• Apocalisse Mondiale
Emanuele Atturo

Seguire il calcio ai tempi di un Mondiale apocalittico

È possibile far convivere il calcio con tutto quello che lo circonda in Qatar?

Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche, in questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse. In questa rubrica riservata agli abbonati cercheremo di offrirvi un punto di vista personale, riflessioni sul campo e fuori dal campo, su questo Mondiale alla fine della storia.

 

Joseph Blatter seduto nei suoi uffici della FIFA, a Zurigo, tiene una conferenza stampa. C’è il clima perfettamente freddo e inoffensivo di un’istituzione immateriale come la FIFA, ben protetta nei suoi uffici svizzeri. Blatter ha una di quelle facce che attraversano la nostra vita immuni al passare del tempo; la sedie di pelle nera, lo sfondo blu, l’iperuranio del capitalismo. Tutta questa tranquillità viene rotta a un certo punto, da un gesto inconsulto.

 

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Il comico inglese Lee Nelson tira verso Blatter un mazzetto di banconote. Blatter inclina la sedia alla sua sinistra, abbassa lo sguardo e la bocca gli si piega leggermente verso il basso in un’espressione di spavento. Nel frattempo i dollari svolazzano assumendo la forma di una nuvola leggera e frusciante, regalandoci una spettacolare myse en abyme dello squallore morale della FIFA.

 

Foto di Philipp Schmidli/Getty Images.

 

In quel momento, tutti sapevano già che la FIFA era corrotta, che il calcio era corrotto, che Blatter era così corrotto da aver interiorizzato la corruzione come un modo d’essere, uno stile di vita del tutto accettabile. Tutti lo sapevamo, e tuttavia abbiamo fatto finta di niente. La corruzione della FIFA è rimasta nascosta, fino alle indagini che in quel periodo avrebbero portato Blatter alle dimissioni, fino a quella nuvola di banconote che è riuscita a darle una forma visibile. È stata una delle prime immagini in grado di fare questa operazione di disvelamento, di caduta della maschera. Il Qatar ce ne offrirà molte altre.

 

È un’immagine di luglio 2015, poco prima delle dimissioni di Blatter in seguito alle indagini sulle tangenti ricevute dalla FIFA per l’assegnazione di alcuni Mondiali. Fra cui quelli in Qatar.

 

Durante una cerimonia inaugurale incredibilmente sfarzosa, l’emiro Tamim Al Thani tiene il suo discorso e quando scivola sulla frase “Abbiamo lavorato con tante persone” si sente un vago, lontanissimo mormorio. Per costruire quello stadio, e gli altri in Qatar, non sono stati rispettati i diritti dei lavoratori e sono morte più di seimila persone.

 

Ci siamo avvicinati a questo Mondiale sballottati in mezzo a due forze gravitazionali antitetiche. Da una parte i temi calcistici e dall’altra tutte le questioni politiche che mettono il campo da calcio tra parentesi, che ci trattengono l’entusiasmo, che ci fanno avvicinare alle partite col cuore pesante.

 

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Non è vero, come qualcuno ha provato a dire, che in questi anni non si è parlato di questo Mondiale. Nel 2017 è uscito il documentario The Worker’s Cup che raccontava le atroci condizioni di lavoro a cui erano sottoposti i poverissimi lavoratori che stavano costruendo le infrastrutture di uno dei paesi più ricchi al mondo. Nel 2019 il regista tedesco Benjamin Best è andato in Qatar per riprendere la vita dei lavoratori nepalesi, tenuti a pane e acqua, senza stipendio da otto mesi, e ai quali era stato sequestrato il passaporto. C’è questo articolo del Guardian, che nel 2021 per la prima volta ci fa una cifra realistica dei morti, e ce la sbatte davanti in un incipit devastante: «Più di 6500 lavoratori migranti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka sono morti in Qatar da quando il paese ha vinto l’assegnazione della Coppa del Mondo dieci anni fa».

 

Da anni si parla di quello che stava succedendo in Qatar, e non è ipocrisia se è ora che l’evento sta cominciando ci investe un’emotività più forte e siamo più connessi con il problema.

