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Fabio Severo

Roland Garros, passato e presente

Le uscite di scena di Zverev e Kyrgios, la tenerezza infinita di Juan Martìn del…

Il futuro del tennis maschile ha la faccia d’angelo, è alto un metro e 98 cm, ha dritto e servizio molto potenti e non sa fare la volée di rovescio. Che poi è proprio quello che ci si può aspettare dal tennis moderno. Alexander Zverev, appena vent’anni e appena vincitore degli Internazionali d’Italia battendo Novak Djokovic in finale, arriva a Parigi visto dai più come prossimo leader del tennis mondiale, e il peso di tutta questa attenzione si traduce in una mala sconfitta in quattro set al primo turno contro Fernando Verdasco.

 

Trentratre anni e centinaia di maratone tennistiche alle spalle, Verdasco non si scompone e accetta di buon grado una partita fangosissima, con i due imprigionati in scambi con nessuna variazione, battaglie di resistenza in attesa che l’altro ceda terreno o commetta un errore. Il giovane Zverev non gradisce il logorìo del confronto, sbaglia sempre di più e si irrita ancora di più, con i modi di chi non riesce a accettare che le cose non vadano come dice lui. Il divario fra quello che vorrebbe fare e quello che riesce a fare cresce senza sosta, a spese di qualche racchetta maltrattata, e l’incontro si chiude con una serie di errori capricciosi, rimandando la sua ipotetica consacrazione e restringendo un po di più la rosa dei candidati a vincere il Roland Garros attorno ai soliti Nadal e Djokovic.

 

Tra l’altro Zverev è il ragazzo immagine di un nuovo torneo che si terrà a Milano a novembre, le cosiddette Next Gen Finals. Dove Next Gen sta per la nuova generazione di campioncini, i migliori otto under 21 che si sfideranno in una competizione che non darà punti ma un discreto montepremi. Inizialmente pensato come un normale torneo a due gironi all’italiana seguiti da semifinali e finale, è stato poi trasformato in un maxi-esperimento per capire come si può rendere più sexy il tennis per accontentare la bassa soglia di attenzione dei millenial. È risaputo che il grosso problema sono le partite dalla durata imprevedibile, la noia dei cinque set, i tempi morti continui. E allora in quella settimana sperimenteranno sulla pelle dei talenti del prossimo decennio: set più corti, game più corti, pubblico più o meno libero di muoversi durante il gioco, finito l’incubo dell’ingresso esclusivamente ai cambi campo, e altre cosette per velocizzare l’azione di gioco. Sarà circo, oppure scopriranno come scongiurare la temuta emorragia di spettatori al ritiro di Roger Federer, o di Serena Williams? È noioso il tennis, oppure chi lo gioca?

 

 

In una dimensione parallela alla nostra il futuro sarebbe stato un altro, costellato dei successi di Juan Martìn del Potro, la cosa più bella mai accaduta nel mondo del tennis. Ritorna a Parigi dopo cinque anni di assenza, perché nel frattempo ha avuto almeno tre chirurgie, ogni volta ripartendo da zero, senza classifica. Tormentato dai polsi, a cui nel tempo si sono aggiunte anche, ginocchia e quest’anno la schiena, del Potro sembrava dovesse saltare anche quest’anno ma all’ultimo ha confermato.

 

Sarà per questo che per il suo esordio gli assegnano il campo n. 6, due tribune minuscole che terranno al massimo duecento persone. Forse neanche gli organizzatori ci avranno creduto che la mattina del Potro si sarebbe presentato davvero, e così nel dubbio gli hanno dato un campo piccolino, così se cancellava non era un grosso problema riorganizzare il programma. Difatti i due metri di altezza di Juan Martìn fanno sembrare il court numéro six una miniatura, come se le sue braccia potessero arrivare a sfiorare i volti nelle prime file. Non l’ho mai visto giocare da così vicino, seguo la partita in piedi da dietro due enormi telecamere, riuscendo a vedere i giocatori solo quando sono al fondo, con la rete completamente nascosta. C’è un palazzo subito dietro a una delle due linee di fondocampo, una quindicina di appartamenti hanno una visuale dell’incontro migliore di noi sugli spalti. Dopo un paio di game più di cento persone attendono fuori, nella speranza che si liberi qualche posto.

