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Daniele Manusia

Perché l’Inter subisce così tanti gol

Gli errori individuali non sono l'unico problema.

È una stagione strana e ancor meno del solito è possibile trarre conclusioni di qualsiasi tipo dopo appena una decina di partite. L’Inter di Antonio Conte, però, sta vivendo già un brutto momento – o forse è ancora dentro al brutto momento vissuto alla fine della scorsa stagione, quando diceva che «a tutto c’è un limite» – con solo tre vittorie in campionato, un derby perso e due soli punti al giro di boa nel girone di Champions League. Conte sembra stranamente tranquillo, sicuro del proprio lavoro e del gioco, di quello che chiama «spartito». E ancora pochi giorni fa alla Gazzetta ha detto che lascerà un’Inter «migliore di quella che ho trovato». Ha perso l’aria tormentata della scorsa estate, l’aria stupefatta e impenetrabile di un uomo che non può parlare ma che non vede l’ora di uscire dalla stanza in cui si trova. Persino dopo quattro partite senza vittoria trova la serenità di dire che il suo obiettivo sarà raggiunto quando i giocatori avversari sentiranno di affrontare non solo altri undici giocatori ma una «cultura, un’identità, un sistema di valori comune».

 

Ci sono delle cose che Conte dice e io non capisco se le pensa veramente o se si sta solo sforzando di dire la cosa giusta. Forse è un problema mio, o magari è impossibile capire davvero cosa intendano gli allenatori, a chi si rivolgono quando subito dopo la partita si ritrovano a commentare pubblicamente un risultato deludente, col battito che ancora non è tornato normale, e non è chiaro se stanno cercando di manipolarci o se per loro sia semplicemente impossibile anche solo provare ad essere sinceri in quel momento. In fondo, tecnicamente, non è quello il loro lavoro. Non si dovrebbero preoccupare di quello che scriviamo sui nostri social, o sui blog. In molti hanno sottolineato che l’Inter sta subendo molti gol ma Conte, dopo il pareggio col Parma, ha sottolineato piuttosto che in questo momento stanno sprecando «veramente tanto», mentre le altre squadre sono ciniche.

 

Una cosa simile l’ha ripetuta anche dopo il pareggio con l’Atalanta, quando ha detto che sta mancando loro «l’istinto killer», aggiungendo poi che non pensa di avere un problema di equilibrio: «A livello difensivo spesso e volentieri quando ci tirano ci fanno gol. Questo è un dato di fatto. Ma io non ne voglio parlare perché sembra che uno voglia vedere il bicchiere sempre mezzo pieno». Questa è la cosa che capisco meno di tutte: in che modo parlare di una squadra fragile al punto da subire molti gol anche lasciando pochi tiri sarebbe vedere il bicchiere mezzo pieno? Forse Conte è andato più vicino a dire la verità poco prima, sempre nel post-partita dell’ultima giornata di campionato, quando ha riflettuto sul fatto che la passata stagione la squadra magari era «meno bella» ma aveva trovato «una compattezza, una quadratura importante nella gestione del risultato».

 

Ma quindi cosa sta succedendo a quella che lo scorso anno è stata la miglior difesa del campionato, con una media inferiore a un gol subìto a partita, come si spiegano 11 gol in 7 partite di campionato, 5 in 3 di coppa (con anche uno 0-0 di mezzo)? È davvero solo una questione di risorse umane – fatica, ritmi troppo alti, infortuni, tamponi positivi – o di «qualche situazione che si può migliorare anche proprio a livello individuale»?

 

In questa prima parte di 2020-21 l’Inter è la squadra che in Serie A ha subìto meno tiri di tutte su azione (5.9 in media a partita) ed è anche la quinta ad aver subìto meno xG, sia su azione che da calcio piazzato (rispettivamente 1.03 e 0.2, sempre in media). Al tempo stesso concede tiri con un valore medio di 0.15 xG, il terzultimo valore del campionato – solo Benevento e Spezia lasciano singole occasioni di maggior valore – ed è quella con la percentuale peggiore di tiri subiti che si sono trasformati in gol (24%: lo scorso anno erano solo il 7.6%, l’Inter era quarta in questa classifica). Conte ha ragione nei presupposti ma è troppo auto-assolutorio nelle conclusioni: si può essere sfortunati una volta, due volte, tre volte, e altrettante si possono pagare errori individuali, ma dopo sette partite una simile contraddittorietà statistica qualcosa di più grande vuol dire per forza.

