Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Nessuna squadra è schiacciante come il Manchester City
13 ott 2022
13 ott 2022
Basta prendere e analizzare un'azione per capirlo.
(articolo)
11 min
(copertina)
Foto di Martin Rickett / IPA
(copertina) Foto di Martin Rickett / IPA
Dark mode
(ON)

A che punto è il Manchester City di Guardiola? A che livello di controllo e dominio è arrivato il suo calcio? La risposta a questo tipo di domande è: a un livello ridicolo. Ridicolo in senso buono, ovviamente. A un livello, cioè, che a volte fa sembrare la partita di calcio un esercizio coreografico - Foden che lancia per Cancelo in sovrapposizione dietro il terzino avversario, Cancelo che crossa di collo esterno con la palla che rimbalza, Mahrez che entra in area sul lato debole e calcia al volo di poco alto - oppure peggio, un esercizio militare, un’imboscata, un’invasione. A un livello che, quando gira bene, il Manchester City di Pep Guardiola è semplicemente ingiocabile.

Dopo le partite del City si parla soprattutto di Haaland, dei suoi numeri senza senso, certo, ma anche della sua dieta a base di cuore e fegato (vieni a Roma, Erling, ti ci aggiungiamo un po’ di carciofo), del fatto che ha già detto di voler dominare tutti i principali campionati europei come fosse un videogioco. Guardiola deve essere felice di aver trovato un argomento virale che attiri su di sé le attenzioni ma difficilmente Haaland può alleggerire il peso del pensiero fisso: vinceremo la Champions League quest’anno?

(Anzi, al limite Haaland potrà appesantirlo, più avanti, potrà farlo mutare in: riusciremo a NON vincere la Champions anche con Haaland? Barney Ronay ha scritto che, con Haaland, Guardiola si ritrova all’improvviso a guidare una macchina che si guida da sola, e chissà che anche Guardiola non ci pensi sopra troppo e finisca per fare qualcosa di radicale, tipo metterlo in panchina in una partita importante, magari proprio in finale…).

Che Guardiola si giochi tutto in quella manciata di partite pazze lo pensa lui e lo pensiamo noi. Potrà vincere il campionato con venti punti di distacco (anche se al momento, va detto, ha un punto in meno dell’Arsenal), battere tutte le concorrenti al titolo con quattro gol di scarto e vincere anche entrambe le coppe nazionali, ma la spada di Damocle del tribunale internazionale del calcio è appesa al sottile filo della Champions League e nessuno - tanto meno io, ma neanche Pep - può farci niente.

Certo è un modo riduttivo per guardare al lavoro di un allenatore. Ne approfitto quindi, adesso che siamo distanti parecchi mesi e un intero Mondiale giocato nel deserto a Natale, per fare una riflessione svincolata da qualsiasi risultato. A partire da una singola azione che non ha neanche portato al gol il Manchester City.

Questa:

Prima di arrivare in Inghilterra, Pep Guardiola aveva passato quattro anni sulla panchina del Barcellona e tre su quella del Bayern Monaco. Sarà la qualità della vita che garantisce un club senza limiti economici, sarà la libertà progettuale che gli è stata data fin dall’inizio, ma senza neanche che ce ne accorgessimo siamo già al suo settimo anno al Manchester City.

Nessuna squadra di Guardiola è stata spinta fino a questo punto - forse, nessuna squadra in assoluto, almeno negli ultimi anni. Così come nessun allenatore ha sviluppato i presupposti del suo gioco quanto lui, ibridandolo con le influenze migliori, aggiornandosi, sperimentando, guardando al calcio come a un territorio di ricerca. Al tempo stesso, nessun allenatore più di Pep Guardiola è rimasto fedele ai suoi principi di base.

Il minimo che si possa dire di Guardiola, davvero il minimo, è che in un ambito professionale pieno di persone maniache del controllo, in cui essere ossessivi sembra un semplice prerequisito da mettere nel curriculum (passioni: controllare cinque volte che il gas sia spento prima di uscire di casa) lui è quello più ossessivo di tutti (arrivando a mandare un terapeuta/motivatore in ritiro con la Norvegia per seguire il suo nuovo purosangue), il più tormentato, ma anche il più coerente e il più estremo.

Adesso, guardando un’azione tipo questa qui sopra - siamo alla fine del primo tempo, il City è già sopra di due gol e ha avuto almeno altre tre o quattro occasioni limpidissime, Haaland non ha ancora segnato ma ha preso un palo interno - c’è una cosa che salta agli occhi anche senza analizzarla.

La violenza.