 

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Sono anni che sappiamo di questo Mondiale in Qatar, che conosciamo la violenza che c’è dietro. Eppure è impossibile trattenere un senso di sorpresa, a vederlo avvicinare concretamente. Nel video che Tariq Panja ha pubblicato su Twitter il profilo dello stadio costruito come una tenda beduina prende forma all’orizzonte, al termine di un’ampia distesa desertica. Mentre il mondo è sconvolto dalla crisi climatica, una gigantesca tenda beduina aperta nel deserto, climatizzata con i bocchettoni dell’aria condizionata sotto agli spalti. C’è un caldo insostenibile e gli alberi e i prati disseminati attorno allo stadio hanno bisogno di immani quantità d’acqua per restare in vita. Gli operai che hanno costruito lo stadio Al Bayt al termine di ogni giornata venivano scortati ai margini del deserto, messi a dormire in piccolissime cabine: «Alcune ospitano tre o quattro operai in letti singoli, gli altri cinque o sei in cuccette, ma tutti quelli visti dal Guardian erano angusti, sporchi, senza finestre. Lo spazio fra le cuccette è diviso da asciugamani per avere un po’ privacy. Bottigliette d’acqua, utensili da cucina e oggetti personali sono stipati sotto i letti». Molti di loro sono arrivati a pagare 2500 euro per assicurarsi questo lavoro che gli avrebbe fruttato meno di un euro l’ora.

 

Per tutti questi anni abbiamo parlato di questi Mondiali, ma solo ora che li possiamo vedere concretamente possiamo riconoscere e dare forma a quest’assurdità. Nel fan village che sembra quello del Fyre Festival, nell’insalata greca da 14 dollari, nel messaggio di benvenuto del Qatar che sconsiglia di baciarsi in pubblico. Nella minaccia di cartellino giallo per i capitani che decideranno di indossare la fascia da capitano color arcobaleno. Nella fumettistica adunata di cattivi nelle cabine di lusso dello stadio Al Bayt.

 

 

L’immagine è spesso ciò che rende ai nostri occhi una cosa reale, abbiamo bisogno di referenzialità.

 

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Dopo un minuto e mezzo di partita già due brutti falli, fra cui un intervento pesante su Moises Caicedo. Orsato in campo sfoggia un quasi total black che rimanda agli arbitri di un’epoca trascorsa. Il Qatar arriva a questa partita al termine di un percorso iniziato nel 2004 con la fondazione dell’Aspire Academy, dove avrebbero dovuto confluire, da tutto il mondo, talenti da sviluppare e reclutare nella Nazionale del Qatar. In campo quindi vediamo il punto finale di questo utopico progetto: creare una Nazionale competitiva dal nulla. Eppure i giocatori del Qatar si muovono in maniera goffa e scoordinata, con una tecnica approssimativa. Dopo due minuti e mezzo il portiere del Qatar comincia a far svolazzare le proprie mani in alto senza prendere il pallone, e così si apre una riffa di rimpalli che diventa in qualche modo spettacolare. Felix Torres fa una rovesciata che finisce sulla testa di Enner Valencia. Dopo due minuti e mezzo il VAR già interviene, e c’è la prima segnalazione del fuorigioco semiautomatico. Un tifoso dell’Ecuador pazzo si alza in piedi e fa il gesto dei soldi ai qatarioti attorno a lui. Uno si mette l’indice alla bocca e lo invita a stare zitto. (I due si riconcilieranno più avanti).

 

Il gol è annullato, ma la difesa del Qatar è lentissima e mal posizionata. Dopo 14 minuti, la prima volta che la squadra si concede di allungarsi un po’, viene infilata. La misura dell’ultimo passaggio di Estrada pare sbagliata, ma la difesa si muove con una lentezza tale che Enner Valencia arriva in anticipo sul portiere, che lo stende. Valencia calcia il rigore con una calma piena di stile.

