LeBron James, andando a sinistra
di Dario Vismara
Quante altre cose nuove si possono dire su un giocatore che si appresta a disputare la sua ottava Finale NBA consecutiva? La grandezza di LeBron James rende difficile anche solo cercare qualche nuovo spunto per raccontare la sua legacy, e trovare qualcosa che non sia stato ancora osservato, analizzato e sviscerato a livello mondiale è una discreta impresa. Dopo 100 partite giocate tra regular season e playoff senza mai saltarne una, dopo due canestri allo scadere nei playoff, dopo sette partite con 40+ punti, tre triple doppie, due gare-7 vinte e 48 minuti su 48 per trascinare forse il peggior supporting cast della sua carriera di nuovo alle Finals, non ci sarebbe davvero più nulla da dire sul giocatore più forte di questa epoca.
Ciò nonostante, la grandezza del Re è tale proprio perché i confini del suo talento sono talmente ampi da poter esplorare anche zone raramente visitate prima, e il primo a saperlo è soprattutto lui. In questa sua quindicesima stagione NBA, a 33 anni che vanno verso i 34, LeBron James ha raggiunto un livello ancora più dominante, ancora più decisivo, ancora più straordinario quando la stragrande maggioranza degli Hall of Famer alla sua età aveva già cominciato la parabola discendente. E come sempre ci è riuscito non accontentandosi di quello che Madre Natura gli ha donato e “vivendo di rendita”, ma spremendo al massimo ogni goccia del suo talento senza lasciare nulla al caso, raggiungendo un livello di conoscenza e di controllo del suo stesso corpo che pochissimi hanno avuto nella storia dello sport.
Seguo la carriera di LeBron James praticamente da tutta la mia vita cosciente, eppure in qualche modo quest’anno è riuscito di nuovo a sorprendermi: sin dal primo turno ero convinto (e ho ripetuto più o meno a chiunque abbia incontrato) che i suoi compagni avrebbero finito per trascinarlo verso il basso, rendendo inutile perfino la sua strabordante presenza in campo. Invece, complici gli errori degli Indiana Pacers, l’auto-distruzione dei Toronto Raptors e l’inesperienza dei Boston Celtics, James è riuscito un’altra volta ad arrivare in Finale portandosi il mondo sulle spalle, realizzando quella che secondo alcuni è la sua più grande impresa in carriera già adesso, anche superiore a quando ha rimontato da 1-3 contro i Golden State Warriors delle 73 vittorie.
Per riuscirci James ha dovuto cambiare qualcosa del suo gioco, aggiungere nuove frecce alla sua faretra o, se preferite analogie più contemporanee, nuove mosse al videogame che gioca nella sua testa ogni volta che scende in campo. Due, in particolare, si sono viste in questi playoff con una continuità che io non ricordo in passato, ed entrambi sono due movimenti contro-intuitivi: il passo laterale a sinistra per tirare in sospensione e la penetrazione attaccando a sinistra, appoggiandosi al tabellone mentre ancora in corsa. A questi due particolari movimenti sono legati alcuni dei suoi canestri più memorabili di questi playoff.
Momenti decisivi di gara-6, due triple in allontanamento contro Jayson Tatum per chiudere la partita.
Il passo laterale a sinistra, in particolare, è la grande novità della stagione 2017-18, un po’ come i parchi divertimenti che aggiungono nuove attrazioni di anno in anno per invogliare le persone a tornare. Nella sua carriera James non è mai stato un grande tiratore dal palleggio: pur avendo fatto enormi miglioramenti sotto quell’aspetto, si vede anche oggi che quel tiro non è suo, e che il suo meglio lo da quando può attaccare in avvicinamento a canestro. Per superare ogni tipo di difesa, però, bisogna avere a disposizione ogni tipo di arma, e perciò il Re ha scandagliato il resto della lega alla ricerca di un tiro da aggiungere al suo arsenale. Mi piace pensare che l’abbia trovata nello step back di James Harden, il singolo tiro che varrà al Barba il primo titolo di MVP nella sua carriera, ma che lo abbia modificato secondo i dettami del suo corpo e del suo talento, adattandolo alla mole di muscoli che deve portare in giro ad ogni secondo.
