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Alfredo Giacobbe
Come Klopp e Guardiola hanno cambiato la Champions League
02 mag 2022
02 mag 2022
La sfida tra gli allenatori di Liverpool e City ha rivoluzionato il calcio europeo.
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Alfredo Giacobbe
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La primavera è la stagione in cui sbocciano i fiori, esplodono gli amori e tornano le recriminazioni sul calcio italiano. Tra marzo e aprile quasi tutte le squadre italiane escono dalle competizioni europee, e se ci si mette pure la Nazionale a fallire nelle qualificazioni ai Mondiali, allora la fioritura delle polemiche su una più o meno presunta decadenza del nostro calcio sarà splendente.

 

D'altra parte, è innegabile che le finali di Champions League ed Europa League disputate negli ultimi anni da Juventus e Inter, a distanza di qualche tempo le une dalle altre, sembrano il risultato dello sforzo di due squadre forti e organizzate più che il prodotto organico di un movimento sano. Per cui, a ogni nuova campagna europea che finisce con un fallimento, sprofondiamo in una seduta di analisi collettiva, che ruota tutta intorno a come si dovrebbe giocare un calcio più europeo. In questo senso, l’attitudine con la quale seguiamo le magnifiche partite della fase a eliminazione diretta della Champions League, quel voler rimarcare quanto sia diverso il calcio del mercoledì da quello della domenica al punto da sembrare un altro sport, è persino un po’ masochistica. Come quando guardiamo la nuova fiamma di un* nostr* ex e ci dilaniamo con la più classica delle domande: ma cos’ha quell* più di me?

 

Questo tipo di ragionamenti si basano però su una domanda la cui risposta è meno scontata di quanto non sembri: che cosa intendiamo con “calcio europeo”? Forse un calcio meno tattico rispetto al nostro, ovvero meno difensivo, meno imperniato sullo studio dell’avversario e sulla volontà di depotenziarne i punti di forza. In opposizione a questo, il calcio di cui avremmo bisogno per poter competere ad armi pari in Europa è più offensivo, basato su una proposta di gioco rischiosa e, fosse anche solo per questo, ambiziosa e remunerativa. Questa lettura, comune tra gli addetti ai lavori come tra i tifosi, ha il difetto di rimanere piuttosto in superficie.

 

Non ci si rende conto, infatti, che il calcio è cambiato tanto anche a livello europeo. Soprattutto nelle fasi a eliminazione diretta, la Champions League di oggi non è la Champions League di solo qualche anno fa. A imprimere un enorme cambiamento al gioco hanno contribuito soprattutto due squadre: il Manchester City di Pep Guardiola e il Liverpool di Jürgen Klopp.

 



Guardiola e Klopp sono arrivati in Premier League con una formazione completamente diversa. La loro idea di calcio, maturata rispettivamente nel campionato spagnolo e in quello tedesco, non potrebbe essere più differente. Guardiola è l’alfiere del 

, un gioco in cui il posizionamento, l’orientamento del corpo, persino il piede su cui un calciatore riceve un passaggio, sono tutti elementi che ne costituiscono l’essenza. L’ossessione verso il possesso è la manifestazione della più pura volontà di controllo della partita e dell’avversario. Nei suoi desideri più selvaggi di giovane allenatore, Guardiola avrà sognato uno sviluppo di partita in cui non concede all’altra squadra nemmeno un passaggio, non un calcio del portiere dal fondo, né una rimessa con le mani.

 

Klopp, al contrario, non nega la possibilità all’avversario di fare la sua partita, ma ne ostacola in ogni modo lo sviluppo. Anzi, è persino disposto a cedere di proposito parte del controllo della partita, proprio perché il modo migliore di attaccare è aggredire un avversario quando meno se lo aspetta, o comunque nel momento in cui è più vulnerabile. Pressione e 

 si alternano in un modello di gioco che non può che strangolare l’avversario, che alla fine cede di schianto, asfissiato e impossibilitato a ragionare su cosa fare con la palla.