 

Giorni fa è uscita la notizia (a dire il vero inconsistente) che il Qatar avrebbe provato a corrompere alcuni giocatori dell’Ecuador per perdere 1-0. Per fortuna sembra che possiamo risparmiarci una visione paranoica, a cercare di indovinare segni presunti di una partita venduta.

 

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Nel 1930 la FIFA organizza il primo mondiale esercitando il proprio spirito idealistico. È quello spirito idealistico ad aver piantato i semi del sacro nel calcio. Persone riunite in un’organizzazione dove si spendeva una grande quantità di energie per dare vita eventi da cui non ricavavano nulla, col solo scopo di riunire i vari movimenti calcistici del mondo in una competizione.

 

Come raccontato dal documentario di Netflix FIFA: Tutte le rivelazioni, l’età dell’innocenza termina con l’elezione di Joao Havelange nel 1974. La FIFA comincia a inseguire il profitto. Quattro anni dopo il peccato originale da cui parte, in un certo senso, il calcio moderno: i Mondiali assegnati all’Argentina della giunta militare di Videla, con dietro, per la prima volta, l’intero baraccone di sponsor che trasformano definitivamente un’esperienza, un patrimonio pubblico, in un prodotto. Havelange, brasiliano, ha una presenza molto novecentesca, con un fisico imponente, lo sguardo austero, a metà tra l’aristocratico e il militare. Il suo regno nasce con delle buste marroni piene di contanti distribuite ai presidenti delle Federazioni a cui chiedeva voti, e prosegue con le buste piene di soldi che il fondatore di Adidas gli girava in cambio del monopolio dei diritti televisivi e di marketing. Havelange è stato il primo a rendere la corruzione nella FIFA non un fatto contingente ma sistemico. Un fatto così naturale, chiaro, che pochi giorni fa l’attuale presidente Gianni Infantino si è permesso di dire che chiunque può organizzare un evento calcistico, anche la Corea del Nord. Basta pagare, insomma.

 

Questo tipo di sfacciataggine è una novità per la FIFA, cominciata negli ultimi anni dopo le indagini. Sembrava essere la stessa FIFA a meravigliarsi che, insomma, qualcuno si stupisse ancora. Interrogato sulla presunta corruzione per i Mondiali assegnati a Russia e Qatar, Blatter disse: «Mondiali comprati… mi ricordo l’assegnazione per il 2006, dove all’ultimo momento qualcuno lasciò la sala e alla votazione invece di 10 a 10 finì 10 a 9 per la Germania». Come a dire che i Mondiali, in fondo, sono tutti comprati. Anni dopo Infantino ammise pubblicamente che le autorità sudafricane comprarono i voti necessari per superare la candidatura del Marocco. I Mondiali in Russia e Qatar sono stati assegnati nel 2010 in contemporanea, ma è stato quello in Qatar il primo a sfuggire di mano persino a Blatter, che sperava nell’assegnazione agli Stati Uniti, che presentavano una candidatura più solida. I membri dell’esecutivo gli si rivoltarono contro, anche per contestarne la presidenza, e alla fine il Mondiale fu assegnato a questo paese senza nessuna infrastruttura, con un clima inospitale e una cultura calcistica inesistente. Pochi giorni fa Blatter ha detto che l’assegnazione dei Mondiali al Qatar è stata un errore. Può suonare come un’ipocrita redenzione di fine carriera, ma denota il fatto che in quel momento lo stesso Blatter si era accorto che il meccanismo di potere della FIFA, che lui stesso aveva contribuito a creare, si era spinto troppo oltre. È stato un punto di rottura.

 

Dai Mondiali del 1978 accanto alla storia del calcio giocato, sempre gloriosa, comincia una storia del calcio parallela a quella che raccontiamo ogni giorno. Una storia di squallore, corruzione, politica affaristica, depravazione morale, che arriva fino in Qatar.