Ciò che fa la differenza per il tiro di James è il ritmo: nel momento in cui riesce ad averlo, LeBron è sempre stato un tiratore decisamente sopra la media, come dimostra il fatto che nelle triple ricevendo gli assist dei compagni sia sempre stato efficiente. Per questo quel passo laterale che fa andando a sinistra è così importante: gli permette di creare ritmo all’interno del suo corpo anche dove non c’è, raccogliendo il corpo e piegando le ginocchia nella maniera giusta per azionare tutto il resto della meccanica di tiro. Il resto, poi, è solo una questione di polso e di tocco, due cose che a dispetto di quando si dice non gli sono mai mancate. Nel corso di questa stagione LeBron ha trovato talmente fiducia in questo movimento da utilizzarlo persino quando lo spazio a disposizione sarebbe abbastanza per prendersi una conclusione “normale”, seguendo l’adagio che per un realizzatore è più importante il proprio ritmo rispetto alla distanza dal canestro.
James però non si è accontentato solo di quel tiro, ma ha aggiunto un’altra arma da utilizzare solo in situazioni speciali, spesso da alternare rispetto al side-step a sinistra.
Chiedere ai Toronto Raptors per informazioni.
Uno dei “segreti” della capacità di LeBron James di finire al ferro è che è un ambidestro naturale: il Re tira in campo con la destra, ma nella vita di tutti i giorni è sempre stato mancino, sviluppando quindi una sensibilità in entrambe le mani che gli permette di palleggiare e di tirare in area con uguale efficienza. Per questo le sue penetrazioni andando a sinistra riescono a sprigionare più o meno la stessa esplosività di quelle andando a destra, rendendo impossibile per le difese scegliere un lato verso cui mandarlo. In questi playoff, poi, ha portato le sue penetrazioni a sinistra a un livello successivo, inventandosi un tiro di una difficoltà estrema: James attacca abbassando la spalla destra, ma anticipa il tempo dell’arresto staccando sulla gamba sinistra, portandosi naturalmente più lontano dal canestro. Questo ultimo passo gli permette però di creare separazione dal difensore avversario e soprattutto dall’aiuto in area, rendendo la realizzazione del tiro un affare semplicemente tra lui e il canestro: a quel punto subentra l’utilizzo del tabellone, usato come alleato per sopperire alla mancanza di equilibrio dovuta all’inerzia del corpo che lo spinge fuori dal campo.
Come visto anche nella serie con Boston, il tiro è decisamente in faretra.
È un tiro difficilissimo, tanto che lui stesso dopo averlo segnato in gara-3 ha detto in conferenza stampa di “non provarlo a casa”, ma che a lui serve per sorprendere ancora una volta le difese avversarie, sempre più concentrate su di lui dopo che Kyrie Irving è partito verso altre destinazioni e i suoi compagni non sembrano avere la stessa precisione dall’arco rispetto agli anni passati. C’è da scommettere che entrambe le situazioni di gioco saranno state sviscerate in sala video dai Golden State Warriors, che pur non avendo Andre Iguodala per la prima partita della serie, possiedono comunque abbastanza difensori dalle braccia lunghe e dai piedi rapidi per dare fastidio a James, oltre che due dei migliori giocatori in aiuto della lega in Draymond Green e Kevin Durant.
Servirà un’impresa titanica anche solo per tenere in bilico le partite contro i Golden State Warriors, figuriamoci vincerne quattro su sette. Ma arrivati a questo punto, non c’è più niente che possa sorprendere su LeBron James. O quasi.