Forse i due gol subiti dal Parma, da Gervinho, sono i più significativi, quelli che mostrano meglio quelle incomprensioni che sono al tempo stesso individuali e collettive, una confusione che l’Inter vive sul piano della tattica individuale (delle scelte dei singoli, cioè) e dell’organizzazione d’insieme (distanze, movimenti, marcature).

 

Il primo gol nasce da un’azione in cui, quando Kolarov vince il duello aereo e indirizza la palla verso Eriksen, Gervinho è in una posizione più profonda di Hakimi, che però si alza per partecipare all’attacco e quando l’azione diventa difensiva (Lautaro perde palla) si trova troppo in là. Anche de Vrij sale di qualche metro tra un momento e l’altro e non guarda mai in direzione di Gervinho, se non quando è troppo tardi.

 

Sul secondo è de Vrij a perdere il contatto, anche solo visivo, con Gervinho. In un primo momento, con Kucka a palla scoperta, de Vrij segue un possibile taglio profondo di Gervinho che minaccia di correre tra lui e Ranocchia; un attimo dopo, però, si fa trovare piantato, col corpo in orizzontale, quando Gervinho sta già preparando lo scatto alle sue spalle. Allo stesso tempo va notato come Inglese riesca a liberarsi della pressione alle spalle di Kolarov semplicemente muovendosi qualche metro dentro al campo, creando un dubbio tra chi debba prenderlo, se Kolarov stesso o Ranocchia. Quest’ultimo esce dalla linea solo per essere superato dal filtrante che mette Gervinho in porta.

 

Ma se praticamente l’intera linea difensiva prende scelte sbagliate, possiamo ancora parlare di errori “individuali”? Anche se questa può sembrare una domanda retorica, in realtà sottintende una questione molto pratica: se i singoli giocatori sono in difficoltà nel prendere decisioni dipende anche dal sistema che li espone a determinati dilemmi. Ci sono alcune incomprensioni tattiche che l’Inter sta pagando da inizio stagione – la difficoltà degli esterni di attaccare sulla linea degli attaccanti, idealmente in ampiezza, e difendere stretti vicini ai tre centrali, quasi contemporaneamente; quella dei centrali di difesa nell’aggredire lo spazio dietro ai centrocampisti; e quella dei centrocampisti a fare da filtro – che difficilmente un giocatore al posto di un altro potrebbe aver evitato e semmai vanno inquadrate nel nuovo contesto tattico stagionale.

 

La mia impressione, che argomento più avanti ma che vi anticipo in estrema sintesi, è che l’Inter sia passata dall’essere una squadra (lo scorso anno, al proprio meglio) che attirava la pressione vicino alla propria area per saltarla con una costruzione bassa efficace e brillante per poi attaccare in campo lungo, a una che preferisce fasi di attacco posizionali, o comunque situazioni in cui tiene di più palla nella metà campo offensiva attaccando l’area con molti uomini. In parte dipende anche dall’atteggiamento delle squadre avversarie, che conoscendola preferiscono difendere in modo più passivo, ma poi è decisiva la facilità con cui perde palla in zone alte di campo, non per forza in fase offensiva ma magari perdendo il duello per una seconda palla, non riuscendo sempre a recuperarla subito o a interrompere l’azione, che la espone a transizioni faticosissime e complicate.

Subito dopo aver subito il gol del 2-2 da un triangolo lungo Castrovilli-Ribery-Castrovilli, l’Inter attacca con 7 uomini, con palla a Kolarov terzo a sinistra di difesa nella trequarti offensiva. Quando Brozovic fa un velo e la palla viene intercettata da Caceres, ci sono solo Eriksen, Bastoni e D’Ambrosio a difendere. Poi Ribery salta D’Ambrosio e Perisic perde i 100 metri piani con Chiesa, mentre Kolarov neanche si accorge che gli sta sfilando alle spalle (fermo restando che non lo avrebbe mai preso).

 

Anche in questo caso è difficile sapere quanto sia studiato, preparato da Conte, e quanto dipenda dalle poche partite giocate. Per il momento però l’attitudine dell’Inter si riflette nel primo posto nella classifica PPDA (che ci dice di quanto poco tempo facciano passare le squadre tra la perdita del pallone e un intervento difensivo), nel baricentro più alto del campionato (altezza media dei passaggi: lo scorso anno c’erano 9 squadre con numeri migliori) e il secondo valore migliore dopo quello dell’Atalanta per quanto riguarda i passaggi nell’ultimo terzo di campo, i recuperi offensivi e il dominio territoriale (percentuale di passaggi nella metà campo avversaria sul totale dei passaggi: lo scorso anno l’Inter era a metà classifica).

 

Se a questo si aggiunge che è la squadra con la più alta percentuale di possesso palla (è passata dal 52.8% medio della passata stagione al 57.7% di queste prime partite), che solo il Napoli tira più e che nessuna produce più xG a partita su azione (2.1), ne viene fuori il ritratto di una squadra che passa molto tempo con la palla tra i piedi cercando di fare gol. Una squadra, inoltre, che ha raccolto finora meno di quanto seminato offensivamente (15 gol, esclusi i rigori, a fronte di 18.1 xG) e che non è sempre efficiente nel modo in cui attacca, finendo talvolta per sbilanciarsi.

 

In alcune partite, nelle fasi offensive più statiche, l’Inter ha alzato anche uno dei due difensori laterali sulla fascia, spingendo l’esterno dentro al campo. Contro lo Shakhtar era direttamente D’Ambrosio a sovrapporsi internamente ad Hakimi che restava largo, e per quanto sia persino riuscito ad arrivare al tiro in un’occasione, tagliando alle spalle della difesa ucraina, è un’idea quanto meno originale e contro-intuitiva quella di attaccare la profondità con il terzo difensore di destra mentre il giocatore a tutta fascia – uno dei calciatori più veloci al mondo – mantiene l’ampiezza senza avversari nei paraggi.

In generale sembrano non funzionare benissimo i meccanismi negli ultimi venti-trenta metri: i giocatori interisti si pestano i piedi, occupano zone di campo simili e fanno movimenti simultanei che anziché moltiplicare le linee di passaggio e le opzioni a disposizione del portatore lo spingono verso l’imbuto difensivo. In alcuni casi l’Inter ha creato una densità elevata su una fascia senza che l’esterno dalla parte opposta garantisse l’ampiezza, così anche cambiando campo la struttura difensiva avversaria non si scomponeva. Anche in questo caso devo parlare più di “sensazioni” che di vere e proprie costanti tattiche, ma sembra che come molti allenatori Conte affidi la rifinitura negli ultimi trenta metri di campo alle intuizioni individuali e, al tempo stesso, che per preparare quell’ultima fase faccia affidamento sulla “quantità” di giocatori che riesce ad accumulare oltre la palla senza badare troppo alle posizioni che occupano o ai movimenti coordinati. Certo la tecnica e le intuizioni individuali possono fare la differenza, ma se persino un centrocampo con Vidal, Barella e Eriksen non è fluido allora forse il problema va cercato nel lavoro svolto in settimana.

L’efficacia del gioco offensivo dell’Inter mi pare dipenda da due cose: dalla capacità di muovere la palla velocemente da una parte all’altra sfruttando l’ampiezza e, soprattutto, dall’abilità di uno dei centrocampisti di muoversi tra le linee. Quest’anno in fase di impostazione restano vicino alla difesa due centrocampisti, di cui uno che scivola al posto del difensore dal suo lato, che a sua volta si alza con il meccanismo descritto sopra. Il terzo centrocampista si muove su una linea più avanzata e arriva nella metà campo avversaria in posizione di trequartista, per questo si è parlato di un passaggio dal 3-5-2 dello scorso anno al 3-4-1-2.

 

In realtà è un passaggio fluido che l’Inter compie durante l’azione, la cui riuscita dipende dal tempismo e dalla coordinazione dei movimenti: spesso il centrocampista più alto finisce per tagliare una linea di passaggio che magari avrebbe portato direttamente a Lukaku e Lautaro, o semplicemente diventa irraggiungibile dietro al centrocampo avversario. Allo stesso modo il secondo mediano in impostazione (quasi sempre Vidal) rallenta ancora di più la manovra, oppure viene semplicemente saltato e di fatto l’Inter continua ad affidarsi alla capacità degli attaccanti di pulire e conservare il possesso, anche in zone avanzate: solo che lo fa con un uomo in meno a centrocampo, rispetto allo scorso anno in cui a impostare era uno solo, svuotando ancora di più il centro.

 

C’è una felice eccezione, questa sì una costante riscontrabile, seppure in poche partite. Perché quando l’Inter invece si muove bene, occupando uno dei mezzi spazi, occupa tutti i corridoi verticali con 5 giocatori e trova con tempismo il passaggio tra le linee. Quando funziona riesce a creare un dilemma per la difesa avversaria, che si trova in inferiorità quando schierata a 4 e che in ogni caso verrà disordinata da un giocatore che l’attacca frontalmente palla al piede. Barella è quello che si è mosso meglio in questo ruolo, procurando l’occasione dei gol di Lautaro Martinez contro il Real Madrid e contro il Genoa. Contro il Parma invece è stato Brozovic a ricevere tra le linee e ad andare direttamente al tiro.

In alternativa, c’è la sovrapposizione profonda dell’esterno che può portarlo al tiro oppure a un cross pericoloso in orizzontale o all’indietro dagli ultimi metri di campo.

 

Quindi l’Inter per generare il grande volume di tiri e pericoli che abbiamo visto sopra si affida a un grande numero di giocatori e a una presenza ingombrante, Conte direbbe forse “dominante”, nella metà campo avversaria, che in effetti sta portando risultati interessanti. Dall’altra parte, però, sta soffrendo alcuni scompensi difensivi. Oltre ad alcune scelte di Conte che sono costate in modo diretto dei gol – Kolarov centrale di difesa all’esordio con la Fiorentina, scelta pagata col gol di Kouamé dopo 3 minuti; de Vrij difensore di destra con Ranocchia al centro contro il Parma, scelta pagata con almeno uno dei due gol in cui è sembrato ragionare comunque da centrale stringendosi troppo – l’Inter sembra avere in particolare dei problemi a difendere la zona del secondo palo, all’interno della propria area, e quella tra la propria difesa e il proprio centrocampo (come già evidenziato da Dario Pergolizzi nella sua analisi della partita con l’Atalanta).

 

Se il primo problema può in parte dipendere dalle caratteristiche dei singoli (Kolarov, Hakimi e Perisic non sono dei difensori da area di rigore) dipende comunque anche da un atteggiamento generalmente confuso e rilassato nelle marcature, da una duplice tendenza a guardare la palla e non gli avversari e a stringersi troppo verso il centro. E questa singola situazione è costata da sola 3 gol importantissimi: quello di Milinkovic-Savic nell 1-1 con la Lazio, il secondo di Ibra nel derby che ha portato il Milan sul 2-0 e ha fatto la differenza nel 2-1 finale (l’unica sconfitta in campionato), e quello del 3-2 di Rodrygo che ha deciso la partita con il Real Madrid (la seconda e ultima sconfitta fin qui).

 

Ma è ancora più evidente, ed è costato ancora più caro, il secondo problema. Prima di “fare i conti”, vediamo un esempio dalla partita con la Lazio, che non ha portato al gol solo per l’imprecisione dell’attaccante avversario.

 

 

L’azione comincia con un lancio lungo del portiere avversario, in seguito a una pressione efficace dell’Inter. De Vrij vince il duello aereo con Milinkovic-Savic ma di testa manda la palla nella zona di Leiva che, di prima al volo, serve sui piedi il serbo. De Vrij torna in pressione ma Milikovic-Savic gira su sé stesso e vede, o sente, che Lazzari è partito.

 

 

È interessante notare come Lazzari parta non appena Leiva effettua il passaggio al volo, con Perisic lontano. Certo, se Leiva avesse sbagliato il passaggio si sarebbe fatto trovare teoricamente fuori posizione ma, a differenza dell’Inter, la difesa della Lazio sa già come comportarsi e sarebbe stato il difensore laterale di destra (Patric) a prendere in consegna Perisic. Ad ogni modo, Milinkovic-Savic controlla alla perfezione e lancia con altrettanta precisione sulla corsa di Lazzari. La Lazio si trova così in una sorta di 3 contro 3 decentrato: anche se Lazzari non minaccia direttamente l’area di rigore costringe Bastoni ad allargarsi, lasciando Skriniar e Hakimi a gestire i movimenti in area di Correa e Immobile.