Del gioco di Guardiola si dice che è cerebrale, cervellotico, un gioco pensato da un nerd per altri nerd. Oppure si dice che sia “bello”, appagante esteticamente, ricercato, raffinato, l’equivalente calcistico di un film d’autore, di una cena in un ristorante che ti fa sentire inferiore rispetto al cibo che ti si serve nel piatto.

Bisognerebbe dire anche, però, che è un gioco violento, che raggiunge il suo massimo annullando gli avversari in campo, giocando come se non ci fossero. E dovrebbe essere chiaro da quando il suo Barcellona passato alla storia come squadra di gnomi operosi coi piedi fatati era già in grado di portare tende e sacchi e pelo nella metà campo avversaria, facendo girare palla in fazzoletti ristretti di campo, e in caso di errore o di intervento avversario saltando sugli avversari come tanti piccoli lillipuziani su dei Gulliver storditi.

Quel Barcellona che - ormai più di dieci anni fa - arrivava a vette di prepotenza frustranti per qualsiasi avversario, che si comportava come quelle persone che nelle case altrui si mettono ad aprire cassetti e a guardare nelle credenze, che se li inviti sul divano allungano i piedi sul tavolino basso senza neanche togliersi le scarpe. Hanno provato a picchiarli ma non ci sono riusciti e si diceva che quel gioco fosse possibile solo con Xavi, Iniesta, Busquets, oggi però quello stesso gioco, perfezionato, Guardiola lo fa con giocatori che non vengono dalla cantera e che se sono a livelli così alti, be’, lo devono proprio a lui.

Niente di male, sia chiaro. Le partite di calcio si possono vincere in molti modi, ma sottomettere l’avversario, stringergli le gambe intorno al collo finché non gli arriva più aria al cervello, avere massimo controllo con e senza palla, è il sogno di quasi tutti gli allenatori. E anche il Manchester City ci arriva solo in alcuni momenti particolarmente felici. Tipo questo qua sopra.

L’azione intera comincia qualche secondo prima rispetto al video, con un fallo laterale sul lato destro del City, all’altezza della linea del centrocampo, con Guardiola che applaude un recupero di Bernardo Silva. Rodri riceve il fallo laterale e si sposta verso il centro, con tutto il Southampton schierato dietro la linea della palla. Il City costruisce con un 3 + 2: la difesa inizialmente a 4 diventa a 3 - ormai ci siamo abituati: un terzino rimane bloccato e stretto vicino ai due centrali mentre l’altro fissa l’ampiezza - con Akanji sul centro-destra, Ruben Dias al centro e Nathan Aké sul centro-sinistra; al centro si muovono in appoggio continuo i due centrali di centrocampo, Rodri e Bernardo.

Rodri la passa a Nathan Aké, pressato da Armstrong che gli chiude la linea di passaggio verso Cancelo, largo a sinistra e su una linea più alta. Aké la passa a Bernardo Silva che, in mezzo a tre avversari, torna di prima all’indietro dal portiere.

Bernardo avrebbe potuto scaricarla a Ruben Dias, anziché direttamente ad Ederson, evidentemente quella di tornare dal portiere è una scelta deliberata del Manchester City.

A che serve? Ve ne accorgete più avanti. Per l’esattezza: quattordici passaggi dopo.

Inizialmente il Southampton non cade in trappola. Aspetta con una linea di quattro giocatori (gli attaccanti e gli esterni del suo 4-4-2) all’altezza della trequarti. Il City palleggia sotto quella linea, senza forzare il passaggio, aspettando che un giocatore del Southampton salti in pressione per provare a giocargli dietro. A un certo punto Armstrong si fa ingolosire e scatta su Ederson, che palleggia con Bernardo Silva nel cuore dell’area. La palla arriva a Cancelo che però è pressato, e il City si ferma di nuovo.

Con la palla che va da sinistra a destra, su Ruben Dias che si è allargato e abbassato molto, i giocatori del Southampton sono avanzati senza quasi rendersene conto. Quando l’azione si sblocca - dopo un palleggio tra Akanji e Bernardo Silva e poi tra Akanji e Rodri, che torna su Ederson, che vede finalmente libero Cancelo a sinistra - il Southampton ha portato 7 giocatori in pressione.

Ecco a cosa servivano tutti quei passaggi orizzontali, così odiati dalla scuola calcistica tradizionale italiana.

Facciamo due calcoli. Se il Southampton è in pressione con 7 giocatori, significa che dietro ne restano 3. Se il City costruisce con 5, più il portiere e De Bruyne che si è abbassato (attirando il terzino sinistro), significa che in avanti restano Haaland, Foden e Mahrez in una situazione di uno contro uno con la difesa avversaria.

