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Fabrizio Gilardi

Maghi in missione

Gli Wizards di Wall e Beal sono tornati nell’élite della NBA, stavolta per rimanerci.

Secondo gli Oxford Dictionaries, post-truthaggettivo che denota le circostanze in cui emotività e convinzioni personali hanno peso maggiore nell’orientare l’opinione pubblica rispetto a fatti obiettivi — è stata la parola dell’anno 2016.

 

Senza volersi minimamente addentrare nell’attualissimo universo delle post-verità e nelle sue sfaccettature sociali e politiche, l’andamento della stagione NBA e la percezione che il pubblico ha del rendimento di certe squadre possono risultare un ottimo strumento per rendere l’idea di quanta differenza passi tra opinioni informate e punti di vista basati su percezioni errate.

 

I sostenitori de “la regular season fa schifo, guardo l’NBA solo da aprile”, ad esempio, potrebbero reputare i Portland Trail Blazers una squadra di alto livello e non troppo lontana dalle Contender, dopo una trionfale (date le premesse) qualificazione ai playoff, il passaggio di un turno, la conferma in blocco dei principali componenti del roster e una ricca free agency. Ma nel prossimo aprile potrebbero non trovarli tra le prime otto, dato che in realtà con 22 vittorie e 29 sconfitte sono a (sole) 6 partite di distanza dal fondo della Conference e appunto a (ben) 7 partite di distanza dal 50%. Il tutto mentre Damian Lillard — che nella considerazione generale vive di rendita per la capacità di segnare canestri pesanti nei finali di partita — non ha ancora realizzato una tripla dagger, su 11 tentativi.

 

In modo simile, chi stesse seguendo distrattamente e senza guardare le classifiche difficilmente potrebbe pensare che i Milwaukee Bucks di Giannis Antetokounmpo — per certi versi, e meritatamente, la fidanzatina d’America — abbiano record simile a quello dei derelitti New York Knicks e si trovino ben più indietro dei tumultuosi Chicago Bulls, due squadre che si guadagnano più attenzione perché mediocri, disfunzionali, mal gestite e sempre sull’orlo di una crisi di nervi che per i risultati ottenuti sul campo.

 

E chi, dopo un quarto di stagione, avesse scelto di impiegare il proprio tempo libero in altro modo, convinto che tutto fosse già stato scritto e deciso nell’arco di poche settimane, potrebbe essere del tutto ignaro delle grandiose rimonte di Dallas e soprattutto Miami (gli Heat sono a due partite di distanza dall’ottavo posto), della rinascita di Jeff Teague e degli Indiana Pacers, dell’esplosione di Nikola Jokic, del rendimento nei quarti quarti di Isaiah Thomas (che a propria volta meriterebbe un approfondimento, sempre seguendo il tema del fact checking) e soprattutto potrebbe credere che gli Washington Wizards siano rimasti piantati nelle sabbie mobili della Eastern Conference in cui erano caduti esattamente due mesi fa dopo aver subito, in casa e dai Magic, la 13ª sconfitta in 20 partite.

 

 

Nell’élite della NBA

 

Spoiler (e richiamo alla realtà): delle successive 30 partite John Wall, Bradley Beal e soci ne hanno vinte 23, tra cui tutte le 17 giocate in casa prima di ieri, risultando in questo parziale la 2ª miglior squadra NBA dietro ai Golden State Warriors per risultati, la 3ª (Warriors e Spurs) per Net Rating, la 4ª per rendimento difensivo e percentuali al tiro (eFG% e TS%) e la 6ª per punti segnati per 100 possessi. Dati che gridano CONTENDER! da qualsiasi punto di vista li si analizzi. I meriti per questo deciso cambio di rotta possono essere distribuiti a diversi elementi, ma come sempre si parte dalla testa e da chi indica la direzione a tutto il gruppo, in campo e dalla panchina.

 

 

In occasione della citata sconfitta casalinga contro i Magic, John Wall ha segnato 52 punti, massimo in carriera e miglior prestazione per la franchigia degli ultimi 50 anni. E a fine partita ha sepolto di critiche i compagni, colpevoli di scarso impegno, dopo che pochi giorni prima anche Marcin Gortat se l’era presa pesantemente con le riserve per motivi analoghi. Oltre alle colpe della dirigenza, incapace di assicurare la necessaria profondità alla squadra, c’era l’evidente impressione che le scorie della gestione Randy Wittman — che tutto aveva fatto tranne motivare ed unire il gruppo — e lo scarso feeling sul campo tra Wall e Beal, con l’ormai celebre “abbiamo la tendenza a non andare troppo d’accordo” a fare da manifesto al tutto, fossero una zavorra troppo pesante da gestire e che l’unica via percorribile fosse l’ennesima ricostruzione, a partire dalla cessione di una delle stelle della squadra (probabilmente Beal).

 

A volte però toccare il fondo fa scattare le motivazioni giuste, specie se ad accompagnarle ci sono voci di un certo tipo, come quella di Scott Brooks. L’ex allenatore dei Thunder ha difetti evidenti, ma spesso è stato maltrattato oltre ai propri demeriti (e lo era due mesi fa), perché ha anche grossi pregi. Il primo, innegabile, è di riuscire a creare il necessario rapporto di fiducia con i propri giocatori, specie quelli più rilevanti, il che garantisce che tutti o quasi (sì Reggie Jackson, stiamo parlando di te) remino nella stessa direzione, giochino con la giusta cattiveria agonistica (gli Wizards sono con Warriors e Grizzlies la squadra migliore per palloni deviati e recuperati, buon termometro per l’hustle) e portino la squadra a ottenere risultati quantomeno in linea con le attese e la qualità del roster.

 

Presentarsi al capezzale del proprio giocatore franchigia stordito dagli antidolorifici e con entrambe le ginocchia fresche di operazione per risolvere i problemi che ne avevano condizionato pesantemente il rendimento, specialmente difensivo, nella scorsa stagione è un gesto encomiabile e che lascia il segno; “interrogarlo” in quel contesto su una situazione di gioco è un’iniziativa che non può che avere in risposta “Coach, sul serio? Adesso?” — ma se accompagnata da autorevolezza, coerenza e disponibilità al confronto, funziona. John Wall aspettava da anni un allenatore simile e appena ritrovata la condizione fisica (a novembre era precauzionalmente esentato dai back-to-back) la sua stagione e quella della squadra, messa con le spalle al muro, hanno preso la direzione che ora è ben evidente a tutti (a patto di stare sul pezzo).

 

 

Per usare le parole di Brian Windhorst: “Dovremmo tutti prestare più attenzione a quel che succede a D.C.”

 

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Fabrizio Gilardi ha perso la propria via nel 1994 davanti a una figurina di Penny Hardaway. Nel tentativo di ritrovarla ha incontrato la NBA League Pass. E ha perso definitivamente anche il sonno. Dal 2005 infesta forum e social network, dal 2011 conduce Ball Don’t Lie, podcast semiserio sul basket NBA.