 

Del Potro è stato l’ultimo vero predestinato, già fortissimo a vent’anni, quando nel 2009 sconfisse Federer in cinque set nella finale dell’US Open. Naturalmente portato per i match importanti, gioca i punti critici con il sangue freddo e l’apparente incoscienza dei grandi. Sa quando rischiare, sa quando deve colpire le linee, e ci riesce quasi sempre. Ma ha sofferto troppi infortuni e troppe operazioni, è già un miracolo che riesca a ricreare il suo gioco ogni volta, a continuare a essere in fondo uno dei migliori pur non riuscendo quasi mai a competere più di sei mesi all’anno. Ha un’aria da Grande Gigante Gentile, sui social network posta fotografie mentre abbraccia il suo terranova, pesca al lago, passa l’aspirapolvere in casa, regala la sua racchetta a papa Francesco, prende in braccio bambini. Ogni volta che torna gioca qualche partita epica che conclude abbracciato all’avversario, in lacrime, oppure abbracciando raccattapalle, giudici di linea, dando il cinque a spettatori, o benedicendo farfalle che gli si poggiano sulla racchetta. Insomma è simpaticissimo, e non è giusto che gli siano capitate tutte queste sfortune mediche.

 

In più ha il dritto più spettacolare del tour, una saetta colpita piattissima che lascia immobile l’avversario. Ma la sorte ha deciso che possiamo averlo solo a sprazzi, e quindi bisogna accontentarsi di vederlo vincere qualche partita, qualche torneo di media fascia, sperando segretamente che riesca di nuovo a battere tutti, magari qui a Parigi, fosse soltanto per vederlo celebrare la vittoria piangendo sulle spalle di tutti gli spettatori e ringraziando tutti i santi in paradiso. Lo accompagno durante i primi due set del suo primo turno contro l’amico e connazionale Guido Pella, e visto che li vince facilmente posso lasciarlo chiudere l’incontro anche da solo, nonostante il vistoso taping applicato sulla schiena.

 

 

Il suo turno successivo contro Nicolas Almagro naufraga invece in un mare di lacrime: del Potro vince il primo set ma comincia a sentire dolore all’inguine, poi Almagro chiede l’intervento del medico dopo aver vinto il secondo, e pochi minuti dopo, mentre aspetta di rispondere al servizio di del Potro, si piega in avanti appoggiando le mani sulle ginocchia e comincia a singhiozzare. Si butta per terra e continua a piangere, allora del Potro scavalca la rete e va a accarezzargli la pancia, gli parla vicino, gli dà l’acqua, lo abbraccia accarezzandogli la testa, si siede vicino a lui, insomma quello che nella vita normale forse faremmo tutti, ma che per qualche ragione quando accade tra atleti professionisti davanti a delle telecamere sembra la cosa più bella del mondo. “Gli ho detto di stare calmo, di pensare alla sua famiglia, di pensare a suo figlio”, dato che Almagro è diventato papà un paio di mesi fa. Del Potro continua a spargere tenerezza su questo freddo mondo del tennis, e in cambio riceve il numero uno del mondo Andy Murray al terzo turno. Speriamo soltanto che non vada in pezzi durante la partita.

 

 

Quando Nick Kyrgios serve si sente un rumore come se le corde, il telaio e la pallina si rompessero e si facesse un buco a terra dove il servizio rimbalza. Visto dal bordo del suo fondocampo l’avversario oltre la rete, il tedesco Philipp Kolschreiber, appare non più grande di un bambino. Scontro tra due colpitori duri, si susseguono scambi brevissimi, come se non si giocasse sulla lenta terra battuta. I giudici di linea e i raccattapalle schivano palline di continuo, i servizi non scendono sotto i 210 all’ora, il rettangoletto di cemento che circonda il campo costringe il pubblico troppo vicino ai proiettili sparati dai due.

 

Kyrgios gioca come se nel mezzo secondo prima dell’impatto stia sempre lì a scegliere tra cinque o sei soluzioni diverse, prendendone una all’ultimo istante. Vedi la testa della racchetta andare indietro per prepararsi a impattare la palla e la sensazione è che neanche lui sa cosa succederà. Cammina ciondolando per il campo con l’aria da rapper, compensa con il braccio la poca voglia di correre che per sua stessa ammissione fa sì che la terra non sia la sua superficie preferita.

 

Capace di fare più o meno tutto, incluso colpire in mezzo alle gambe, giocare a rete, dominare da fondocampo, ma anche buttare partite e dire che preferisce il basket al tennis, è lui potenzialmente il miglior giocatore dei prossimi dieci anni. Se impiantassero nel suo cervello l’ossessione agonistica di Nadal, la disciplina atletica e la cura del corpo di Djokovic sarebbe contemporanemante il più forte, il più talentuoso, il più divertente, in breve il più interessante giocatore del circuito. Ma non lo sa neanche lui se vuole davvero arrivare lassù: una cosa è avere talento, un’altra è costringersi a rigenerarlo per anni e anni, continuare a vincere fino allo sfinimento.

