: uno svantaggio troppo ampio per poter vincere la partita alle regole dei Bucks.

Sebbene sia Chris Paul che Devin Booker siano dei maestri nell’agire dalla media distanza, il loro eccessivo accento su un gioco basato sugli isolamenti in quella terra di mezzo tra l’arco e il ferro ha permesso ai Bucks di imprimere un grado di fisicità maggiore sulle partite, sfruttando il maggior atletismo e la superiore stazza per lavorare ai fianchi la squadra di coach Williams. Phoenix è stata più brava nel portare primo e secondo blocco sulla palla nel corso di gara-6, costringendo la difesa ad accettare cambi spiacevoli che sono risultati in tiri più comodi, soprattutto per CP3, l’ultimo ad arrendersi dei suoi. Ma la poca fluidità di uomini e pallone dell’attacco Suns ha consentito ai Bucks di continuare col proprio canovaccio, restando dentro la propria confort zone pitturata sotto il canestro, un particolare nel quale sono sempre stati inarrivabili sotto la gestione Budenholzer.Per ogni penetrazione tentata dai vari Mikal Bridges, Jae Crowder e compagnia, mani e braccia avversari comparivano da ogni dove. E per ogni ricezione di Deandre Ayton il polpo difensivo di Milwaukee si chiudeva come attorno a uno scrigno. Il lavoro fatto contro il centro bahamense è stato eccezionale nel trasformare quello che è stato il segreto tattico dei Suns per tutta la stagione in un problema per la stessa Phoenix, quantomeno in quest’ultima partita.Complice l’infortunio di Dario Saric che ha compromesso la flessibilità decisionale del coaching staff, Phoenix si è trovata ben presto a non avere altri corpi da mandare contro Giannis oltre a quello della prima scelta assoluta del Draft 2018. Ma oltre allo scontro impari tra i due (culminato nel dominio assoluto del greco di stanotte), coinvolgere Ayton sulla palla ha permesso ai Bucks di fare il vuoto a rimbalzo d’attacco, fondamentale dove hanno ribaltato l'indirizzo della serie. Catturando il 31.5% dei propri tiri sbagliati (!) Milwaukee ha finito col tentare 42 tiri dal campo e 35 liberi in più degli avversari, un dato che ha concesso ai nuovi campioni NBA di restare a contatto anche in quelle partite in cui l’attacco non è stato all’altezza della situazione.

Da mettere sotto la definizione di “dominio”.

Vinceredi forzaI Bucks sono la prima squadra dai Los Angeles Lakers del 2009-10 a vincere il titolo nonostante una serie finale in cui hanno tirato peggio degli avversari dal campo, da tre e ai liberi. Un dettaglio, questo, che rappresenta nel modo migliore l’evoluzione della squadra: i Bucks in questa post-season sono tornati a vincere una partita tirando sotto al 25% da tre punti, cosa che non facevano dalla gara-1 contro Toronto dei playoff 2019. Non solo: delle 8 partite con una percentuale simile o peggiore dal perimetro, Milwaukee ne ha portate a casa ben cinque nel corso di questi playoff e tutte e cinque sono state partite decisive. La gara-1 contro Miami finita al supplementare (16% da tre, praticamente una continuazione della serie dello scorso anno ma con diverso finale), gara-3 e gara-6 contro Brooklyn (una sconfitta in una delle due avrebbe significato eliminazione), nella gara-4 di queste Finals che ha definitivamente girato serie e titolo dal punto di vista mentale e infine nell’ultima partita della stagione, la gara-6 di ieri notte.In queste occasioni però i Bucks sono sempre riusciti a trovare il canestro quando serviva, in tutti quei momenti in grado di sbilanciare l’esito finale di una partita a loro vantaggio. E oltre ad Antetokounmpo, i cui 20 punti nel terzo quarto sono un balsamo per tutti coloro che ambiscono al remix della pallacanestro anni ’90, e alle altre due stelle Khris Middleton e Jrue Holiday, i Bucks hanno ricevuto un grande contributo anche dalle loro seconde (o forse terze) linee, in particolare da Bobby Portis e Pat Connaughton.C’è un momento molto significativo nel primo quarto di gara-5, una fotografia di tutta la serie: i Suns stanno producendo il loro massimo sforzo offensivo e conducono per 32-18, ma non appena Ayton perde palla i Bucks sono pronti a ripartire, lanciando la transizione di Giannis, il quale, con ordine e precisione, trova Pat Connaughton libero nell’angolo per una tripla fulminante. E tre giorni dopo, con l’ex Notre Dame a fare virgola (il peggiore dei suoi per distacco nella partita di stanotte dopo una grande serie a livelli individuale), è toccato di nuovo a Bobby Portis fare la differenza. Arrivato nella speranza di allungare le rotazioni di un roster ingessato dai contratti delle stelle, Portis è finito col diventare, attraverso i suoi occhi à-la-Schillaci, l’elettricità sulla quale si è mossa tutta la città del Wisconsin negli ultimi due mesi. I suoi 16 punti con dieci tiri sono solo la punta di un iceberg d’intensità tracimante, capace di fargli muovere i piedi anche nella metà campo difensiva.

