Sam Hinkie è stato definito in moltissimi modi: un visionario, un genio, un pazzo, un talebano, un malato, l’unico che ci ha capito qualcosa. Quello che ha fatto a Philadelphia è un esperimento di cui si parlerà per moltissimo tempo: approfittando di una scappatoia in un sistema tutt’altro che perfetto come la Lottery del Draft, ha cercato di sfruttare questa falla per mettere le mani su un giocatore franchigia, un talento generazionale, quell’Hall of Famer senza il quale è impossibile mettere le mani su un anello. E così sono iniziati i controversi anni del “Process”, con i tifosi di Philly succubi della sindrome di Stoccolma che aderivano sempre più in massa al processo instaurato, convincendosi che un giorno tutto quel dolore avrebbe portato a qualcosa e che mezzi giocatori potessero evolvere in qualcosa di più di quanto la loro acredine facesse vedere (K.J. McDaniels, Tony Wroten, Michael Carter-Williams…).
Il resto della NBA invece si divideva: c’era chi odiava quello che stava facendo Hinkie, chi lo riteneva geniale e chi, come me, lo riteneva geniale e lo detestava allo stesso tempo. Ma oggi, vedendo Ben Simmons e Joel Embiid calcare lo stesso parquet è impossibile non pensare che il “Process” abbia funzionato: Philadelphia ha tutte le carte necessarie per diventare la miglior squadra NBA nel giro di qualche anno, infortuni permettendo. Hinkie ha pagato la sfacciataggine con cui ha presentato il suo progetto più che la sua applicazione, ma i 76ers adesso possono davvero vederne maturare i frutti.
La fortuna alla Lottery e al Draft possono spostare di molto il giudizio sulla storia di una franchigia: i 76ers potevano uscire da questi anni con Giannis Antetokounmpo, Embiid, Kristaps Porzingis, Simmons e Jayson Tatum, tutti giocatori ancora disponibili al momento delle loro chiamate al Draft, e avrebbero costretto il mondo a guardare impotente il loro dominio per anni. Ma allo stesso modo sarebbero potuti finire con Carter-Williams, Jabari Parker, Jahlil Okafor, Brandon Ingram e Markelle Fultz (su cui ovviamente occorre sospendere qualsiasi giudizio). I risultati a Philadelphia sono stati una media tra i due estremi, aiutati dal fatto che l’allenatore si è dimostrato all’altezza, pochi giocatori sono rimasti scottati dal loro sotto-utilizzo o dai riposi forzati, e adesso stiamo assistendo alle prime pagine del lieto fine.
I Phoenix Suns sono l’esempio di come le cose, sebbene possono puntare verso la giusta direzione, possono comunque deragliare e finire malissimo. E se il “Process” si è concluso in tempi relativamente brevi, #TheTimeline – l’hashtag con cui i tifosi dei Suns e alcuni giocatori su Twitter abbracciano sotto sindrome di Stoccolma la fase di rebuilding – sembra allungarsi a dismisura ogni mese che passa.
A pensarci bene i Suns hanno idealmente fatto le stesse scelte che hanno fatto i Sixers (e che qualunque squadra in ricostruzione deve affrontare): hanno scambiato veterani per asset più futuribili; hanno ammassato scelte al Draft; hanno massimizzato le loro speranze in Lottery e sperato di pescare quel giocatore che passa una volta ogni 30 anni. Le sostanziali differenze con i Sixers si possono però raggruppare in tre sottocategorie: il tempismo delle operazioni completate è stato sempre sbagliato; la scelta dell’allenatore e dell’amalgama di squadra è fallita; la fortuna in fase di Lottery è sempre venuta meno.
Carpe Diem
In una metafora oltremodo calzante scritta in un articolo di Ben Falk, si fa il paragone tra le scelte che una dirigenza NBA deve compiere e la speranza di trovare parcheggio il venerdì sera. Quando mancano 800 metri al luogo dove dovete andare vedete un parcheggio libero, cosa fate? Vi fermate e vi accontentate di fare della strada a piedi o andate avanti sperando di trovare un parcheggio più vicino? A volte questo parcheggio lo si trova proprio davanti al locale, altre pochi metri prima, altre volte non lo trovate nemmeno molte centinaia di metri dopo e dovete tornare indietro con l’auto, perdendo molto più tempo di quanto avreste impiegato parcheggiando prima e andando a piedi.
Da quando Ryan McDonough ha assunto il ruolo di GM di Phoenix nel 2013 sono stati pochissimi i parcheggi trovati al posto giusto, molto più spesso però il parcheggio trovato era quello proprio sotto casa e altre volte si è finiti direttamente in tangenziale in ora di punta sperando di trovarlo un pò più avanti. Scambiare Jared Dudley e Marcin Gortat nel 2013 per Eric Bledsoe e una scelta in lotteria sono state due ottime mosse di mercato eseguite al momento giusto; firmare Isaiah Thomas quando i Sacramento Kings non volevano più averci a che fare a un contratto risibile è stato un vero e proprio colpo di fortuna. Ma le tempistiche sono state sbagliate tutte le altre volte.