 

Kolschreiber invece ha un gioco pulito, scolastico, i colpi e le strategie sembrano presi da un manualino, ha uno stile che è la semplice somma delle cose che sa fare, eseguite come gli è stato insegnato. Kyrgios vince ordinatamente in tre set, ma al turno successivo contro il sudafricano Kevin Anderson dura un set e mezzo: appena sfuma il suo vantaggio prima si arrabbia spaccando racchette, poi perde interesse nell’incontro. Comincia a non giocare, a malapena si piega sulle gambe e lascia correre immobile i servizi dell’avversario. Va sotto 5-1 con un doppio fallo, servendo una seconda di servizio a 211 all’ora. All’inizio del quarto sembra rinato per un paio di minuti, poi smette di nuovo di giocare e perde 6-2 il quarto e ultimo set. Sarà l’interno coscia che si toccava ogni tanto nell’incontro precedente? Oppure gli dava fastidio il caldo? O il fatto che gli spalti non fossero pieni? Appena uno scambio supera i quattro colpi lui comincia a correre di meno, sempre in ritardo, come infastidito che c’è uno dall’altra parte che gli rimanda indietro la palla. E dunque Kyrgios per l’ennesima volta sembra fortissimo e debolissimo al tempo stesso, e tutti torneremo a dire le stesse cose sul suo talento indisciplinato, come dei professori risentiti nell’ora di ricevimento dei genitori.

 

In bagno all’improvviso sento una presenza all’orinatoio alla mia destra, il suono di un sospiro profondo e l’avvicinarsi di una massa ben più grande della mia. Quando mi allontano dal lavandino dopo essermi lavato le mani mi rendo conto che era Boris Becker, in completo beige coloniale e la folta chioma bionda accuratamente phonata. Lo guardo e penso a quando avevo i ritagli delle sue fotografie attaccate all’armadio della mia cameretta, vorrei salutarlo e chiedergli che cosa ne è stato del suo tennis avventuroso, di quel coraggio cieco nel buttarsi avanti a giocarsi i punti e le partite in frazioni di secondo, quella fiducia assoluta nella memoria muscolare di gesti arditi, tocchi al volo, tuffi. Quello stile di gioco fatto di velocità e audacia che a tanti non ha permesso di vincere il Roland Garros, a lui come a Stefan Edberg, a John McEnroe, Pete Sampras. Becker addirittura non ha mai vinto neanche un torneo su terra battuta, un’incompatibilità con il rosso che è quasi diventata un punto d’onore, il marchio di un talento superiore, quello del tennis dei colpi più belli e più difficili, quelli che si ricordano di più.

 

Venus Williams si muove per il campo tra un punto e l’altro con il fare di una regina che si è messa in abiti comodi. Percorre tratti del campo a passi lentissimi, il capo leggermente chino, due grandi orecchini a cerchio ai lobi, come se camminasse pensosa per il suo castello. Tiene sempre la racchetta per la punta del manico, la testa del telaio rivolta verso il basso, con l’indifferenza che si rivolge a un banale attrezzo. Non la stringe mai al cuore, subito sotto il piatto corde, come fa la maggior parte dei giocatori, in mano a lei sembra un oggetto appena raccolto da terra con due dita, non sapendo bene cosa sia. Poi appena inizia uno scambio emette grida guerriere a ogni colpo, gioca sempre per dominare i punti, trovare gli angoli per chiudere o andare avanti verso la rete. Non subisce mai il gioco dell’avversaria, non si limita mai a difendere, vuole dettare il ritmo a tutti i costi.

 

Serena, col pancione di circa sei mesi, la guarda dagli spalti. Ancora più della sorella minore, Venus sa fare tutto in campo. Verso la fine dell’incontro stacca la mano sinistra con disinvoltura per colpire una volée alta di rovescio incrociata. Vince 6-3, 6-1 contro la giapponese Kurumi Nara, saluta il pubblico facendo il consueto accenno di piroetta. Con tutta quest’ansia di celebrare il tennis che verrà, alla fine il torneo potrebbe benissimo vincerlo lei, una settimana prima di compiere 37 anni.

 

 

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Fabio Severo scrive di tennis, di cinema, di cultura, ma non solo, per la carta e per il web. Copre eventi sportivi e non per agenzie e network internazionali e ha curato per anni il blog di fotografia contemporanea hippolytebayard.com.