 

Sia Guardiola che Klopp, quando sono arrivati in Inghilterra, si sono trovati in difficoltà nell’applicare per filo e per segno il gioco che avrebbero voluto imporre da subito. Di certo hanno avuto bisogno di un certo numero di sessioni di mercato per portare in casa i giocatori che ritenevano più adatti – spendendo cifre smodate l’uno, valutando costi e benefici l’altro, almeno in una prima fase. Ma al di là della costruzione della rosa, i due allenatori hanno dovuto fare i conti con le specificità del campionato inglese. In ogni partita di Premier League c’è sempre un momento in cui l’intensità che i giocatori mettono in campo va fuori scala e genera di per sé momenti caotici. Momenti in cui il pallone passa più tempo per aria che tra i piedi dei calciatori, come disse lo stesso Guardiola il suo primo anno in Inghilterra - calciatori talmente presi dalla foga agonistica da dare l’impressione di smarrire perfino il senso stesso del gioco.

 



Scusate l'autoreferenzialità.


 

Guardiola e Klopp hanno dovuto modificare i propri sistemi, ma non tanto per fare i conti con l’idea che l’avversario potesse avere una maggiore percentuale di controllo della palla, quanto per dotarsi delle armi adatte alle fasi della partita in cui il controllo non ce l’ha davvero nessuno. Per esempio, nelle fasi più convulse in cui i giocatori seguono la palla come cani che si dividono un osso - fasi in cui le squadre si disuniscono ed è più facile subire una ripartenza. La velocità delle transizioni in Premier League è spesso letale per le difese - attaccanti come Luis Suarez e Jamie Vardy ci hanno costruito una carriera sulla capacità di sfruttare questi momenti in cui il campo sembra inclinarsi da una parte all'altra in continuazione.

 

Di fronte a queste caratteristiche peculiari, Guardiola ha sviluppato l’idea dei 

 per coprirsi di più centralmente, in caso di una perdita del possesso. La soluzione di Klopp – un 4-3-3 stretto in cui l’ampiezza è deputata interamente ai terzini su tutta l’estensione del campo – risponde allo stesso problema, pur essendo diversa da quella di Guardiola.

 

Questo è solo un esempio per corroborare l’idea che l’ibridazione del gioco spagnolo e tedesco con l’agonismo tipicamente britannico, avvenuta negli ultimi anni in Premier League, ha finito per rinforzare Manchester City e Liverpool forse oltre ogni previsione. Come un organismo che contrae una malattia e ne sviluppa gli anticorpi, diventando più forte di prima, queste due squadre ora stanno cambiando il calcio europeo, inglesizzandolo. Come risultato di questo processo, anche in Europa si è passati dalla necessità di equilibrio all’accettazione del caos.

 



Per anni gli allenatori ci hanno detto la loro ricetta per vincere una Champions League. Occorre curare l'aspetto emotivo e psicologico del calcio, ci ha suggerito quel maliardo di José Mourinho. Bisogna saper gestire i momenti, quelli esaltanti tanto quanto quelli deprimenti che capitano all’interno di un’eliminatoria da 180 minuti, ha invece affermato Klopp, ma lo ha ripetuto spesso anche Massimiliano Allegri. Il Real Madrid di Zidane è forse la squadra che ha rispettato questa idea in maniera più vincente. In altre parole: è necessario avere un’organizzazione flessibile e calciatori evoluti in grado di leggere la partita in autonomia, così da far male all’avversario quando se ne ha la possibilità; oppure riuscire a difendersi quando si è messi sotto, accettare stoicamente il dolore che si prova a starsene barricati per lunghi minuti, tutto pur di tenere in piedi la qualificazione.

 

Il calcio stava già andando verso una certa liquefazione, per così dire. Dapprima gli schemi hanno ceduto il posto ai principi. Oggi anche i principi si allentano a favore di un’ancora più grande fluidità di gioco. Si allentano ma persistono, la loro importanza è comunque fondamentale. 