La pressione sul supporting cast dei Cavs
di Fabrizio Fazz Gilardi
Ragionando per gerarchie, Kevin Love non ha ancora completato il protocollo che la NBA ha istituito per gestire la ripresa dell’attività in seguito a un trauma cranico. Quasi certamente non giocherà gara-1 ed è da valutare la sua disponibilità per la seconda partita, il che per una squadra cortissima e alla disperata ricerca di giocatori in grado di offrire un contributo è una discreta noia.
Se non fosse che contro Golden State il suo contributo non necessariamente sarebbe positivo: nelle scorse Finals ha avuto un Net Rating di -23.6, nettamente il peggiore di squadra, e nelle due sfide dell’ultima regular season è stato di -9.0, anche se contro la strutturazione a due lunghi che gli Warriors stanno utilizzando in assenza di Andre Iguodala l’impresa di nasconderlo in difesa potrebbe essere meno proibitiva.
Oltre a Love e ovviamente LeBron, nessun altro Cavalier ha segnato più di 10 punti di media a partita in questi playoff, e che il valore di riferimento sia un misero 10 rende l’idea di quanto disperata sia la situazione. Limitandosi alle 12 vittorie di questa post-season, il prestigioso traguardo è raggiunto, a malapena, da altri due giocatori: Kyle Korver, che è un eccellente difensore di posizione, ma contro la centrifuga degli Splash Brothers avrebbe fatto fatica già all’apice atletico della carriera e ora rischia di finire travolto; e George Hill, che per pedigree, stipendio, ruolo (anche se indirettamente occupa il posto che era di Kyrie Irving), senso di urgenza dato dalla consapevolezza che per lui potrebbe essere l’ultima e unica occasione di giocarsi un titolo, teoriche abilità difensive (smarrite nei 6 mesi passati a Sacramento), altre motivazioni varie ed eventuali è a lui che LeBron-Batman chiede di essere Robin, almeno nella maggior parte delle occasioni.
Idealmente Hill dovrebbe attaccare Curry, segnare i tiri con spazio a disposizione, fungere da bloccante per fare in modo che LeBron possa portare vicino a canestro l’avversario più piccolo come accaduto nelle finali di Conference contro Terry Rozier, inseguire Steph in difesa, stare in campo almeno 40 minuti e presentarsi “al lavoro” anche nelle gare in trasferta. Tutti compiti che fino a una stagione fa sarebbe stato in grado di svolgere alla perfezione, tanto da essere considerato una delle migliori point guard possibili da affiancare a un ball handler principale che giochi in altro ruolo. Una stagione fa però, perché tra problemi fisici, usura e difficoltà di adattamento ora pare limitato al compitino.
Anche del Tristan Thompson che fu sono rimasti solo sprazzi, specie se si paragona il suo rendimento attuale con quello delle Finals 2016, ribaltate anche grazie alla sua presenza a rimbalzo: nelle tre partite conclusive della serie i Cavs hanno vinto i minuti in cui è stato schierato di 43 lunghezze. La mancanza di alternative credibili gli garantisce 30 minuti di impiego a prescindere da tutto e quindi per definizione poca pressione e pochissimi stimoli extra, a meno che coach Tyronn Lue non decida di giocarsi una carta disperata come una frontline in cui LeBron affianca Jeff Green per buona parte della gara (o delle gare, dovesse funzionare). Ma chiedere a un giocatore che ha già deciso una gara-7 dopo la prima stagione della carriera in cui la squadra ha avuto rendimento migliore quando lui era in campo e non in panchina (sul serio: uno dei più grandi traguardi della carriera di LeBron.) di essere il Salvatore della Patria anche in una situazione simile forse è ingiusto, anche se certe occasioni capitano solo una volta.
Ai Cavs servirebbe una variabile impazzita, un jolly in grado di trasformarsi per due settimane in un bordeline All-Star, un esterno che possa reggere l’impatto di Curry e Klay Thompson, magari segnando canestri dal nulla. Ma al momento non viene in mente nessuno…