 

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Nel frattempo il sacro del calcio si è rappreso in immagini particolari che sono diventate il senso stesso dello sport. Sottilmente o più apertamente ci parlavano di significati universali. Pelé portato a spalle in trionfo dopo i Mondiali del 1970. Maradona che agita il braccio dopo il gol di mano all’Inghilterra nel 1986. L’urlo di Tardelli dopo il gol alla Germania e le braccia alzate di Sandro Pertini. Per chi non conosce il calcio queste immagini sono mute. Persino un esempio estremo dell’infantile euforia a cui possono cedere le persone. Per chi ama il calcio quelle immagini sono tutto, icone in grado di sprigionare una potenza religiosa. Contengono mondi di senso e di valori. Come facciamo a tenerle insieme con lo squallore delle sue istituzioni?

 

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Al 31’ un gol clamoroso di Enner Valencia. Il primo grande gol di questo Mondiale. Il cross è abbastanza lento, e soprattutto basso, Valencia lo colpisce torcendo la testa prima verso il basso, e poi bruscamente verso l’angolo della porta. Valencia diventa il maggior marcatore della storia ai Mondiali dell’Ecuador. Vediamo immagini di qatarioti vestiti in abiti tradizionali che si portano le mani al volto, mentre la Nazionale dell’Ecuador esulta disponendosi in uno strano cerchio magico. Una di quelle esultanze coreografiche che per qualche ragione vediamo solo ai Mondiali.

 

C’è un settore di tifosi qatarioti che non si arrende e continua a sostenere la squadra come se fossero ultras sudamericani. Indossano una maglietta col magenta con sopra la scritta Qatar, portano dei tatuaggi e cantano instancabilmente.

 

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Per tutti questi anni abbiamo provato a ignorare la politica affaristica controversa alla base del calcio. Intendiamoci, tutti sappiamo che la FIFA è corrotta, ma è sempre riuscita per lo meno a tenere la propria sporcizia lontana dai riflettori. A non darle delle storie e delle immagini con cui potessimo toccarla. Ha provato a nascondersi dietro l’immagine di un’organizzazione umanitaria (“Una specie di ONU del calcio” la definiscono nel documentario su Netflix). Non che credevamo davvero alle loro bugie. Alle fasce da capitano color arcobaleno, alle campagne pubblicitarie intitolate “Respect”. Sapevamo che era un lavoro cosmetico costante per coprire un’immagine orribile. La discrezione con cui la FIFA ha portato avanti i propri affari però ci permetteva di sopportarli.

 

L’impalcatura ha retto, almeno fino al mondiale in Qatar, che ha portato le conseguenze del marciume della FIFA su una scala più grande.

 

Con questo Mondiale la FIFA ci sta sbattendo davanti immagini e storie impossibili da ignorare, accendendo le luci su ciò che forse preferivamo ignorare. Migliaia di morti sul lavoro, tangenti, la più grande festa del calcio in un paese che non rispetta i diritti dei lavoratori, degli omosessuali, dei giornalisti, di chiunque protesti contro le autorità (che rischia fino a cinque anni di prigione). Un paese in cui le donne che subiscono aggressioni sessuali possono venir accusate di relazioni extraconiugali, e venir sottoposte a fustigazione e che vivono dentro un sistema di controllo maschile che le discrimina su base quotidiana.

 

Quello che fa il calcio è produrre immagini artificiali per nascondere il reale. O meglio: proporci solo il prodotto finito, sempre scintillante, di un processo che spesso è torbido. Prendendo in senso ampio, può essere vista persino come la natura stessa del calcio e del rapporto con le nostre vite, quello di farsi da macchina dell’illusione. Questo lo sappiamo. In Qatar però lo stridore fra le due immagini, la differenza tra il fronte e il retro, è diventato più difficile da ignorare.

 

Nei giorni che precedono la partita inaugurale bande di tifosi sfilano per le strade di Doha. Sono tifosi finti, nel senso che il Qatar li ha assunti per impersonare dei tifosi autentici: indossano maglie e sventolano bandiere di nazioni a cui non appartengono e verso cui non provano nessun sentimento. Da anni i grandi dirigenti del calcio si lamentano della perdita di interesse verso il calcio, e il modo a cui hanno pensato per rimediare è stato organizzare il più importante evento calcistico in un posto in cui, storicamente, a nessuno pare fregare niente del calcio. Cosa c’è di più impressionante di questo teatro di plastica?

