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Redazione

Guida a Germania – Argentina

Un panel di illustri esperti—Conte, Gabrielli, il cugino quattordicenne di Manusia, Alemanni, Battazzi, Paglialunga e…

 

CESARE ALEMANNI (@CesareAlemanni)
Più che un pronostico la mia è una speranza: che Messi salga l’ultimo gradino che lo separa dalla grandezza immortale. Perchè nonostante non sia un mostro di simpatia fuori dal campo, dentro è un giocatore mostruoso. Perchè sarei contento di vedere Maradona scalzato da uno che è l’esatto contrario della retorica maradoniana su genio e sregolatezza, una retorica che mi è sempre stata sulle palle. Messi è un genio ma di quelli autistici, di quelli che sembrano pagare il prezzo della loro genialità con l’impossibilità di essere come gli altri, con l’impossibilità di godersi il resto della vita che esula dalla loro arte. Troppo focalizzati, al limite dell’alienazione. Ho sempre provato interesse e simpatia per i personaggi così e mi fa piacere vederli ripagati (cosi come mi piacerebbe vedere ripagato il supermondiale di Mascherano).

Ma soprattutto perchè, dopo due anni di vita in Germania, consentitemi di dire che per i tedeschi provo sincero affetto e molta stima ma, quando si parla di calcio, l’atteggiamento del teutonico medio, così come viene riflesso tanto dai media quanto dalle chiacchiere da bar, raggiunge apici d’insopportabile arroganza. Capisco la sicurezza nei propri mezzi e la consapevolezza della propria forza, ma quando inizi a parlare di vierte Stern (quarta stella) come di una “cosa fatta” già dopo la fine dei gironi o ti sfugge qualcosa sul funzionamento della scaramanzia stai entrando in pericoloso” territorio Wagner”. Per questo dagli ottavi ho smesso di tifare per la Germania, come facevo nel 2010 e nel 2012 (fino alla semi con l’Italia, ovvio), e a favore di tutti i suoi avversari (e se l’Algeria non avesse sbagliato dieci ultimi passaggi, chissà…).

Detto questo, ovviamente la Germania è favorita e finora ha dimostrato di essere la squadra che più merita la coppa.

 

FULVIO PAGLIALUNGA (@FulvioPaglia)

Niente, non ne ho presa una, ma è colpa mia e non delle squadre. Mia e di quella speranza sbilenca di vedere qualcosa di insensato, anche se poi qualcosa di insensato è accaduto tipo la Germania che ne fa sette al Brasile, ma diciamo che non era proprio questo che pensavo, ecco. Vabbè, certo che se però mi avessero detto: «La finale è Germania-Argentina», io magari avrei domandato una previsione più originale (conosco l’obiezione: di meno originale ci sarebbe stato il Brasile in finale). Allora di questa devo parlare e endorsare da subito: vorrei vincesse l’Argentina e dunque è molto probabile che ce la faccia la Germania. Io lo so che adesso il quadro è deformato: si pensa la Germania fortissima per via del Mineiraço e di una di quelle notti di pallone che racconteremo per chissà quanti anni perché questa volta c’eravamo, non come nel 1950 che abbia appreso per ragioni anagrafiche (gran parte di noi, io sicuro) dai fantastici racconti di Soriano e da tutti gli altri a cascata. Dunque, la Germania sì: è molto forte ma nella semifinale ha creato non senza agevolazioni della sorte i presupposti per banchettare sulla psiche assai fragile dei brasiliani quando giocano in casa (e su questo un giorno bisognerà andare a fondo: l’insostenibilità di tale tensione e dunque l’entità di tale tensione, che vuol dire piangere prima dei rigori, come Julio Cesar, vivere l’assenza di Neymar – comunque pesante, come per Thiago Silva – come un lutto, e anche disperarsi tra il pubblico già dal secondo gol, come nella lunga carrellata di immagini forniteci dalle televisioni un po’ sadiche). Però non è una partita così che fa testo, è come immaginare i tedeschi giocare da soli (infatti qui hanno fatto un video dei sette gol senza avversari, e non mi pare ci sia molta differenza) e invece adesso avranno un avversario. Vero anche questo: l’Argentina della semifinale non è una squadra che mette paura ma è organizzata, può resistere e portarla alle lunghe, prendere la Germania per sfinimento. E poi ha gli assi che possono sbloccare partite così pesanti e Messi che ambisce a diventare come Maradona (spoilero: non lo diventerà mai), quindi secondo me ha pari opportunità almeno in accesso. E’ un calcio saggiamente programmato, e talenti allevati, contro l’eterno estro e i talenti che sbocciano spontanei, è la partita del hijos de puta di Maradona a Italia ’90 e dunque una rivincita e a me le rivincite piacciono. Non valgono le semifinali, né la convinzione maturata (Germania) né la stanchezza accumulata dai supplementari (Argentina). E’ proprio un’altra partita, forse sarà pure noiosa perché il caso è segnare sette gol, la norma è che in queste occasioni con moltissimo in palio sia facile essere bloccati dalla tensione. Di certo, visto che entrambe hanno vinto due edizioni del Mondiale post-Rimet, nessuna delle due porterà il trofeo definitivamente a casa, com’era una volta: questa Coppa verrà ritirata nel 2030, quando saranno tutti incisi gli spazi sul basamento, dove si scrivono i vincitori. E io non ho ancora capito chi sarà il vincitore.

 

Daniele V Morrone (@DanVMor)
In questo breve spazio vorrei parlare dei due leader delle finaliste. Non mi riferisco ai due migliori giocatori o ai due leader tecnici. Ma proprio ai due leader mentali delle squadre: Mascherano e Lahm. Uno ha giocato il Mondiale con la fascia al braccio, mentre l’altro ha mostrato le sue doti di leadership in diretta mondiale caricando l’eroe della semifinale Romero prima dei rigori. E dire che Mascherano veniva da una stagione con tante ombre, sempre ingabbiato in un ruolo non suo (centrale di difesa) e insicuro se continuare l’avventura in Catalogna. Un mese esatto dopo Mascherano è il miglior centrocampista del Mondiale (quello con più passaggi riusciti con 460 e con più takle riusciti con 28) con il tedesco Tony Kroos, è nella rosa dei pretendenti al premio di Miglior giocatore e ha firmato il prolungamento di contratto con il Barça di Luis Enrique che gli ha assicurato il posto a centrocampo. Il 14 si è caricato la squadra sulle spalle lungo tutta la fase eliminatoria dominando il centrocampo fisicamente ben più prestante del Belgio guidando anche i movimenti del compagno di reparto Biglia e letteralmente bloccando l’attacco Olandese in semifinale. L’azione che però rimarrà nella storia di questi Mondiali è la scivolata con cui Mascherano ha salvato la partita contro Robben al novantesimo minuto (azione tanto più eroica se si pensa che il giocatore per sua stessa ammissione si è strappato l’ano nell’eseguirla…). Guardando il grafico delle azioni difensive delle ultime due partite fa quasi spavento la perfezione in questo aspetto del gioco tanto trascurato dai media: tra i takle riusciti, gli intercetti, i contrasti e i recuperi Mascherano in due partite ha commesso 1 fallo (e neanche in difesa!). In caso di vittoria argentina è giusto che il capitano e miglior giocatore della squadra Messi alzi la coppa per primo, ma mi piacerebbe molto se il secondo a cui verrà passata indossi il 14.

 

 

Le X sono i takle, i cerchietti il recupero del possesso, i rombi gli anticipi e le barre i tiri/cross bloccati e il triangolo nero il fallo commesso. Mascherano interpreta il proprio ruolo in campo in modo perfetto.

 

Il capitano della nazionale tedesca invece è autore di un Mondiale in linea con il suo ultimo anno: sontuoso. Iniziato a centrocampo come nel Bayern di Pep e terminato da esterno destro basso, suo ruolo naturale. Il motivo del passaggio è che mentre al centro del campo Lahm permette una circolazione perfetta del pallone (come Pep aveva capito) la Germania con tre palleggiatori (lui, Kroos e Schweinsteiger) è meno incisiva della Germania con Khedira a dare equilibrio nelle due fasi e Lahm sulla fascia è giocatore sicuramente superiore al volenteroso Boateng. Morale Lahm è perfetto in entrambi i ruoli (se pensate che solo Mascherano può intervenire in modo eroico in scivolate guardate qui), ma questa Germania lo necessità di più sulla fascia che al centro. Lahm non si è certo lamentato e contro il Brasile ha spazzato via Bernard e bloccato Marcelo tanto da portare il giocatore del Real Madrid ad accentrarsi appena poteva per giocare il pallone lontano dal capitano avversario. Il tutto con il solito 90% di passaggi riusciti e tre assist per i compagni in area. Contro l’Argentina dovrà vedersela con un avversario scomodo come Lavezzi, sono sicuro però che il giocatore del PSG non avrà vita facile nel superare quello che Pep stesso ha definito “il giocatore più intelligente che abbia mai allenato” quello che in caso di vittoria alzerà per primo la coppa più importante.