Se Bobby Portis è stato il giocatore con il miglior Net Rating delle Finals (+12.0) è anche grazie a canestri difficili e pesanti come quelli del quarto periodo di gara-6.

Si dice sempre che la NBA è una hit o miss league ma raramente riusciamo davvero a comprendere la differenza tra il primo e il secondo evento. Quanti tifosi dei Suns avrebbero messo la firma per concludere una partita delle Finals col 55% dal campo e il 68% da tre? Il diavolo si nasconde nei dettagli, e così i titoli NBA. Un infortunio (James Harden e Kyrie Irving, ma anche quello di Giannis, qualora fosse stato più serio) può fare la differenza al pari di un numero in più o in meno di scarpe. Mike Budenholzer sembrava più volte vicino all’esonero, e invece oggi festeggia il primo titolo da capo-allenatore. Lo stesso Antetokounmpo, più volte vilipeso per i suoi limiti tecnici, che nella partita più importante della propria carriera ha messo insieme un clinic di quella che è stata la sua evoluzione (non tanto in carriera quanto proprio nel corso di questi playoff), trasformandosi da Prototipo di LeBron 2.0 in una fusione spietata (e meravigliosa) tra l’ultimo Anthony Davis e Shaquille O’Neal… siamo sicuri che i suoi miglioramenti verrebbero notati, apprezzati e celebrati come sta succedendo ora, nel caso in cui uno solo degli eventi descritti sopra fosse girato dalla parte sbagliata? https://twitter.com/Bucks/status/1417710800584646659?s=20 Come si perde con onoreDall’altra parte Phoenix ha visto la propria coperta ridursi di quarto in quarto. Oltre a Cam Payne, i Suns non hanno potuto contare sull’apporto di nessun panchinaro, al punto che l’impatto positivo del proprio quintetto base veniva sempre rispedito al mittente non appena arrivava il momento di farlo rifiatare. Coach Monty Williams non ha avuto la libertà di togliere dal campo Devin Booker (-37 di Net Rating negli appena 40 minuti trascorsi fuori dal campo nella serie) nonostante in alcune serate abbia faticato al tiro, e non è mai riuscito a trovare una soluzione sostenibile quando i problemi di falli di Ayton hanno lasciato la squadra in balia dei muscoli avversari, per quanto Frank Kaminsky abbia portato a casa lo 0-0 questa notte (plus-minus neutro in 11 minuti). https://twitter.com/NBA/status/1417706455281684482?s=20

Il bellissimo discorso di congratulazioni agli avversari di Monty Williams, al termine della partita.

Nonostante i problemi, i limiti, e la consapevolezza interiore di un destino che appariva segnato, i Suns hanno comunque continuano a battersi con orgoglio. L’impatto positivo di Kaminsky nella ripresa, sommati ai giochi da 4 punti di Crowder del terzo e da tre punti di Paul nel quarto periodo hanno permesso agli ospiti di restare aggrappati all’ultima fiammella di speranza. Purtroppo per loro non è servito, ma se è vero che perdere è il miglior modo per poter vincere, i Suns hanno dimostrato di non essere soltanto una squadra allenata benissimo, capace di intarsiare arabeschi di una pallacanestro corale e piacevole da vedere, con un roster giovane - al netto dei 36 anni di Paul - e con margini di crescita, ma di essere una squadra disposta a lavorare per continuare a salire di livello.Le parole di Monty Williamse quelle di Booker in sala stampa sono incoraggianti in vista del futuro, soprattutto perché, oltre allo spessore umano dei due, aggiungono una prospettiva più equilibrata a quella che è stata una stagione anfetaminica. In appena 18 mesi Phoenix è passata dai bassifondi della lega all’assaporare il gusto dell’oro, inebriandosi di un’eccitazione che in Arizona non si vedeva da anni e mettendo insieme dei playoff di assoluto rispetto. A discapito dei possibili asterischi sugli infortuni delle avversarie, l’aver eliminato in fila le tre migliori squadre della propria conference pone grosse aspettative sul futuro (il quale, al momento, è incerto data la situazione contrattuale di Paul) ma dimostra anche che la squadra è matura e organizzata quanto serve per stare nell’aristocrazia della lega.Soprattutto qualora Devin Booker finisse con utilizzare l’esperienza maturata nella sua prima post-season come un carburante per alimentare la sua innerMamba Mentality. Raramente, nel corso degli ultimi anni, si è visto un giocatore capace di segnare canestri simili in quella che, quando il livello sale, resta la porzione di campo più decisiva, il midrange. È vero che la sua convivenza con Paul è finita in calando, con delle Finals che per ovvi motivi lasceranno un sapore amaro (anche in vista della free agency), ma se c’è una lezione da imparare da questa stagione è che la presenza di un floor general amplifica nettamente l’impatto di una guardia che ha bisogno di entrare in ritmo senza doversi obbligatoriamente preoccupare dei parametri di squadra. Certo, il non aver registrato un singolo assist nel corso del quarto periodo di tutta la serie fino a gara-6 (quando ne ha realizzati due) è un possibile campanello d’allarme, ma le squadri forti si distinguono per avere una chiara divisione dei ruoli e quello di Booker è di sfruttare la propria spietata consistenza tecnica per trasformarsi in un Terminator da canestri.

Una delle poche cose belle di Booker, in una gara-6 da 8/22 al tiro.

Come si diventa ReDall’altra parte i Bucks hanno vinto il titolo che volevano e forse dovevano vincere, dopo aver eliminato Brooklyn in quella maniera rocambolesca. E ci sono riusciti alle loro condizioni tecniche e filosofiche, dimostrando che quelli che erano considerati i loro limiti potevano diventare i loro punti di forza, con gli aggiustamenti di roster e schemi. Milwaukee ha giocato la propria pallacanestro rimanendo fedele ai propri principi e alle proprie convinzioni, che si reggono su un sistema eliocentrico attorno a Giannis Antetokounmpo. Una centralità non confinata solo al campo di gioco ma che si riverbera in ogni aspetto della franchigia del Wisconsin, dove il fuoriclasse greco ha riportato il titolo dopo cinquant'anni tenendo fede a quanto aveva promesso otto anni fa. Alle sue regole, al suo modo.Se qualcuno aveva ancora dei dubbi sull’autenticità di Antetokounmpo questi playoff li hanno spazzati via in modo inesorabile. E se oggi il suo titolo appare quello di un predestinato, certamente la sua ascesa era tutt’altro che prevedibile. Qualcuno ha detto che la storia di Giannis è il film Pixar perfetto, dall’Acropoli di Atene al tetto del mondo cestistico senza mai perdere la determinazione e il sorriso. Ma chiunque in questi Bucks campioni ha una storia da raccontare. L’eterno assistente Budenholzer finalmente legittimato dalla vittoria. L’ex All-Star Brook Lopez che vince il primo titolo a 33 anni dopo una carriera che ha seguito una parabola simile a quella delle sue triple da otto metri: lenta, improbabile e inesorabile allo stesso tempo. Il giramondo PJ Tucker, che nel più dantesco dei viaggi sale sul gradino più alto del podio a 36 anni dopo aver eliminato uno dietro l’altro tutti i suoi vecchi compagni di squadra ai tempi dei Rockets 2018 (Ariza, Harden, Capela e Paul). E poi ancora l’eterno sottovalutato Holiday, l’ex giocatore di baseball Connaughton, l’eroe della folla Portis, il santino portafortuna Jeff Teague, la cui presenza a roster farà sicuramente sorridere coloro che guardando quella Atlanta (anch’essa allenata da Budenholzer) si illudevano che la NBA potesse andare a bagnarsi anche nei porti più piccoli e periferici del sistema.Probabilmente nessuno, però, rappresenta questo titolo più e meglio di Khris Middleton. Non soltanto il suo arrivo a Milwaukee combacia alla perfezione con quello di Giannis, in quell’estate del 2013 in cui gli astri hanno iniziato ad allinearsi, ma la sua composure, il suo “buonismo” tecnico, la sua capacità di elevarsi nei momenti più difficili senza mai apparire ridondante, piazzando le giocate vincenti e necessarie ma restando sempre ancorato a un ruolo da perfetto secondo violino, sono la linfa vitale di cui questa squadra aveva bisogno – Giannis in primis – per esplodere davvero. Il suo viaggio dalla G-League al titolo NBA è la rappresentazione plastica di quel anything is possible di cui tutta Milwaukee si sta appropriando in vista della parata celebrativa.Vincere un titolo NBA è difficile. Estremamente difficile. Vincerlo secondo le proprie convinzioni è qualcosa di ancora più complicato. I Bucks volevano contrapporre la propria Super Squadra ai Super Team sparsi per la lega. Adesso possono dire di esserci riusciti.

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