Oltretutto, c’è Cancelo a sinistra libero di portare palla perché probabilmente, non inquadrato dalla telecamera, un movimento ad allargarsi di Foden deve aver abbassato Walker-Peters, che qualche secondo prima era andato in pressione su Cancelo ma che adesso è vicino ai centrali di difesa.

Ecco cosa significa manipolare la difesa avversaria attirando la pressione e con i movimenti senza palla.

Una volta ribaltato il campo comincia l’assalto all’area di rigore. Il Manchester City proverà tre sfondamenti, tutti falliti, ma non importa. Il primo è di Cancelo, che porta palla fino all’area di rigore e chiede il triangolo a Foden. La palla di ritorno, che lo avrebbe messo davanti alla porta, non passa per pochissimo, intercettata da Bella-Kotchap (con un po’ di fortuna, dato che si era girato di schiena per difendere).

Ma quello che è veramente eccezionale è come il City recupera palla. Il Southampton è come una camicia stropicciata da un bambino iperattivo, è stato attirato fin dentro l’area del City e poi ha dovuto difendere su sessanta, settanta metri, correndo verso la propria porta. Normale che, una volta recuperato il possesso, non abbia la struttura per sfuggire alla pressione.

Walker-Peters si ritrova il pallone tra i piedi e prova a portarlo fuori dall’area, ma viene subito aggredito da Foden e da Haaland, mai del tutto passivo, anche quando la palla non ce l’hanno i suoi compagni.

Al City bastano due giocatori per far perdere palla al Southampton e quando la palla arriva a Rodri si attiva un torello - o se preferite rondo - improvvisato, a un tocco solo, di prima cioè, con Foden, De Bruyne e Bernardo Silva. Con in mezzo, il povero Ibrahima Diallo.

Ditemi voi se non è violento mettere in mezzo un avversario inconsapevole in questo modo.

La palla torna a Cancelo, sul vertice sinistro dell’area di rigore, con al centro Haaland in una situazione di uno contro uno con Salisu. Cancelo allora prova a mettergliela in testa, ma il suo cross è intercettato da Salisu, che rinvia al limite dell’area. La seconda palla però è di Bernardo Silva, che di testa la passa a Foden in area di rigore, come se niente fosse.

Foden non controlla benissimo e quando crossa di sinistro ha Bella-Kotchap addosso. La palla esce di nuovo dall’area, ma di nuovo finisce sui piedi di Cancelo. Altro cross, altra respinta di Salisu. Anche il secondo tentativo di attaccare la porta fallisce.

Sono andati vicini a mettere Cancelo in porta in transizione e a far colpire Haaland di testa all’altezza dell’area piccola - due volte - ma la cosa da notare è che il City ha recuperato per tre volte la palla a ridosso dell’area di rigore del Southampton, con la pressione immediatamente successiva alla perdita (il famoso gegenpressing) e vincendo due volte la lotta per la seconda palla, grazie al piazzamento preventivo dei giocatori al limite dell’area di rigore.

Quando anche il secondo cross di Cancelo è respinto e in seguito a una carambola la palla finisce vicina alla riga di fondo, con Bella-Kotchap pronto a rinviare lungo, il Southampton ha 9 giocatori a ridosso dell’area di rigore (più, ovviamente, il portiere). È rimasto solo Adams un po’ più in alto, con Nathan Aké addosso in marcatura preventiva: Aké prende posizione sulla palla lunga e subisce fallo.

Finisce così questo piccolo saggio di ingiocabilità. Che ci mostra non solo che il settimo City di Guardiola è tutt’altro che una macchina che si guida da sola, ma ma anche la grande fluidità con cui interpreta diversi contesti, ricorrendo a strategie diverse. Prima costruisce con il portiere per attirare la pressione e attaccare in transizione, poi attacca in posizione, piazzando cinque uomini fuori dall’area a recuperare le palle che escono (con Akanji anche molto alto) mentre tre attaccano l’area e due restano dietro, in superiorità sull’unico attaccante avversario.

La rincorsa ad obiettivi sempre più alti, la frenesia e l’eccitazione delle partite veramente importanti, non deve farci perdere di vista il progresso e lo sviluppo del lavoro del Guardiola nel suo complesso. Racchiuso in azioni del genere in cui la sua squadra sa cambiare registro all’interno di una strategia comune, in cui ogni giocatore sa benissimo cosa fare in relazione alla palla, ai compagni e agli avversari.

Ognuno di noi avrà una definizione di controllo, o dominio, diversa, ma difficilmente una squadra di calcio può essere più schiacciante di così. Non c’è niente di normale in quello che il City fa al Southampton in questo minuto e mezzo di partita.

D’accordo, non sono due squadre allo stesso livello, ma anche i giocatori del Southampton sono dei professionisti e, come si dice, hanno delle famiglie.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura