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Dario Saltari

La lite tra Ibrahimovic e Lukaku non è solo un affare personale

Non solo una rissa tra bulli.

La scena la conoscete. Al 44esimo del primo tempo dei quarti di finale di Coppa Italia tra Milan e Inter, Lukaku riceve spalle alla porta e viene immediatamente preso in marcatura da Romagnoli. L’attaccante belga si gira su sé stesso e resiste a una prima carica di Kessié che prova a buttarlo giù con una spallata, perdendo l’equilibrio. Quando è ormai sul punto di cadere a terra, Lukaku scarica sull’esterno verso Darmian per non perdere il possesso, ma un attimo prima Romagnoli, che l’aveva seguito fino a quel punto, decide di abbatterlo definitivamente urtandolo con il fianco. L’attaccante dell’Inter non la prende bene, si rialza di corsa e va con aria minacciosa verso il capitano del Milan, che forse non aspettava altro. Si accende una discussione che coinvolge quasi tutti i giocatori in campo ma in breve tempo (non sappiamo esattamente come, perché la regia stacca su un replay) la scena se la prende Ibrahimovic, che si avvicina a Lukaku per ripetergli più volte «Go to your mother, go do your vodoo shit, you little donkey», più o meno letteralmente: «Vai da tua madre, vai a fare le tue stronzate vudù, asinello». L’attaccante dell’Inter si risente, va testa a testa con Ibrahimovic, poi, secondo le ricostruzioni giornalistiche (perché le sue frasi non sono chiare dalle immagini televisive), gli dice: «Vuoi parlare di mia madre? Perché? Fottiti, tu e tua madre. Parliamo della tua, di mamma: è una puttana». Il bordocampista della RAI, che prova a interpretare la situazione dicendo che Lukaku è infastidito perché Ibrahimovic gli sta ridendo in faccia, avverte immediatamente i telespettatori: «Che tra i due le storie sono un po’ tese dai tempi del Manchester United».

 

Lukaku e Ibrahimovic hanno effettivamente una storia. I due sono stati compagni di squadra al Manchester United per una sola stagione, quella 2017/18. Nell’estate precedente Ibrahimovic stava recuperando dall’infortunio al legamento crociato , e non si sapeva se avrebbe rinnovato il suo contratto annuale con opzione sul secondo. Lukaku, invece, era il nuovo attaccante dei “Red Devils”, appena comprato dall’Everton per una cifra vicina gli 85 milioni di euro. Lukaku, appena arrivato all’Old Trafford, chiese a Ibrahimovic di lasciargli la numero 9, con la punta svedese che accettò mettendosi in cambio sulle spalle la numero 10. Un fatto che allora venne interpretato come la miccia di un rapporto burrascoso. Sky Sport, per esempio, scrisse alla fine del 2017 che Lukaku fosse “infelice” proprio a causa di Ibrahimovic. In campo, però, Lukaku prese il posto di Ibrahimovic al centro dell’attacco del Manchester United, segnando 26 gol in tutte le competizioni, con Ibrahimovic che giocò poco più di 100 minuti spalmati in 5 partite in Premier League in quella stagione, per via di un nuovo infortunio al ginocchio patito a fine dicembre. 

 

Foto di Nicolò Campo / IPA.

 

Forse è per questo che Ibrahimovic, che ama manipolare la sua storia per ingigantire il suo personaggio, è tornato di recente su quella stagione per riscrivere il passato e ridimensionare il ruolo di Lukaku nella sua carriera personale. In un’intervista alla Gazzetta dello Sport dell’ottobre del 2019 il numero 9 del Milan raccontò di quando, durante gli allenamenti al Manchester United, “offrì” 50 sterline a Lukaku per ogni stop riuscito. «E se li azzecco tutti, cosa mi dai?», avrebbe chiesto Lukaku nel ricordo di Ibrahimovic. «Nulla, semplicemente ti rendo un calciatore migliore!». «Per la cronaca, non accettò mai», ha concluso Ibrahimovic. «Forse aveva paura di perdere».

 

Per quanto il carattere personale dello scontro sia stato molto sottolineato per spiegare la rissa di ieri, però, la frase di Ibrahimovic fa riferimento a un periodo immediatamente precedente alla loro convivenza al Manchester United. Precisamente, all’estate subito precedente all’arrivo di Lukaku ad Old Trafford, dopo essere stato conteso per lungo tempo anche dal Chelsea. Quando l’azionista di maggioranza dell’Everton, Farhad Moshiri, cercò di spiegare agli altri azionisti perché l’attaccante belga fosse stato venduto senza aver acquistato un rimpiazzo. Moshiri dichiarò di aver provato in tutti i modi a trattenere Lukaku a Goodison Park, offrendogli addirittura un contratto migliore di quello che stava cercando di fargli firmare il Chelsea. «Era tutto pronto per la firma del suo rinnovo», ha dichiarato in quell’occasione Moshiri «Ma poi Lukaku ha chiamato sua madre. Disse che era in pellegrinaggio in Africa o da qualche altra parte e che attraverso un rito vudù aveva avuto il messaggio che dovesse andare al Chelsea». Una spiegazione che già allora offese Lukaku, che attraverso un suo rappresentate pochi giorni dopo minacciò di fare causa a Moshiri attraverso un suo rappresentate: «La decisione di Romelu non ha nulla a che fare con il vudù. Lukaku è molto cattolico e il vudù non fa parte della sua vita e delle sue credenze».

