• Apocalisse Mondiale
Daniele Manusia

Il Mondiale delle seconde voci

I commenti tecnici di Stramaccioni e Adani hanno fatto discutere molto.

Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche, in questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.

 

In un Mondiale in cui molti tifosi italiani avevano bisogno di una scusa, di una ragione d’interesse che colmasse l’assenza della Nazionale, siamo stati travolti dalla wave di Stramaccioni e ci siamo ritrovati a parlare dei commentatori tecnici con lo stesso piglio con cui, di solito, parliamo di calciatori e allenatori. È anche merito loro, sia chiaro, della loro presenza difficile da ignorare. Ma più in profondità ci deve essere qualcosa che spieghi questa nostra fissa per le “seconde voci”. Sembrano spuntate dal nulla una decina di anni fa, forse prima (sono comuni in altri sport e, come ricorda Massimo De Luca nel suo Sport in Tv, sono comparse per la prima volta in Italia nel contesto della Radio Rai), ma quando è successo esattamente che una seconda voce si è aggiunta alla prima, che partita era, chi ha avuto l’idea, perché se ne è sentito il bisogno? E perché, soprattutto, hanno un così grande impatto oggi sulla nostra esperienza di spettatori televisivi, in positivo o in negativo?

 

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Personalmente ho due teorie in merito, ma prima devo confessare che non sono né entusiasta né infastidito dagli slanci più estremi di Strama, né da quelli di Adani. L’Iran segna al 98esimo e Stramaccioni grida in sottofondo non come se avesse allenato per sei mesi lì ma come se ci fosse nato e cresciuto prima di venire rapito da un gruppo di turisti romani e costretto a crescere a San Giovanni: ok, mi strappa un sorriso. Segna l’Argentina quasi eliminata contro il Messico e Adani grida che Messi è il migliore al mondo come se ci stesse parlando dalla cima dell’Himalaya e noi fossimo a valle: ok, lo trovo appena esagerato ma insomma che c’è di male? Il fatto anzi che vengano usati l’uno contro l’altro, o meglio che Stramaccioni venga innalzato ad alternativa “sana” di Adani, mi pare quantomeno strano, visto che la cifra stilistica fatta di perizia tecnico-tattica ed epica a portata di mano è di fatto la stessa. 

 

Certo ci sono delle differenze e forse è ad Adani che si riferisce (per deduzione, ma magari sbaglio io a dedurre) Fabrizio Biasin su Libero quando dice che il pregio di Stramaccioni è che “non se la tira”, che non parla come “se lui fosse il re del calcio e tu uno stronzo qualunque”. Ma anche questa mi pare davvero una distinzione sottile che dice più del rapporto personale (come se le seconde voci fossero in casa nostra, sul divano vicino a noi) che instauriamo con queste benedette seconde voci che dell’effettiva qualità dell’uno o dell’altro. In fin dei conti la differenza sta solo nel fatto che Stramaccioni è una novità e che, a differenza di Adani, non è ancora consapevole del proprio “personaggio”. Magari ci stancheremo anche di lui e le cose che oggi ci fanno ridere – “Si è messo le mani nei non capelli, perché non ce li ha”, quando Khazri della Tunisia si è disperato per un’occasione sfumata; “Daje Canada” all’inizio della partita con la Croazia che poi l’ha vista eliminata – diventeranno insopportabili, per ora però Stramaccioni è una ventata di aria fresca. Mentre Adani è parte del nostro immaginario da una decina d’anni e questo doveva essere il Mondiale della sua definitiva consacrazione,  ha fatto già il percorso completo e forse è anche naturale che qualcuno ne sia annoiato. 

 

(Ed è altrettanto comprensibile che susciti reazioni meno viscerali lo stile compassato di Sebino Nela, che però a ben guardare ha quegli stessi “tic” tipici del mestiere che possono piacere/infastidire. Così come Adani usa la parola calcio come termine polisemico e autosufficiente – i video in cui si butta in mare gridandolo – oppure se ne può uscire con giri di frasi vagamente altisonanti che sembrano a rimandare a una visione troppo profonda dello sport – tipo quando dice che Cristiano Ronaldo “vive il colpo di testa” in un certo modo, cioè saltando molto in alto; così come Stramaccioni esagera nei suoi come diciamo in gergo per darsi un tono, anche Nela è tutto nei suoi laconici però quando qualcosa lo stupisce, insomma quando quando qualcosa lo delude, nei commenti volutamente banali. È il mestiere stesso che richiede ripetitività, frasi fatte a cui ricorrere come leganti tra pensieri. Anche il suo “non personaggio” in realtà è un personaggio).

 

E comunque già adesso Stramaccioni non piace proprio a tutti. Per esempio non piace ad Aldo Grasso. Da una breve ricerca sono riuscito a risalire a una mezza dozzina di articoli degli ultimi anni (immagino che in totale siano molti di più) del critico televisivo, tutti decisamente “contro” la seconda voce e, in parte, anche contro la prima, colpevole di non lasciare spazio a silenzi e rumori di fondo. Su questo sono d’accordo, ci deve essere una ragione se i commentatori italiani sembrano vivere con ansia le loro cronache, se ogni vuoto nel loro dialogo sembra generare angoscia reciproca. Ma sono d’accordo praticamente solo su questo con Aldo Grasso, che da una parte trova ridondante quando il telecronista si limita a tradurre in parole quello che possiamo vedere da soli ma che dall’altra è infastidito anche quando prova ad aggiungere qualcosa. È contro contro le frasi gergali (persino “attaccare gli spazi” è gergo per lui) e anche contro le statistiche

 

Se ho capito bene alla base delle critiche di Aldo Grasso c’è un’idea del calcio come materia di per sé impossibile da raccontare (perché la sto già vedendo) e da spiegare, perché “a volte”, come ha scritto dopo un Liverpool-Inter, “una partita non è altro che il risultato naturale di un’assurda, e talvolta persino triviale, concatenazione di eventi (i famosi «episodi»)”. Insomma anche Aldo Grasso sembra sentirsi ridotto un po’ al ruolo dello studente scemo di fronte a una cosa con cui pensava – pensa – di avere un rapporto privilegiato che non necessita intermediazioni. E non è un caso che nel suo abituale spazio Corriere della Sera abbia accolto l’avvento di Stramaccioni come quello di una specie di anticristo. “Prima o poi doveva succedere”, ha scritto dopo una delle prime partite di Strama, “C’è una seconda voce che parla più della prima”. Per il critico, quella di Stramaccioni è “incontinenza verbale” e più in profondità il problema è che “come tutti gli allenatori, Stramaccioni non commenta, allena”. 

 

Non credo però che sia una questione di quanta seconda voce sia presente, se c’è una percentuale esatta – il 30% della telecronaca, il 20% – sembra piuttosto che per Aldo Grasso il problema sia legato alla natura del calcio, che considera alla stregua di un qualsiasi spettacolo (o addirittura alla lettura). Parlando proprio di Adani, ha scritto Grasso: «Se vedo un film, se assisto a uno show, se leggo un libro troverei oltremodo fastidiosa la presenza di qualcuno che, dietro le spalle, spiega quello che sta succedendo». 

 

Arriva a conclusioni più estreme Jonathan Liew sul Guardian, in un pezzo in cui si spinge a immaginare il calcio senza nessun commento. Liew ne fa un problema di tecnologia, partendo da una riflessione su quanto è cambiato il nostro modo di fruire il calcio nel corso degli anni. «I primi commentatori calcistici sono emersi in un’epoca in cui la televisione era ancora parente stretta della radio, quando le immagini erano confuse e c’era bisogno di aiuto per riconoscere i giocatori. Oggi, con il 4K Ultra HD, i nomi sulle maglie, la realtà aumentata e le grafiche in sovraimpressione, ce n’è ancora bisogno?».

 

Liew dice che forse il commento ha senso per richiamare l’attenzione alle molte persone che guardano le partite facendo qualcos’altro, scrollando il cellulare, e nota come lo stile contemporaneo vada sempre più nella direzione del «commento come estensione delle battute da pub». Anche se non condivido le sue conclusioni, penso che Liew abbia colto un punto. Anzi due, che mi permettono di passare alle mie ipotesi.

 

Anzitutto, al contrario di quello che pensa Aldo Grasso, il calcio non solo non è paragonabile a un film ma è profondamente anti-spettacolare. Che le persone stiano o meno su Instagram e Whatsapp mentre guardano le partite, il calcio è uno sport con molti momenti vuoti e noiosi. Il mestiere dei commentatori ha a che fare solo fino a un certo punto con il gioco che tutti vedono, deve soprattutto andare oltre quello che si vede per renderlo, appunto, più spettacolare e interessante. Non devono “spiegare” qualcosa che non si capisce, ma farci guardare con un paio d’occhi diversi – i loro – quello che magari ci era passato davanti senza farci troppo caso. In questo senso è un mestiere più vicino alla scrittura stessa, che alla lettura ad alta voce di un libro. 

 

La mia seconda ipotesi riguarda invece la dimensione collettiva del calcio. Quella del pub di cui parla Liew, quella della tribuna con gli amici, quella del divano. Guardare una partita di calcio in silenzio come il tennis sarebbe impossibile, perché dovremmo volere che a stare zitti siano proprio i commentatori? Perché dovremmo volere commentatori pacati, distaccati, se la storia del calcio in tv passa per momenti in cui il commento deraglia nella passione più esagerata?

 

Il ta ta ta ta ta ta di Victor Hugo Morales; l’Augeroooooooo di Martin Tyler quando fa vincere il Manchester City all’ultimo momento; il Campioni del Mondo ripetuto tre volte da Caressa come citazione di Nando Martellini; il “Roma risorge dalle sue rovine” di Peter Drury dopo il gol di Manolas che ha completato la rimonta con il Barcellona, seguito da un lungo brano improvvisato in cui lo paragona a un dio greco. Ma anche cose più piccole, come le sciabolate di Piccinini, sono una cosa sola con il calcio che Piccinini ha raccontato. 

 

Ovviamente non è che chiunque parli in un microfono durante una partita di calcio entra di diritto nella storia dello sport, o della televisione. Ma se il ruolo del commentatore è invadente per sua natura – ed è sempre arrogante dal momento in cui, quando non siamo d’accordo, non possiamo rispondergli – la sorpresa di Stramaccioni sta nella normalità con cui sembra vivere anche i suoi momenti più assurdi. Oltre alla grande competenza e alla capacità di leggere le partite (perché questo sì, serve ancora allo spettatore e non è da tutti), la cifra di Strama sta in quella passione molto sincera e diretta che lo fa somigliare a un nostro amico che prende troppo sul serio il commento di una nostra partita a FIFA.

 

In ultima analisi dobbiamo forse chiederci se non c’è un po’ di invidia da parte nostra nei confronti delle seconde voci. Non della prima. Non di quella che dà ritmo, che racconta, bensì quella che commenta, l’esperto che spara i giudizi – chi è il migliore in campo? Chi dovrebbe togliere il Mister a un quarto d’ora dalla fine? Chi merita di vincere? – e più in generale la propria visione del calcio. Italiani, un popolo di santi, navigatori e seconde voci. Ah, quanto vorremmo essere al posto loro!

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).