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Emanuele Atturo

Il tennis italiano non vive più di ricordi

Una coppa che ci ripaga di tanti anni poco felici.

Le voci giravano incontrollate. Un ragazzino con una montagna di capelli rossi e nessun muscolo tirava forte il dritto e il rovescio come nessun italiano aveva mai fatto. Non aveva ancora 17 anni. Si diceva fosse campione di sci, ma che avesse abbandonato la disciplina perché a tennis era persino meglio. Si raccontava di avversari annichiliti, di un fenomeno paranormale. Poi aveva iniziato a frequentare i challenger, dentro le tecnostrutture, o su campi con dietro le case e le sedie di plastica su cui poggiare i borsoni. La pallina sulla sua racchetta faceva un rumore diverso, con una cadenza industriale da video degli Einzturzende Neubauten. Era spuntato un messaggio in un gruppo Facebook di appassionati di sport, un avvistamento alieno al challenger di Ortisei: «Allora ragazzi senza troppi giri di parole… Jannik Sinner (da Bolzano) 17 anni fatti ad Agosto… Abbiamo il nuovo dominatore del tennis mondiale a breve… Non ho mai visto nulla di simile… Ne avevo sentito parlare in modo incredibile ma cosi è esagerato…».

 

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Quattro anni dopo Jannik Sinner ha 22 anni e deve fronteggiare tre match point contro Novak Djokovic nella semifinale di Coppa Davis. È numero 4 al mondo e insomma: ha già mantenuto buona parte delle sue promesse. In quel momento nessuno gli chiede nulla. I rimpianti sono concentrati sulla sconfitta di Musetti con Kecmanovic nel singolare. Sinner ha giocato una partita coraggiosa, ma non c’era molto altro che potesse fare contro quell’ottima versione di Novak Djokovic. Quando devi provare ad annullare tre match point contro Djokovic sei morto. In carriera ha perso appena 3 partite quando ha avuto match point a favore: mai quando ne ha avuto più di uno consecutivo.

 

 

Jannik Sinner però è un giocatore speciale e usa il servizio e la volée, due colpi che fino a poco tempo fa conosceva poco, per annullare i match point della partita più importante della storia recente dell’Italia tennistica. La partita che più di tutte ha riportato la Coppa Davis nel nostro paese dopo 47 anni; la partita che ricorderemo nell’album fotografico di questo successo che somiglia a una liberazione. Perché niente descrive meglio il tennis di una partita che si ribalta all’improvviso come dopo una forte scossa psichica, e che lascia il miglior giocatore al mondo disgregato, confuso a cercare di raccogliere i pezzi di sé stesso. Non pensavamo di poter vedere Djokovic nervoso, smarrito, nel doppio che consegnerà all’Italia la finale contro l’Australia – e quindi una finale in cui partiva favorita.

 

Sapevamo di avere un movimento in crescita, forte e completo, ma non sapevamo ancora di avere un singolarista abbastanza forte da battere il migliore al mondo in una partita decisiva. È la Coppa Davis della tigna di Arnaldi, che ha vinto una partita tremebonda e piena di pressione con Popyrin; è la Coppa Davis della generosità di Lorenzo Sonego, uomo del destino, nuovo grande doppista. Ma è soprattutto la Davis di Jannik Sinner, che ha vinto sempre la sua seconda partita, anche quando pareva impossibile, spesso quando la prima era già persa. È la Davis di Jannik Sinner a pochi mesi dalla campagna mediatica che lo indicava come un caso nazionale, e che oggi – possiamo dirlo – suona come una scelta editoriale infelice come poche, eppure ancora rivendicata senza imbarazzo. È la Davis di Sinner, che di fronte a queste critiche non ha fatto una grinza. Ha spiegato i suoi miglioramenti come la preparazione di una pasta al pomodoro, e ieri ha parlato ai microfoni da uomo squadra; ha ringraziato Berrettini: «Ha avuto un anno molto difficile con gli infortuni. Significa molto per noi che sia venuto qui, ci ha trasmesso tantissima energia positiva». Poi ha avuto un pensiero per Tathiana Garbin, CT della squadra femminile, che oggi è stata operata per una recidiva di un tumore: «Domani è un giorno importante per Tathiana. Speriamo che questa vittoria le possa dare forza, saremo tutti con lei. Qui si parla di vincere la Coppa Davis, di fare la storia. Siamo tutti contenti. Ma quello che conta nella vita è tutt’altro quindi dobbiamo sentirci molto fortunati di essere qui. Siamo tutti con lei».

Ricorderemo altre istantanee di questo percorso pazzo e tortuoso. L’ace con cui Sonego annulla il matchpoint a Jarry, mentre danzavamo sul cornicione dell’eliminazione contro il Cile. Quegli interminabili secondi in attesa della verifica del falco. I massaggi all’adduttore di Lorenzo Musetti, lui sconsolato e noi di più, al terzo set con Kecmanovic. Le 16 palle break di Popyrin con Arnaldi: le ricordiamo tutte come spine tolte dalle mani. Quei due game finali di Sinner contro Djokovic, giocati a metri da terra, assoluto dominatore del campo da tennis, troppo bello per essere vero. La leggerezza, l’incredulità sconosciute con cui abbiamo affrontato il secondo e ultimo set con De Minaur.

 

Ma in questo momento è bene ricordare da dove eravamo partiti, 20 anni fa. A settembre del 2003 all’Italia bastarono due giornate di partite per perdere dallo Zimbabwe, e retrocedere in serie C di Davis. Andando avanti si finì 5-0. Ad Harare, sul cemento veloce, i nostri tennisti viziati della terra persero tutte le partite giocate. Volandri contro Ulyett, Sanguinetti contro Blake.

 

È una sconfitta pluricitata in questi giorni, forte dello schema narrativo “how it’s started – how it’s going”. Le facce di Galimberti e Bertolini, i loro completini da circolo, spiccano crudeli nella loro normalità, nell’articolo del Corriere della Sera dell’epoca. E ci sembra un percorso astratto e distante, ma chi è nato nella seconda metà degli anni ’80 mantiene un ricordo vivido dell’esperienza del medioevo più cupo della storia del tennis italiano. Cosa ha significato vedere la grandezza tennistica come qualcosa di inspiegabilmente lontano, altro da noi – come raccontato da Federico Principi.

 

Questa vittoria, allora, è per chi sognava con Potito e Volandri. È per i fanatici dei colpi in anticipo di Andreas Seppi, della “mano” di Bolelli. È per chi ha tifato le bestemmie di Bracciali al foro e si è gasato con le maratone di Lorenzi. Per chi credeva che la rimonta di Fognini su Nadal agli US Open sarebbe stata il nostro punto più alto, e per chi era a Milano a godere per Sanguinetti-Federer, nel 2002. Per chi non ha ancora capito che è successo a Quinzi. Per chi ha versato una lacrimuccia per Federico Luzzi; per chi ha tifato, non sa nemmeno perché, Giorgio Galimberti, Massimo Bertolini, Diego Nargiso. Per chi ancora sente delle fitte alla spalla, a ripensare alla finale di Gaudenzi del 1998. Per chi non si capacita ancora del viaggio dall’inferno al paradiso, e dal paradiso all’inferno, di Marco Cecchinato. Per chi per anni ha saputo accontentarsi di un tennis minore, e non avrebbe mai immaginato quello che ha visto ieri, e quello che ci aspetterà. Per chi non poteva immaginare di poter tifare un giocatore italiano di 22 anni che ci ha trascinato a vincere la Coppa Davis, e che partirà favorito nei prossimi Slam.

 

È la vittoria di chi per anni ha campato con i racconti della saga della Coppa Davis del ’76: le maglie rosse, le volée di Panatta, gli occhi azzurri di Pietrangeli, la follia di Zugarelli, la solidità di Barazzutti. Per un lungo tempo i 40enni, i 30enni, i 20enni di oggi hanno pensato di non poter mai più sfiorare il mito dei padri. Hanno pensato di far parte di una generazione senza gioie, senza successi, senza storie da scrivere. E non stupisce, allora, il senso di rivincita di queste ore, sui social, mentre si cerca di sottrarre un po’ dell’alone mitico alla Coppa del ’76. È un’iconoclastia anche comprensibile, ma che trasuda una violenza un po’ triste nelle prese in giro a Panatta, negli insulti a Nicola Pietrangeli, che ieri è salito sul palco ad alzare la Coppa brandendo un bastone, ma che dopo ha detto alla stampa che per vincere, nella sua epoca, bisognava per lo meno saper giocare. Pietrangeli anziano e fuori misura nelle dichiarazioni, da sempre incredibilmente egocentrico, ma che è il primatista di presenze e vittorie della Coppa Davis – che resta, comunque, un’icona immortale del nostro tennis.

 

Non è difficile cogliere in questa dialettica uno scontro generazionale che va oltre il tennis; tra una generazione che si è presa tutta la felicità, e di un’altra che ha dovuto raccogliere i cocci. Forse, però, non ne abbiamo bisogno. Si può riconoscere serenamente che la Coppa Davis degli anni ’70 aveva un valore diverso da quello attuale, perché tutto il tennis era diverso – e ruotava stranamente attorno a questa coppa a squadre in uno sport individuale. Forse perché era un’epoca di grandi apparati ideologici, di grandi storie collettive. Ma questo non deve sminuire l’importanza del successo di ieri, il suo valore sportivo: perché è una competizione più facile da vincere, ma quindi anche da perdere; e perché in semifinale l’Italia ha sconfitto una Serbia di altissimo livello, migliore di tante squadre sull’albo d’oro della competizione. Perché coi punteggi lunghi, le trasferte intercontinentali, il 3 su 5, la vecchia Coppa Davis era più faticosa da vincere, ma il livello complessivo del tennis oggi è per alcuni versi più alto e complesso. Insomma, si può per una volta provare a non esaltare i successi di qualcuno per sminuire quelli di un altro – e questo vale per tutti.

 

Dopo la sconfitta con lo Zimbabwe Barazzutti commentò: «È una sconfitta che fa male, non mi sarei mai aspettato che arrivasse già nella seconda giornata. Bisogna prendere atto, accettare con pazienza, tirare su le maniche e iniziare a lavorare per costruire una squadra che possa tornare in Serie B e poi in Serie A». L’Italia si è rimboccata le maniche per davvero, e Volandri che vent’anni fa era in campo in quella brutta sconfitta, è diventato il capitano di questa squadra vincente – dichiarando che «questa vittoria è un percorso partito da molto lontano». Lo sappiamo bene, noi che ricordiamo ancora tutti i passi di questo percorso, e che oggi accogliamo i speriamo tanti nuovi appassionati, rimasti folgorati dalle bordate di Jannik Sinner in prima serata su Rai Due.

 

Qualche giorno fa Maurizio Crosetti aveva twittato: «Ci odiano, noi boomer, perché siamo stati più felici di loro». Per una volta, non è stato così.

 

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Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021).