 

Più che un alterco personale tra i due, insomma, la frase di Ibrahimovic dimostra in realtà quanto l’attaccante svedese approfondisca il background dei suoi avversari prima delle partite quando vuole spostare la gara su un piano mentale, come già avevamo capito qualche giorno fa nella discussione che aveva avuto con Zapata. Il trash-talking è una pratica abbastanza diffusa anche nel calcio e nessuno tra i giocatori contemporanei la utilizza più di Ibrahimovic, che ha costruito una parte della sua immagine megalomane anche su cose dette e fatte in campo per entrare sotto pelle agli avversari. Contro l’Atalanta, però, il numero 9 svedese aveva fatto affidamento al più semplice metro di paragone per misurare il talento di un attaccante, quello del numero di gol, e le sue parole alla fine erano rimbalzate nonostante la sconfitta in un incredibile successo di quello che oggi chiameremmo “personal branding”.

 

Un altro tassello della sua narrazione da “Dio del calcio”, un altro passo nella costruzione di un’immagine mainstream che punta addirittura oltre il calcio, in una dimensione nazional-popolare che include anche il Festival di Sanremo. In questo caso, però, non potendo fare lo stesso visto che i gol segnati non sono mai stati davvero un problema di Lukaku, Ibrahimovic ha dovuto fare affidamento a un colpo più basso, utilizzando un pettegolezzo messo in giro anni fa da un miliardario per giustificare i propri fallimenti di fronte agli altri azionisti della sua azienda. E lo ha fatto urlando più volte la stessa frase in uno stadio vuoto, con l’intenzione quindi di farsi sentire bene da Lukaku e chissà magari anche da tutti gli altri in campo. Riuscendoci perfettamente, tra l’altro, dato che la reazione di Lukaku è stata così violenta da portarlo a sua volta a usare parole molto pesanti e forse epiteti sessisti (che hanno portato alcuni a derubricare la vicenda come una rissa tra “coatti”, aggiungendo un’ulteriore sfumatura classista all’interpretazione). 

 

Quello di Ibrahimovic, insomma, sembra qualcosa di più calcolato di una reazione istintiva di un calciatore che mal sopporta un suo ex compagno di squadra. Tanto più che in passato Lukaku, in una discussione aperta con alcuni tifosi dello United su Twitter, aveva utilizzato parole dolci per parlare di Ibrahimovic, ringraziandolo per il suo apporto alla sua crescita mentale e calcistica. In quell’occasione l’attaccante belga aveva citato un episodio in cui erano venuti a contrasto in allenamento, dandone però un’interpretazione positiva e scrivendo che da quell’episodio aveva capito che Ibrahimovic aveva «dovuto lottare per essere nella posizione in cui si trova». Chissà se Lukaku, un nero cresciuto in Belgio da genitori congolesi in condizioni di estrema povertà, si riferisse anche al fatto che come lui anche Ibrahimovic, cresciuto da una famiglia jugoslava nella periferia più difficile di Malmo, si fosse fatto strada nel mondo del calcio tra pregiudizi e offese.

 

Quel che è certo è che Ibrahimovic tirando in ballo quella storia sapeva come fare male a Lukaku, che infatti vediamo scattare come una molla non appena lo svedese inizia a insultarlo. E questo non solo perché è una storia già smentita, o perché l’attaccante belga è molto legato alla madre, ma anche perché il vudù, in quella storia, è utilizzato in funzione degradante, per dipingerlo come un ingenuo abbindolato da pratiche magiche e superstizioni. In definitiva, come un selvaggio inserito in una società moderna. 

 

Insomma, il fatto che Lukaku sia cattolico e non creda nel vudù non attenua la gravità dell’episodio, semmai rende più esplicito lo sfondo razziale che lo accompagna. D’altra parte, non è la prima volta che Lukaku si vede attaccato con il pretesto della religione – perché il vudù, nonostante ai nostri occhi venga confuso con la magia o la divinazione, questo è in primo luogo: una religione. Nell’estate del 2017 durante una tournée estiva del Manchester United negli Stati Uniti, Lukaku non si presentò alla consegna di un premio come migliore in campo sponsorizzato da Heineken e alcuni tabloid inglesi, come il Daily Mail e il Sunscrissero che si fosse tirato indietro in quanto musulmano. Anche in quel caso, ovviamente, si trattava di una falsità, che però venne presa molto sul serio dalla comunità musulmana inglese.

 

Miqdaad Versi, vice segretario generale del Muslim Council of Britain, in quell’occasione ad esempio dichiarò: «Bisogna anche chiedersi perché questa è considerata una notizia: è perché è un altro esempio per mostrare un musulmano come un’entità separata dal resto della società?». Anche quella volta, insomma, la religione era stata usata per far percepire Lukaku (belga e cattolico, giova ricordarlo) come un corpo estraneo alla società, qualcosa di diverso nonostante tutto. 

 

Ieri, ancora prima del triplice fischio che ha decretato la vittoria dell’Inter, in molti, per una volta più tra gli account calcistici di Twitter che tra i giornalisti mainstream, si sono affrettati a ricordare il passato tra Ibrahimovic e Lukaku per sottolineare il carattere personale della loro discussione, come se il razzismo fosse una cosa meno personale, più razionale e astratta, di un “semplice” insulto alla madre (che forse, per noi italiani, è il peggiore possibile tra gli insulti). Prendendo a prestito le parole di Versi, invece, forse bisognerebbe chiedersi perché Ibrahimovic abbia utilizzato proprio quelle parole per triggerare Lukaku, e perché quest’ultimo le abbia percepite come un insulto.

 

E se questo abbia a che fare non solo con il suo affetto per la madre o anche con il fatto che il vudù nel nostro immaginario venga percepito come un rito sciamanico proveniente da un mondo tribale più che come una galassia di religioni e credenze diffusa non solo in Africa occidentale ma anche tra i discendenti della diaspora africana nelle Americhe e nei Caraibi.

 

Foto di Nicolò Campo / IPA.

 

Alla fine della partita, invece, il mondo del calcio, da tutte le parti, è corso di nuovo a trincerarsi sulla difensiva. Il Milan, tramite il proprio ufficio stampa, ci ha tenuto a precisare che nelle parole di Ibrahimovic non ci fosse alcuna intenzione razzista, concentrandosi soprattutto sull’utilizzo ambiguo dell’appellativo donkey. Anche Antonio Conte, nel post-partita, ha ricondotto la rissa tra Ibrahimovic e Lukaku all’interno della retorica della mentalità vincente, a una crescita di personalità da parte di Lukaku più che una reazione emotiva a un’offesa.

 

«Ho fatto il calciatore, so che gli animi si possono accendere in certe situazioni», ha dichiarato l’allenatore dell’Inter «L’importante è che si rimanga nella propria dimensione. Mi ha fatto piacere vedere Romelu così sul pezzo, ha litigato con uno che ha la cattiveria del vincente. Anche da questo punto di vista sta crescendo, se ogni tanto si arrabbia fa solo che piacere». Il messaggio che sembra trapelare da queste dichiarazioni e precisazioni è che quello che è successo sia solo un affare di Ibrahimovic e Lukaku. I due centravanti delle due squadre di Milano, due uomini-squadra, dalla fisicità possente che hanno messo la fronte di uno su quella dell’altro come due ciclopi, e che hanno utilizzato ogni mezzo per avere la meglio sull’altro.

 

Urlandola volontariamente in uno stadio vuoto, però, Ibrahimovic ha fatto uscire quell’offesa dalla dimensione privata e sportiva, e l’ha fatta entrare nella sfera pubblica, in cui necessariamente quell’offesa viene percepita e analizzata nelle sue ripercussioni più ampie. Lo ha capito anche Ibrahimovic, preoccupato forse per la propria immagine mainstream. Pochi minuti fa ha pubblicato un messaggio sul proprio account Twitter in cui dichiara che: «Nel mondo di Zlatan non c’è spazio per il razzismo: siamo tutti della stessa razza, siamo tutti uguali!», subito prima di aggiungere però che «siamo tutti giocatori, alcuni meglio di altri». Come a sottolineare che lui volesse solo quello di dire che Lukaku era scarso, e di mandarlo su tutte le furie per questo.

 

Anche il suo intento, per sgombrare il campo dal pericolo dell’accusa di razzismo, insomma, è stato ricondurre l’episodio a una sfera personale, come un normale scontro tra calciatori. A qualcosa, insomma, che non ci riguardava, nonostante sia arrivata forte e chiara alle orecchie di centinaia di migliaia di persone che guardavano la partita in televisione. 

 

 

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Dario Saltari è uno degli scrittori che curano L'Ultimo Uomo e Fenomeno. Sulla carta, ha scritto di sport per Einaudi e Baldini+Castoldi.