Per i Cleveland Cavaliers, scendere in campo questa notte coltivando la speranza di uscirne vincitori avrebbe richiesto un autentico atto di fede. Le prime tre gare delle NBA Finals 2018 avevano infatti visto prevalere i Golden State Warriors in ogni aspetto della sfida — dalla gestione tattica alla condotta emotiva passando per le innumerevoli, prepotenti dimostrazioni di dominio a livello di talento individuale. Golden State surclassava i rivali, aggrappati al totem con il numero 23, in ogni intreccio del gioco, trovando ogni volta un modo di portare a casa la situazione di gioco preferita e il risultato a fine gara. Quando non entravano le triple di Steph Curry — capace di segnarne da solo tante quanto l’intero roster avversario in gara-2 e di registrare un inconsueto 1/10 in quella successiva — ecco i campioni in carica rimediare con i letali isolamenti di Kevin Durant.
Coach Tyronn Lue, dall’altra parte, provava a controbattere tirando in ogni direzione plausibile una coperta sempre troppo corta: nel tentativo di rallentare l’entrata nei giochi degli Warriors, Cleveland riusciva con successo a togliere la palla dalle mani di Curry, solo per poi ritrovarsi a dover gestire un Durant immarcabile negli attacchi a metà campo e un Green ispirato come poche altre volte nella conduzione dei possessi in superiorità numerica. Consapevole di scontare un divario enorme in termini di potenza di fuoco dalla lunga distanza, il coaching staff dei Cavs puntava quindi al presidio del pitturato: in effetti LeBron James e compagni hanno vinto nettamente la battaglia a rimbalzo (47.3 di media contro i 38.7 dei californiani nelle prime tre gare, 16.6 contro 5.7 quello dei rimbalzi offensivi), ma il dominio nell’unica voce statistica a loro favorevole si è rivelato sterile. In gara-3, ad esempio, Cleveland ha governato a rimbalzo offensivo (15 a 6 il conteggio finale) ma tirando meno e peggio di Golden State nel pitturato (17/27 nella restricted area per i Cavs, 24/37 per gli Warriors). L’abilità dei “Dubs” nel proteggere il ferro, insomma, ha annullato gli sforzi profusi in particolare da Kevin Love, Tristan Thompson e Larry Nance. In conclusione, i numeri e la percezione visiva non hanno lasciato alcun dubbio su quale sia stata la squadra migliore: il risultato delle singole gare si è poi materializzato nella forma di logica conseguenza di una supremazia acclarata e mai messa davvero in discussione.
Benvenuti a Loudville
I Cavs sono entrati in gara-4 con le spalle al muro per la quarta volta in questi playoff, dopo aver rischiato di uscire con Indiana e due volte con Boston. L’aria che permeava la Quicken Loans Arena era carica di tensione e speranza, il pubblico provava a spingere i suoi alzando il volume del tifo e riservando un trattamento da nemici pubblici a Curry e Durant. Non che quest’ultimi ne abbiano risentito in modo particolare, visto che Durant ha ricominciato subito da dove aveva finito in gara-3, ovvero abusando dei mismatch concessi giocoforza da Cleveland.
Non solo: KD ha provato a dettare la linea anche nell’altra metà campo con due stoppate consecutive, a cui ha fatto seguito una tripla assurda di Curry in controtempo per il 13-3: tutti pessimi presagi per i padroni di casa, con J.R. Smith peraltro lento nel riconoscere il pericolo portato dal numero 30.
Qualora non fosse chiaro il programma per la serata, Steph lo ribadisce poco dopo rubando palla e andando a segnare da dietro la linea dei tre punti in transizione con quella facilità che ormai l’ha reso un’icona del basket contemporaneo.
A scandire il ritmo partita sono le triple degli Warriors: Andre Iguodala e Draymond Green, battezzati dalla difesa avversaria per forza di cose, la puniscono senza pietà. Il piano tattico dei Cavs, già piuttosto traballante di suo, comincia presto a sgretolarsi: la difesa di Cleveland accentua un comportamento già evidenziato in tutta la stagione, passando dalle continue amnesie a un vero e proprio comportamento bipolare. Ad un possesso ben giocato ne segue uno in cui inesorabilmente le rotazioni perdono l’uomo lontano dalla palla, passaggi a vuoto sfruttati con cinismo dai ragazzi di Kerr. LeBron prova tenere in scia i suoi avvicinandosi al canestro di forza e riportando lo svantaggio a soli tre punti.
La panchina dei Cavs, in campo come di consueto insieme a James per aprire il secondo quarto, sembra funzionare meglio rispetto al quintetto base, anche perché Klay Thompson commette il suo terzo fallo quando sul cronometro del secondo quarto mancano ancora 7:32. Proprio sul successo successivo LeBron riporta avanti i suoi.
Il punteggio dice 39-38 per Cleveland e il pubblico di casa si rianima sulla prodezza di James, un gesto che ha il sapore di una boccata d’aria dopo aver tenuto la testa sott’acqua per lungo tempo. L’illusione di poter imporre il proprio ritmo alla contesa, però, dura poco: coach Lue rimette in campo i suoi titolari per gli ultimi 5 minuti del primo tempo, ma il risultato non è quello sperato. A rispedire al mittente il tentativo d’accelerazione dei Cavs è Andre Iguodala, che prima difende in maniera perfetta su James e poi segna la seconda tripla della sua partita dimostrando coi fatti quanto la sua presenza cambi il quadro complessivo.