McDonough ha esitato oltremodo a cedere Goran Dragic fino a quando la bolla è stata fatta esplodere a due giorni dalla deadline e con la scelta ristretta a tre squadre. Un vero e proprio colpo da maestro ha permesso ai Suns di ottenere comunque un pacchetto notevole (due prime scelte, una scelta protetta top-7 al prossimo Draft e una completamente non protetta nel 2021). Hanno ceduto molto prima del necessario Isaiah Thomas, preferendo non aggravare la situazione di amalgama non ottimale creatasi con l’Hydra a tre teste formata da Dragic, Bledsoe e IT assieme, raccogliendo solo una prima scelta a fine giro dai Celtics, senza voler verificare come il giocatore avrebbe performato con un minutaggio più elevato. La macchia più grande è stata sicuramente quella di non aver trattenuto la scelta non protetta dei Lakers, che verrà raccolta quest’anno da Celtics o Sixers, per mettere le mani su Brandon Knight, che da allora si è rivelato probabilmente il peggior giocatore dell’intera NBA. A contorno alla serie di “cose successe decisamente troppo tardi”: cedere Markieff Morris circa 9 mesi dopo essersi accorti che era dannoso per l’ambiente; aspettare due mesi dalla scadenza del contratto di P.J. Tucker per provare a cederlo; concedere quattro anni di contratto totalmente garantiti ad un Tyson Chandler già 33enne.
Ovviamente la peggiore di queste situazioni di tempismo sbagliato si è potuta ammirare nella sua maestosa e tragicomica inadeguatezza con l’affaire Bledsoe conclusosi pochi giorni fa. Bledsoe era arrivato a Phoenix via trade quando al tempo era solo la riserva di Chris Paul ai Clippers, ma ai Suns la sua carriera è fiorita dimostrando di essere un titolare NBA, fino ad arrivare all’anno scorso in cui, per cifre e rendimento, ha raggiunto uno status di borderline All-Star. I Suns, per massimizzare le chance in Lottery, hanno deciso di non farlo giocare nelle ultime 16 partite della stagione nonostante fosse perfettamente abile e arruolabile – cosa che ovviamente non ha fatto piacere a Bledsoe, come suppongo non può averla fatta a tutti i giocatori ritrovatisi nella sua stessa situazione nel corso degli anni.
In estate secondo un’intervista rilasciata da McDonough, Bledsoe – sebbene non fosse contento per essere stato costretto a riposo forzato – si era detto ansioso di iniziare la nuova stagione con la nuova squadra. Durante la preseason, secondo il beat writer dei Suns John Gambadoro, avrebbe invece richiesto di essere scambiato altrove. Infine, dopo tre gare di regular season in cui è stato semplicemente imbarazzante, ha twittato l’ormai famoso “I don’t wanna be here”, giustificandosi il giorno dopo in privato dicendo di essere rimasto bloccato dal parrucchiere con la moglie (sigh).
Nelle tre partite giocate non solo è sembrato non all’altezza dei suoi standard, ma l’atteggiamento era proprio di menefreghismo completo. Persino dopo questo tentativo Watson lo ha tenuto comunque in campo.
La situazione grottesca e quel lieve sentore che vagamente faceva intuire di essere presi in giro hanno portato all’esclusione dalla squadra fino a futura trade, che è avvenuta quando i Bucks hanno messo sul piatto il contratto di Greg Monroe e una prima scelta futura. Bisogna comunque riconoscere che il caso Bledsoe è stato aggravato dalla situazione che lo circonda: Bledsoe è rappresentato da Klutch Sports, aka Rich Paul, aka l’agente di LeBron James, che è noto nei circoli per la ricerca di ogni situazione possibile per avere un qualsiasi vantaggio, e alcune voci riportavano che Bledsoe avesse richiesto un prolungamento contrattuale negatogli dai Suns. «Penso che sia un bravo ragazzo, ma che sia male consigliato» sono le parole pronunciate dal GM, a metà tra la sincerità e l’ingenuità. Per onor di cronaca occorre segnalare che anche Earl Watson è un cliente di Klutch Sports, e il tweet dal parrucchiere di Bledsoe è avvenuto esattamente quando stavano uscendo le indiscrezioni di licenziamento dell’allenatore. Non è detto che le due cose siano collegate, ma un’interdipendenza non è certamente da escludere a priori.
Seppur con tutte le attenuanti del caso i Suns non hanno mai ottenuto il massimo possibile da un giocatore (se si escludono due casi estemporanei), e sebbene il ritorno ottenuto non fosse terribile, evitare di massimizzarlo costantemente ha rallentato la crescita della squadra e di #TheTimeline.