 

 

L’Inter si trascina dietro, dal centrocampo fino alla propria area di rigore, i buchi che aveva all’inizio dell’azione. De Vrij non recupera la posizione mentre Vidal e Gagliardini non riescono ad accorciare la distanza che li separa dalla difesa, restando dietro la linea della palla condotta da Lazzari. Hakimi non diminuisce lo spazio che lo separa da Skriniar, in cui va a colpire di testa Correa, che per fortuna non è un gran colpitore di testa e manda alto sopra la traversa da pochi metri.

 

 

Le uscite in ritardo di de Vrij (ma anche Ranocchia contro il Parma) e la difficoltà del centrocampo dell’Inter a “coprire” la palla o schermare i possibili filtranti sembrano venire soprattutto dalla difficoltà con cui leggono le situazioni ambigue, quelle in cui l’Inter può entrare in possesso del pallone come perderlo, e quindi dal posizionamento errato di esterni e mediani. Seconde palle, recuperi avanzati, ma anche verticalizzazioni sulle punte che non riescono a consolidare il possesso, perché se svuoti il centrocampo alzando uno dei tre e spingendone un altro in fascia, e se lo salti sistematicamente cercando le punte, non puoi avere davvero controllo.

 

Ma dipende anche dalla fluidità dei movimenti avversari, che i giocatori dell’Inter interpretano male, o in ritardo, sempre in dubbio su chi debba marcare chi. In questo modo i movimenti di de Vrij si direbbero dovuti a una sua eccessiva aggressività più che parte di una strategia di squadra. Al tempo stesso è impossibile che, anche se fosse sempre lo stesso giocatore a compiere errori così simili, che l’allenatore non riesca a farglielo notare e a correggere.

Situazioni tipo quella descritta sopra sono all’origine della maggior parte dei gol subiti dall’Inter. Il secondo gol di Caprari, per quanto ininfluente nel 5-2 finale contro il Benevento, nasce da una palla giocata dall’esterno all’interno del campo che taglia fuori il centrocampo e a scalare mette in crisi l’intera difesa. L’azione del rigore conquistato da Ibrahimovic nasce da una passaggio di Calabria a Calhanoglu tra le linee. I due gol contro il Parma, come visto, nascono da palle scoperte giocate alle spalle della difesa, la seconda servita da uno dei due attaccanti tra le linee. L’azione di quello di Rodrygo nasce da una ricezione di Valverde che porta fuori zona de Vrij. Contro l’Atalanta, infine, Miranchuk riceve palla a un paio di metri dal limite dell’area, libero di controllarla davanti a Bastoni e Young (chi deve uscire?), con Skriniar che ha seguito Muriel fino alla trequarti, raddoppiato addirittura da Barella senza che nessuno dei due gli copra il passaggio.

 

In definitiva sono molti i gol che l’Inter ha subito e che non si possono far risalire solo a difficoltà a livello individuale, come detto da Conte, ma che dipendono o da criticità strutturali (baricentro alto senza sufficiente consolidamento, sovraccarico offensivo che espone a transizioni) o da situazioni che vanno allenate meglio (la costruzione con svuotamento del centro del campo, la problematica gestione dello spazio tra le linee, la difesa del secondo palo, il tempismo degli esterni nell’alzarsi e abbassarsi).

 

Al di là della questione estetica (non sono neanche d’accordo che l’Inter fosse “meno bella” lo scorso anno) sembra che Conte si stia scontrando con un paradosso tutto suo, quello di un allenatore che riesce a imporre un’identità di gioco, fatta di princìpi chiari oltre che della giusta motivazione, più facilmente appena arrivato che dopo mesi di allenamento. E sono pochi quelli che riescono a ottenere subito i risultati migliori – ok c’è Mourinho, ma lui non è interessato a costruire qualcosa di duraturo, spreme i gruppi che eredita fino all’ultima goccia e poi va via, non gli importa se lascia la casa in disordine, il salotto in fiamme – persino Klopp e Guardiola al City non hanno vinto niente al primo anno.

 

Ripetendo per l’ennesima volta la premessa iniziale, ovvero che sto parlando sulla base di poche partite e per il puro e semplice piacere di farlo, nel senso che c’è tutto il tempo affinché Conte “aggiusti” l’Inter, penso che vada fatta una riflessione sulla transizione da un sistema verticale e basato giocate preparate nei dettagli, che era quello dello scorso anno, a uno più fluido e posizionale. Non mi sembra nella natura dell’Inter: di alcuni suoi giocatori ma soprattutto del suo allenatore. Sicuro che sia una transizione necessaria per salire di livello?

 

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).