Tuttavia, Cleveland, come già detto, fa del bipolarismo la sua cifra stilistica e lo stesso J.R. Smith si fa stoppare da McGee appena dopo essere andato a segno dalla lunga distanza. A soli 5 secondi dall’intervallo lungo la tripla di Curry, spietato nel leggere il caos calmo della difesa avversaria, porta avanti di nove lunghezze Golden State.
Titoli di coda
Il terzo quarto si apre con un 6-0 Warriors culminato in un goffo auto-canestro di Tristan Thompson, peraltro unico segnale di vita del lungo dei Cavs in tutta la partita. La panchina chiama timeout, anche se rimane poco di cui discutere: attenendosi ad un canovaccio seguito per tutti playoff, coach Lue si limita ad usare la lavagnetta come il tenente Gordon usa il Bat-segnale: LeBron, salvaci tu. Al contrario di quanto successo negli ultimi due mesi, però, il richiamo al supereroe di casa non funziona; ciò che invece funziona è l’arsenale offensivo di Durant, l’antagonista per antonomasia, che con il suo straboccante talento frustra i tentativi di rimonta di Cleveland.
Non bastasse, l’MVP in carica delle Finals procura uno sfondamento tenendo la posizione su Kevin Love per poi segnare un altro canestro surreale: a fine gara il suo plus-minus segnerà un sovrumano +30. La difesa corale di Golden State produce un ultimo sforzo, concentrando le attenzioni su un LeBron sempre più in difficoltà fisica e mentale. Lo sfondamento del Re su Curry risulta nel suo secondo fallo in attacco della partita, una vera rarità statistica che ne denota l’appannamento fisico e mentale. Il linguaggio del corpo di James, e di conseguenza quello dei compagni, comincia a lanciare segnali di resa. Jordan Bell strappa due rimbalzi offensivi nel giro di pochi secondi e regala agli Warriors possessi extra, mentre dall’altra parte James sbaglia due appoggi sotto canestro che sono il manifesto della capitolazione.
Il palazzo si fa sempre più silenzioso, annichilito da un terzo quarto in cui la squadra di casa ha segnato solo 13 punti. Qualora non fosse ben visibile a tutti la bandiera bianca issata dai Cavs, LeBron inizia l’ultima frazione seduto in panchina. Steph, viceversa, perpetua il delirio di onnipotenza dalla lunga distanza (chiuderà con 7/15 da tre).
James rientra sul parquet con il cronometro a 9:15 dalla fine, la sua partita si fa via via sempre più simile a gara-5 delle Finals 2014, quando arrendendosi ai San Antonio Spurs faceva scorrere i titoli di coda sulla sua avventura a South Beach. Più tardi si scoprirà che ha giocato le ultime tre sfide con un infortunio alla mano destra procuratosi nel prendere a pugni una lavagnetta nello spogliatoio dopo l’avvilente finale di gara-1. Seguono momenti di pura accademia da parte di campioni, impazienti di celebrare uno meritatissimo repeat: l’unico sussulto che scuote la Quicken Loans Arena arriva quando LeBron esce dal campo con quattro minuti ancora da giocare, in una via crucis di strette di mano e monosillabi con compagni e avversari. L’ovazione lo accompagna fuori da questa stagione comunque superlativa, il coro “MVP, MVP” è un invito nemmeno troppo velato a non abbandonare, ancora una volta, la terra natia.
Ci vuole carattere
Una celebre massima del leggendario John Wooden diceva “ci vuole talento per vincere, ma ripetersi richiede carattere”. Golden State ha dimostrato d’avere entrambe le doti in abbondante quantità. Il divario tra le due contendenti si è confermato lampante, tanto da consentire alla superiorità dei campioni di essere catalogata sotto la voce “egemonia”. Inoltre, la determinazione con cui Curry e soci sono scesi in campo stanotte, oltre a colmare quella che fino ad oggi rappresentava l’unica, ipotetica falla di una squadra ai limiti della perfezione, ha suggellato gli equilibri di una serie apparsa segnata sin dal principio, o quasi.
Per quanto il trionfo degli Warriors rappresentasse un epilogo già scritto, è davvero inutile girarci intorno: il punto focale di queste Finals rimane il triplo errore a firma George Hill (secondo libero sbagliato), J.R. Smith (palleggio fino al suono della sirena) e Tyronn Lue (mancata chiamata del timeout ancora a disposizione) che ha deciso la prima sfida. Nei 48 minuti prima di quel momento la sensazione era che tutto fosse possibile, subito dopo che tutto fosse inevitabile.
Forse, però, si è trattato solo di un abbaglio dovuto ai riflessi generati dalla supernova LeBron scagliata nella notte di Oakland. E per quanto possa apparire crudele e noiosa dal punto di vista narrativo, la vittoria di Golden State ribadisce un comandamento scolpito nella pietra dura della storia del gioco: tra la squadra migliore e il giocatore migliore prevale sempre la prima. La sconfitta in dirittura del traguardo finale, d’altronde, è una lezione vissuta sulla propria pelle dai grandissimi del gioco, da Jerry West a Wilt Chamberlain passando per Hakeem Olajuwon e Kobe Bryant. Loro, come gli stessi James e Durant, hanno campeggiato su entrambi i lati della barricata, dove il confine è tracciato dalle lacrime e dai silenzi o dai coriandoli e dalle docce a base di champagne. Tutti, vincenti o perdenti, hanno orientato le rispettive scelte tenendo il Larry O’Brien Trophy come stella polare. Questo è il destino che da domani attenderà i campioni, deputati a trovare un modo di perpetuare la loro epopea, così come gli sconfitti, costretti a ripensare il futuro senza scartare alcuna ipotesi.