 Daniele Manusia, commentando l’ultimo Manchester City-Real Madrid: «Nel calcio contemporaneo tutto è relativo. Quello che è giusto un attimo prima diventa sbagliato quello dopo. Non esiste un dettaglio più importante di un altro ed è impossibile riprodurre la stessa identica situazione anche se è proprio allenando le situazioni che i giocatori trovano quella libertà di pensiero per agire quasi inconsciamente ed esprimere il proprio talento come fosse acqua che esce dal rubinetto». I principi, se allenati fino a essere introiettati all'interno della propria identità, sono la bussola che permette a ogni calciatore di sopravvivere al caos.

 

Quando la posta in palio è elevatissima, e l’intensità è portata su livelli insostenibili per una forma atletica che dopo una cinquantina di partite giocate inevitabilmente non è più quella di inizio stagione, il caos finirà inevitabilmente per prevalere. City e Liverpool, più di tutte negli ultimi anni, ma anche Real Madrid, Bayern Monaco e PSG, seppur in minor misura o solo a tratti, hanno accettato che una certa porzione di caos non solo faccia parte della contesa, ma che sia addirittura un fattore positivo, foriero di opportunità.

 

I calciatori di queste squadre duellano in ogni zona del campo, anche quando non hanno il conforto di un raddoppio di marcatura o di una copertura difensiva, perché sanno che ogni dribbling riuscito, ogni contrasto vinto, può essere decisivi. I duelli vinti, in questo senso, diventano fondamentali perché portano ad occasioni non prevedibili prima della partita. Lo ha dimostrato Vinicius, che quando è riuscito a saltare Fernandinho con un tunnel all’incrocio tra le linee del centrocampo e del fallo laterale, si trovava a 60 metri dalla porta.

 

Per contro, le squadre che non hanno accettato di competere sul piano del caos, ma hanno continuato a prediligere la via del controllo e dell’equilibrio, hanno incontrato difficoltà terribili in Champions League. Il Barcellona ha smarrito la via maestra del 

, finendo per restare attaccati agli aspetti più deteriori di un modello di gioco che una volta era vincente. L’Atletico Madrid ha perseguito la propria ossessione per il controllo degli spazi, per il raffreddamento a tutti i costi del ritmo partita, ed è diventato una versione caricaturale di sé stesso.

 

C’è anche un altro aspetto, che un finissimo osservatore come Jorge Valdano, ex calciatore e dirigente del Real Madrid, coglie in un’intervista rilasciata a La Gazzetta dello Sport del 28 aprile. La predisposizione delle squadre in queste partite, caotiche e per questo spettacolari, genera entusiasmo soprattutto nei tifosi neutrali. Il caos e la capacità dei calciatori di talento di opporvisi diventa un volano di attrazione d’interesse che finisce, inevitabilmente, per tradursi anche in vantaggi economici per i club. Poi, certo, il DNA vincente di una società e l’incapacità dei campioni di arrendersi alla sconfitta rendono la ricetta anche più ricca. Dopo aver rimontato il Barcellona dopo uno 0-3 all'andata, Klopp disse che niente era stato più determinante dello spirito e del desiderio messo dai suoi giocatori nella partita di ritorno. Ma è anche l'imprevedibilità del calcio contemporaneo ad aver portato a quel risultato, che è a sua volta prodotto di un interesse economico nel voler giocare un certo tipo di calcio che non ha troppa paura dei rischi.

 

La chiosa di Dario Saltari alla sua 

 dell’ultimo Liverpool-Milan è proprio dedicata a quello che noi italiani chiamiamo calcio europeo: «Non un determinato stile tattico, offensivo o spettacolare che sia, ma la capacità, interiorizzata da tutti i giocatori in campo, di saper leggere il momento e lo spazio, utilizzandolo per creare ogni volta qualcosa di nuovo». È attraverso questa capacità, che non è innata, ma che viene interiorizzata attraverso l’allenamento, che si può sopravvivere al caos - anzi, utilizzarlo a proprio favore per creare occasioni da gol. Per fare questo c'è bisogno di giocatori autosufficienti, che non vanno in apnea né mentalmente né atleticamente, ma al contrario sono capaci di trovare pepite d’oro nelle pieghe della partita più impensabili. Chi ha la forza economica di acquisire o la bravura di sviluppare giocatori del genere in casa, o entrambe le cose insieme, può tentare la fortuna e attraversare le acque tempestose di cui è fatta una eliminatoria di Champions League di questi tempi. Thiago Alcantara è un ragazzo che è stato allevato dal Barcellona. Nell’ambiente di Liverpool intorno al suo acquisto c’era più di qualche perplessità (in realtà c’è stata fino al giorno prima di Liverpool-Villarreal, quando ormai sulla bontà della stagione di Thiago non dovevano più esserci dubbi). Non solo Thiago ha dimostrato di avere il mindset adatto per esprimersi sui suoi livelli in un contesto caotico, ma ha aggiunto un elemento di controllo in una squadra che era persino troppo “heavy metal”, come una volta Klopp aveva descritto il suo calcio. La pausa al gioco imposta talvolta da Thiago dà il tempo a Trent Alexander-Arnold e a Andrew Robertson di risalire il campo, tanto per fare un esempio. E questo senza contare la visione di gioco attraverso cui il giocatore brasiliano trasforma il caos in pericolosità.

 

Nel ragionamento fatto finora mancano le squadre italiane. Se abbiano o meno giocatori adatti al contesto descritto. O se gli allenatori abbiano davvero gli strumenti per adottare questi modelli di gioco, fatti di principi chiari ma al tempo stesso trasparenti come l’aria. Potrei osservare come, nel doppio scontro dei sedicesimi, l’Inter ha avuto il controllo della partita per la maggior parte dei 180 minuti disputati contro il Liverpool, ma ha rischiato l’imbarcata non appena ha ceduto una quota di quel controllo. Potrei chiedermi se la favolosa Juventus di Berlino, quella col centrocampo Pirlo-Marchisio-Pogba-Vidal, che è già diventata una mitica filastrocca tra i tifosi bianconeri, avrebbe o no raggiunto una finale di questi tempi, per quanto è cambiato il calcio dal 2015 a oggi: i giocatori citati avevano i mezzi per resistere alla pressione sistematica, alla continua attenzione uomo su uomo che c’è oggi? E l’organizzazione di quella squadra, talvolta rigida, specie nelle uscite dal basso, sarebbe stata ugualmente efficace adesso?

 

A me non interessa speculare sulle nostre disgrazie, se le italiane non sono state all’altezza della competizione è solo un dato di fatto. Quello che è interessante, e di cui dovremmo prendere nota anche qui, è il cambiamento impresso alle competizioni europee dalla sfida tra il Liverpool di Klopp e il Manchester City di Guardiola. È qualcosa che è evidente anche al di là di quello che hanno effettivamente raccolto in termini di trofei, cosa che viene rimproverata spesso proprio a Guardiola, che ancora deve vincere una Champions League da quando se n'è andato da Barcellona. Lo dice anche Valdano: «[Guardiola] ha abituato tanto al trionfo che quando perde sembra che commetta un peccato».

 




Nessuna squadra è però invincibile, né nel breve né nel lungo periodo. Questo stesso trend non durerà, e sono destinati a finire anche i cicli di Liverpool e City. È successo ad altre squadre fortissime prima, succederà anche a loro. Oggi non sappiamo cosa aspettarci dal calcio europeo nel prossimo ciclo, né chi lo guiderà (anche se qualche fiches su Nagelsmann può essere spesa, fosse anche solo per l’audacia delle sue idee, la sua precocità e le possibilità che avrà al Bayern). Per certo, l’influenza del caos sulle partite di coppa sarà qualcosa con cui avremo a che fare ancora per molto tempo.

 

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