 

 

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Uno dei poemi in prosa più celebri di Charles Baudelaire si intitola “Perdita d’Aureola”.

 

«Poco fa, mentre attraversavo il boulevard di gran carriera, certo, saltellando qui e là nel fango, in mezzo a quel mobile caos dove la morte arriva al galoppo da ogni parte e simultaneamente, ecco che la mia aureola per un brusco movimento m’è scivolata dalla testa nel fango della carreggiata. E non ho avuto il coraggio di riprenderla, ma ho giudicato meno disdicevole perdere le mie insegne piuttosto che farmi rompere l’osso del collo. E poi, mi son detto, non tutto il male viene per nuocere. Adesso posso andarmene a zonzo in incognito, compiere basse azioni, darmi alla crapula come un qualunque mortale. Ed eccomi qui, proprio simile a voi, come mi vedete!».

 

Con l’aureola il poeta perde la sua sacralità, e non può più essere la coscienza critica della società e dei suoi ideali. Non ha più nessuna autorevolezza.

 

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L’unico atteggiamento che negli ultimi anni permette alle persone consapevoli di seguire il calcio è la schizofrenia, o se preferite il bispensiero orwelliano. «Assumere coscientemente l’incoscienza, e quindi da capo, divenire inconscio dell’azione ipnotica or ora compiuta. Anche per capire il significato della parola “bispensiero” bisognava mettere, appunto, in opera il medesimo».

 

Siamo sempre stati consapevoli della corruzione che è alla base delle istituzioni sportive, ma al contempo siamo ancora capaci dimenticarle per riconoscere un senso del sacro nello spettacolo calcistico in sé. Nelle serpentine di Maradona e Messi, negli anticipi di Cannavaro, nei filtranti di De Bruyne, nei gesti tecnici che attualizzano il senso del calcio ogni volta.

 

Può essere vera l’una e l’altra cosa? 

 

Credo di sì, ma ogni quattro anni lo sforzo di credere vera una cosa e il suo opposto si fa più faticoso. Il Mondiale, con i suoi significati, è più importante di chi lo organizza. Eppure il senso del sacro scolorisce, si fa meno potente, meno in grado di parlarci.

 

Non smetteremo di seguire i mondiali oggi, né tra quattro anni, né tra 50, se il mondo esisterà ancora. La svalutazione del mondiale però è già in corso. Per l’importanza crescente del calcio per club, certo, ma anche per una gestione sempre più superficiale e cinica del suo spettacolo. Il Mondiale sta perdendo il senso del sacro che rendeva possibile dare un significato più grande a 22 giocatori che si affrontano rappresentando lo spirito delle rispettive nazioni. L’interesse e l’amore per il calcio non sono sentimenti dati, di natura, ma si reggono su un ecosistema fragile, a cui noi decidiamo di dare importanza. Ci proiettiamo cose ben più grandi di una partita di calcio, ed è una forma di fede. Tutto intorno però le organizzazioni del calcio dicono o fanno cose che sminuiscono il valore profondo di questa cultura, la riducono a merce, e per noi è sempre più difficile rivolgergli il nostro atto di fede.

 

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Il Qatar ha perso contro l’Ecuador per 0-2, diventando la prima squadra di una nazione ospitante a perdere la partita inaugurale. A fine primo tempo centinaia di persone hanno lasciato lo stadio, aprendo delle chiazze di vuoto sugli spalti. È stata una sfida squilibrata che ha lasciato un certo senso di alienazione. Per il prossimo mese però il calcio proverà a scrollarsi di dosso questa alienazione, l’atmosfera spettrale che si respira in Qatar, la violenza su cui sono edificati gli stadi dentro cui si compie il rito. Cercherà di tornare a essere una macchina dell’illusione, una macchina dell’euforia, e solo continuando a credergli possiamo provare a tenerlo in vita.

 

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Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021).