 

IL CUGINO QUATTORDICENNE DI DANIELE MANUSIA
Brasile-Germania una cosa impressionante oh. Sono rimasto scioccato, stavo tifando Brasile ma dopo 29 minuti sul 5-0 ho un po’ capito che non era la giornata del Brasile. La Germania era entrata bene in campo ma anche il Brasile ha lasciato troppi spazi, c’era sempre un uomo libero! Ammazza Tony Kroos ha giocato bene. Hanno giocato tutti bene comunque. Secondo me vince la Germania. Non vedo possibilità per l’Argentina, per niente. Il calcio europeo della Germania è troppo sviluppato. Poi l’Argentina l’ho vista ieri ed era veramente noiosa, hanno vinto ai rigori ma non è che hanno fatto niente. Per me ci sarà un risultato largo. Papà dice 1-0 dell’Argentina, io sono più convinto del 4-0 della Germania. Se l’Argentina va in vantaggio dipende, ma secondo me la Germania non perde, ha un carattere forte quest’anno non credo che si demoralizza. In caso rimonterà secondo me. Io ho questo pensiero della Germania che vince. Come al solito saranno Kroos, Ozil, i giocatori migliori, poi Muller si riconfermerà, almeno un gol lo farà. Muller mi aspettavo che segnasse ma non pensavo fosse così decisivo, un po’ di meno. Segna i gol più importanti. L’Argentina non ha tanta qualità, non c’è neanche Di Maria. Messi non mi ha impressionato. Sono contento per lui che finalmente gioca bene con l’Argentina, mi aspettavo un po’ che facesse bene al Mondiale, ma non è che mi ha stupito. Questa Argentina non mi piace, dopo Messi c’é solo Higuain. Lavezzi poca roba secondo me. Poi Mascherano… però, cioè. Secondo me contro l’Olanda all’ultima azione Mascherano è stato bravo, ma principalmente ha sbagliato Robben. Io avrei tirato prima. Poi nei rigori vabbè, stavo tifando l’Olanda. Non pensavo tirasse Vlaar, pensavo tirassero gli attaccanti.
Non è che per la finale tifo proprio qualcosa. È proprio la finale che non volevo. Preferivo Olanda-Brasile. Adesso mi aspetto la Germania schiacciante. Ma non è che mi interessa, cioè mi interessa, ma non è che ho tanta speranza. Non tifo niente. Poi se succede qualcosa è meglio, un episodio strano, così, anziché una partita monotona. Più che altro penso se finisce 4-0 per la Germania. Spero in una partita più aperta. Le semifinali sono state una noiosa, una un massacro. Un 4-3 con tante azioni è meglio. Però secondo me finisce 4-0. Se stanno tipo sul 3-0 al 92° potrebbero far tirare un rigore a Neuer.
Papà dice che il potere si spostando e tra un po’ dovremo fare i conti anche con le Nazioni più piccole e che è stato un Mondiale abbastanza brutto tecnicamente. Almeno in queste ultime partite, all’inizio era partito bene con tante sorprese, poi le partite sono diventate noiose. Speravo meglio. Papà pronostica che tra 4 anni vince l’America ma io dico assolutamente no. Io chi dico? Tra 4 anni è dura, dipende. Dico la Colombia. Magari non tra 4 anni proprio, ma la Colombia col tempo vince. Pure il Belgio, però dovrebbe cambiare allenatore, credo.

 

EMILIANO BATTAZZI (@e_batta)

Il mio nome è Messi
Per un giocatore di calcio professionista, il pullman è un luogo magico: se penso a quanti ne ho presi, e quanti viaggi mi sono sembrati interminabili anche quando erano di pochi chilometri. Eppure un viaggio come questo, dal nostro ritiro fino al Maracanà, proprio non me lo ricordo, e un po’ tremo, e quasi rivivo quella strana emozione di quando, a 13 anni, presi l’aereo per andare a Barcellona. Sapevo che quell’aereo mi avrebbe cambiato la vita. Forse lo farà anche questa finale, ma non so bene cosa pensare: quanti gol ho segnato, quante coppe ho vinto, e come possono non bastare? E in fondo neppure Maradona ha mai segnato in una finale del Mondiale, e ne ha giocate due.
E’ pieno di argentini lungo la strada, sono tutti intorno al nostro pullman, quasi non riusciamo a passare: quanta passione, ce l’avevo anche io da bambino, quando volevo solo uscire per strada e giocare. Ce l’ho anche adesso, ma da professionista è diverso. Questa passione spesso, forse troppo, mi si è rivolta contro, perché in Nazionale non ho mantenuto gli stessi ritmi del Barça, quasi un gol a partita. E ogni tanto qualcuno mi dava del “pecho frio”, del codardo, e ancora oggi qualcuno dice che nelle partite importanti sono sparito e non ho più segnato. Non mi interessa, voglio solo regalare una gioia a tutta questa gente, sarebbe un grande regalo, e lo farei per tutti i ragazzini che stasera ci guarderanno giocare. Perché io in Argentina sono stato solo bambino, e la mia Argentina è quella dell’infanzia, di mia madre che mi accompagna al campo, e durante le partite si sistema sempre dietro la mia fascia, per farmi sentire la sua vicinanza, perché da bambino ero troppo insicuro, così diceva l’allenatore dell’epoca. Non crescevo mai, ed ero il più piccolo di tutti, ed ero così timido che per gli altri ormai ero diventato invisibile. Mi sceglievano però, eccome, nelle loro squadre, quando giocavamo su quei campetti arrangiati, in quelle partite di “fútbol de potrero” che se non le avete vissute non le potete immaginare.
La mia infanzia l’ho salvata, e non l’ho svenduta neppure per tutti i soldi degli sponsor: sono rimasto così, il ragazzo introverso che vuole solo giocare a pallone, e che non pensa di essere diventato importante per i gol.
Si vede il Maracanà ormai, ci siamo quasi, ci stiamo mettendo un’eternità, sembra di stare a Buenos Aires. E proprio ora però, sento un dolore strano, un dolore di cui non ho mai parlato con nessuno e che proprio ora diventa vivo, dopo tanti anni ormai. Quella volta dall’endocrinologo Diego Schwarzstein, quell’uomo così tranquillo con il cognome di un giocatore tedesco e il nome del Diez, mi sono sentito perso. Ero lì seduto vicino ai miei genitori, mentre il dottore parlava e ci spiegava che non crescevo perché avevo una carenza ormonale. Ho avuto paura, e ho sentito dolore, perché non ero come gli altri, in fondo non funzionavo bene, e temevo che tutto ciò mi avrebbe allontanato dal calcio. E così, quando il dottore mezzo tedesco mi chiese cosa ne pensavo, io risposi che l’unica cosa importante per me era giocare a pallone. Avevo 11 anni, e il Newell’s Old Boys, la squadra della mia città, mi disse che non poteva pagarmi le cure a base di ormone della crescita. Ma io lo so, che i soldi ce l’avevano, solo pensavano fossi un investimento sbagliato. E anche il River, perché ormai nei tornei giovanili mi avevano notato tutti, si informò dai dirigenti e poi scappò via perché, no, la cura non volevano pagarla neppure loro, e alla fine solo il Barcellona si offrì di aiutarmi.
Questa mancanza me la porto dietro, di non aver mai giocato per la gente della mia città, di non aver mai giocato in Primera, eppure sono i tifosi argentini a rimproverami, a dire che non sono uno di loro perché ho vissuto la maggior parte della mia vita a Barcellona. A Rosario, dove sono nato e cresciuto, ci sono dei murales persino per i Rolling Stones ma non per me: sono quello che è andato via, che ha rinnegato le proprie origini. Ma io so che non è vero e non serbo rancore per nessuno: inseguivo il mio sogno, giocare a calcio, sempre e dovunque.
Un po’ hanno ragione nel dire che sono un tipo strano, che non parlo mai, non sono il prototipo dell’argentinidad: e proprio ora Mascherano, lui sì che è uno del popolo, ci sta caricando tutti, mentre entriamo nelle viscere del Maracanà. Ma come recita l’adagio, chi sa non parla. E io so: so di cosa è fatta la vita, so la sofferenza della malattia, so degli sguardi degli altri bambini nelle sale d’attesa, so della sofferenza degli sconfitti, sia nel campo che nella vita. E’ per questo che sono il più forte; è per questo che per me non c’è niente di davvero serio nella vita, tranne quella palla da accarezzare.
Fino a quando l’avrò vicina a me, ai miei piedi, al mio fiato, questa finale la sentirò mia: spero che questa partita, come quelle che giocavo da bambino, non finisca mai.
Il mio nome è Messi.

 

FABRIZIO GABRIELLI (@conversedijulio)
Milioni di brasiliani stanno patendo in questi giorni (in una forma più compassionevole che patetica) un forte attacco di Sindrome di Stoccolma, quella che si verifica quando la vittima si identifica con il suo carnefice, il rapito con il suo rapitore. Il quotidiano Lance! ha pubblicato in copertina una foto di Lucas Podolski in visita a un villaggio indigeno vicino Bahía: sotto ci ha apposto il titolo Alemães desde criancinha, tedeschi fin da piccoli. “E ora che impediscano el tri argentino!”.
Certo dev’essere dura sperare che vinca chi ti ha umiliato; trovo ci sia una perversione latente nell’affidarsi, per tornare a galla, a chi ti ha mandato a fondo: l’esercizio della Schadenfreude, che è il piacere provocato dalle sfortune altrui, dimostra di avere mille sfumature applicative. La presidente brasiliana Dilma Rousseff sembra abbia raccontato a un suo collaboratore che avrebbe preferito giocarsi la finale per il terzo posto con l’Argentina, mettergliene quattro, espiare così in una certa maniera la vergogna, il dolore. E invece le toccherà presenziare alla finale del Maracanã, e per com’è andata, se proprio c’è da consegnare la loro coppa a qualcuno, meglio a Lahm che a Leo.
Quella del 13 Luglio sarà la terza finale tra Argentina e Germania, la prima dell’era post-Maradona. Vieppiù a quattro anni dall’onta dell’eliminazione (con goleada) dai mondiali sudafricani. E al timone dell’Albiceleste c’era proprio Diego.
Non c’è possibilità di fuga dai cori tormentone: A Messi lo vas a ver, la copa nos va a traer, vedrai la coppa ce la porterà lui. Chi lo sa cosa starà pensando, Leo, arrivato com’è – lo dicevo in preview alla semifinale contro l’Olanda che ho commentato con altri UltimoUomers al Valle, magari ci scriverò un pezzo – a un passo piccolo così dal timbro sul passaporto che sancirà – se lo sancirà – il compimento del suo processo di reargentinizzazione, che sarà completo solo e soltanto quando i suoi connazionali lo riconosceranno come leader ed eroe. Qualche giorno fa leggevo un’intervista allo scrittore e vignettista Juan Sasturain (praticamente sconosciuto in Italia, al pari d’un collega altrettanto bravo come Fontanarrosa), in cui raccontava che per il percorso dell’Argentina verso la finale di Italia ’90 aveva provato vergogna: vergogna per il fracaso contro il Camerun nel match inaugurale, per le partite brutte e tese, per la noia dell’ultima ora e mezza, quella della finale, cui seppe porre fine solo il gesto estetico calcistico più noioso che si possa immaginare: un calcio di rigore tirato da un terzino sinistro (io, che all’epoca avevo nove anni, non ricordo sindromi di Stoccolma di alcun tipo, si tifava tutti compatti per la Germania – per quanto mi riguarda non avevo occhi che per Voeller e Berthold – c’era Berthold a Italia ’90?- e non mi sembrava ci fosse nulla di cui vergognarsi).
Forse anche Messi si vergogna un po’ di dover giocare la partita più importante della sua carriera con compagni di squadra così più scarsi di quelli con cui abitualmente solca i campi (se si escludono i nomi ai quali viene naturale mettere, a seguire, il punto esclamativo: Higuain! Agüero!). Si vergogna del calcio di Sabella, che lo uccide e lo lascia sempre solo tra tre o quattro avversari, che lo costringe a scendere a cercarsi palla lontano dal posto che più brama, che di tanto in tanto lo obbliga a rincorrere l’avversario, perché conta più evitare gol che farne (anche se poi lui ne ha messi dentro la metà).
O invece chi lo sa che non sia contento della staticità della squadra, che gli permette di occultare, almeno in parte, la sua, di stanchezza; magari immerso in questo gruppo di gregari sente meno l’esigenza, anche lui, di sentirsi così più speciale degli altri.
Dopotutto è a soli 90 (al massimo 120) minuti da ciò che più desidera.
Se volete, se serve a espiare almeno un po’ di vergogna, fate conto che la sua sia una squisitissima forma di Sindrome di Stoccolma.

 

SIMONE CONTE (@SimonteCone)
L’eroe di Rio
I vetri sono scuri, ma solo da fuori. Io loro li vedo, loro non vedono me, ed è meglio così, che se a questo traffico ci aggiungi pure il faccione mio, allo stadio non ci arriviamo più.
Ma io li vedo, e li vedo contenti, impauriti, comunque euforici. Aspettiamo tutti la stessa cosa. Per me, però, aspettare questa finale di oggi, vuol dire pensare a quella lì, quella da cui è iniziato tutto. Perché se quella di oggi si gioca qui, è perché quella lì l’abbiamo vinta.
C’è un filo che tiene insieme Brasile 2014 e Argentina 2034, non è un segreto. Doveva essere il loro Mondiale, fu il nostro senza neanche bisogno di batterli, ci pensarono i tedeschi, con quella roba lì che ancora oggi, nonostante dopo ne abbiano alzate due di coppe, bè ancora oggi se gli ricordi quel 7-1 gli fa male. Che squadra quella Germania lì.
Erano più forti e organizzati di noi, e non è vero, come hanno detto poi, che noi avevamo più voglia di vincere. Solo un cretino non ha voglia di vincere la finale dei Mondiali, e loro di cretini non ne avevano, anzi. Semplicemente, le cose nel calcio succedono, e c’è un confine oltre il quale le spiegazioni non ci sono. Succedono. La festa fu la nostra. Rio fu nostra per una notte e un giorno. E oggi, vent’anni dopo, il calcio è un po’ nostro. Un bel po’. Quella che diede a noi fu l’ultima coppa consegnata da Blatter: il cuore lo tradì poco più di un anno dopo. Platini non ebbe rivali, ma gli fu subito chiaro che non sarebbe stata una passeggiata. Non riusciva ad esercitare il dominio capillare e incontrastato che era stato prerogativa del suo predecessore. L’appoggio in Europa, dopo anni di EL e Champions League sfibrate fino al ridicolo per coinvolgere quante più federazioni possibili e portare soldi ovunque, era scontato. Non aveva l’America, chiese aiuto alla nostra federazione, la più forte del continente grazie a quella coppa, ma in quegli anni, al netto dei nomi di chi portava la cravatta, voleva dire chiederlo agli eroi di Rio. Decidemmo di appoggiarlo, prima timidamente, poi con interviste mirate prima, durante e dopo Russia 2018, l’ultimo mondiale per me e per i miei legamenti sfilacciati. Con i nuovi padroni del pallone trovò un accordo semplicemente consegnandosi mani e piedi alle loro volontà nella gestione di Qatar 2022. Ma quel caldo, quei malori, furono la fine di Platini. E il mio inizio. Uscii immune dal tritacarne che spazzò via mezza Fifa. Ero già nelle stanze dei bottoni, ma l’aver reso pubbliche le mie perplessità prima di quell’estate fu la mia salvezza. Nel 2023, a 39 anni, fui eletto presidente. Più giovane di me solo il primo, Guérin, ma era talmente un’altra cosa che si parlava di me come del più giovane presidente Fifa di sempre. Una piccola bugia, tacitamente accettata e reiterata.
Tutti dicono che sono un buon presidente perché tra quando ho giocato a calcio e quando ho iniziato a governarlo sono passati pochi anni, e pensando prima a chi lo gioca che a chi lo guarda ho fatto un favore anche a chi lo guarda. Sarò ricordato principalmente per li nuovi criteri di redistribuzione dei profitti, la moviola in campo, e per le cinque sostituzioni, ma avevamo perso talmente tanta credibilità che nuove regole che rendessero il gioco più pulito e spettacolare erano semplicemente inevitabili, credo ci sarebbe riuscito chiunque al posto mio. Ne sono comunque orgoglioso. Ma oggi sono orgoglioso di questa cosa qui che mi circonda, di aver riportato i mondiali a casa, di aver visto i ragazzi arrivare in finale, e se stasera io e gli Eroi di Rio non saremo più gli ultimi argentini ad aver vinto un Mondiale, sarò felice.
Nelle interviste serie e lunghe arriva sempre il momento in cui il giornalista mi dice che la mia seconda vita è iniziata quella notte al Maracanã. Dico sempre di sì, ma penso sempre di no, per me è iniziato tutto nel momento in cui non è finito, e non è finito grazie a me. Ma quando ho fatto questa cosa qui, mica lo sapevo che stavo iniziando a cambiare il calcio.

 

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