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Daniele V. Morrone

Jalen Brunson è l’anima di New York

Mai nessuno in maglia Knicks aveva realizzato una prestazione come quella di ieri.

Si dice che “Se puoi farcela a New York, puoi farcela ovunque”. Jalen Brunson, personaggio peculiare nel senso dell’umorismo e nella visione del mondo, ha preso il detto alla lettera, realizzando ieri sera una delle più grandi prestazioni della storia dei New York Knicks ai playoff. In una partita in cui, con una sua prestazione anche solo normale, i Sixers avrebbero pareggiato i conti, ci sono state comunque due occasioni in cui Philadelphia sembrava a un passo dalla vittoria: la prima quando, con un 12-2 nel primo tempo, si erano portati in vantaggio di una dozzina di punti; la seconda con un 10 a 0 di parziale all’inizio del terzo quarto, che ha spezzato il 51 pari dell’intervallo. In entrambi i casi i Knicks hanno risposto risalendo la corrente con i canestri di Brunson, protagonista di uno sforzo erculeo.

 

L’immagine simbolo arriva a seguito di un gioco da tre punti sull’ultimo possesso del terzo quarto: Brunson segna, subisce il fallo e carico come una molla cammina in mezzo ai tifosi avversari. 

 

Sul 74-76 a favore di Phila e 7 secondi sul cronometro Brunson sa che il marcatore De’Anthony Melton non gli può impedire la penetrazione, ma può tentare di fermarlo prima del tiro. Per questo arresta molto in fretta il palleggio e allunga le braccia per propiziare il contatto falloso, sfruttando diabolicamente un errore di posizionamento dell’avversario. Il floater dopo il contatto è leggerissimo e totalmente in controllo nonostante il momento concitato

 

Sul possesso successivo i Sixers hanno una manciata di secondi per segnare e Kyle Lowry decide di provare la fortuna: sulla sua virata lanciata a palla di cannone, colpisce il ginocchio di Brunson, che esce dal campo zoppicando verso gli spogliatoi. È quello il momento in cui il cuore dei tifosi di New York si è fermato. 


Passano un paio di minuti e Brunson, serafico, torna indietro come se nulla fosse successo. Si siede in panchina, mentre l’ultimo quarto sta entrando nel vivo, e non ci mette molto a far capire a Thibodeau che vuole rientrare. Il suo allenatore, ovviamente, non si fa pregare. Brunson gioca quindi l’ultimo quarto sul dolore: che il ginocchio gli dia fastidio si nota dai tiri che prende, che escono poco precisi, sporcandone le percentuali fino a quel momento quasi immacolate. Ma questi sono i playoff ed è normale giocare acciaccati e, se si è una stella come Brunson, caricarsi lo stesso la squadra sulle spalle.

 

 


Brunson ha giocato una stagione regolare eccezionale, così eccezionale che di lui si è parlato come di un possibile MVP. L’impatto con i playoff, però, non era stato quello sperato, almeno fino a ieri. Brunson è un giocatore di ritmo, che ha bisogno di entrare in un certo stato fisico e mentale per poter avere continuità al tiro dalla media, la sua specialità. Nelle prime due partite in casa, al Madison Square Garden, non è riuscito a trovare questo ritmo. La squadra però l’ha supportato alla grande, grazie alle percentuali da tre e i rimbalzi offensivi, permettendo di vincere le prime due gare della serie. 

 

Una volta a Philadelphia, Brunson ha iniziato veramente a giocare. Lui che in città è una leggenda a livello collegiale, avendo vinto il titolo NCAA con Villanova per due volte nel 2016 e nel 2018. Quella di Villanova è una piccola enclave nei Knicks, visto che è la stessa alma mater da cui arrivano Josh Hart e Donte DiVincenzo. È un college famoso per formare giocatori “competitivi”, nel senso più intangibile del termine. 

 

Non è allora forse un caso che in tre siano finiti nella squadra di Thibodeau, che sta provando a rendere i Knicks una squadra vincente proprio grazie a quel tipo di approccio. Lo stesso Brunson può permettersi di giocare così perché intorno gli hanno creato un gruppo che si riconosce negli stessi valori, che lo riconosce come leader e che ne conosce a memoria lo stile di gioco. Allo stesso tempo è Brunson a essere cardine dei Knicks e ad essere esaltato dal contesto stesso.

 

Sta tutto nell’unione tra la mentalità e i fondamentali del gioco di Brunson. Basso, non particolarmente veloce e con le braccia corte, si affida a quello che negli Stati Uniti viene definito come footwork, i vari movimenti con i piedi che permettono di crearsi le basi per le finte e le conclusioni. Proprio il suo essere basso ma tozzo gli permette, grazie a un footwork enciclopedico, di creare separazione o conclusioni acrobatiche nonostante il contatto. Non importa chi gli mette contro Philadelphia: lui va dove vuole andare col palleggio e poi trova la conclusione che che la situazione gli permette.

 

 

Tutto questo mentre a bordocampo, come un goblin irrequieto, si aggira Thibodeau, che pensa costantemente a tutto il resto, mentre a Brunson lascia carta bianca in attacco come aveva fatto a suo tempo solo con Derrick Rose a Chicago. Brunson ieri ha preso 34 tiri dal campo, più del doppio di qualunque altro compagno (il secondo è OG Anunoby con 16). In questa sproporzione di tiri è anche complice l’assenza per infortunio di Julius Randle, che sarebbe stato l’unico altro giocatore dei Knicks in grado di costruirsi un tiro. Sono canestri a volte anche forzati quelli di Brunson, ma che servono a dare una scossa a una squadra il cui talento offensivo è scarseggiante.



Il pupillo di Thibodeau vuole chiamare un pick and roll centrale? Che Hart vada subito a bloccare e poi rolli verso canestro per il possibile rimbalzo. Brunson vuole invece un isolamento per poi andare a concludere dal gomito? Fategli spazio e McBride o DiVincenzo si mettano subito nell’angolo per il possibile scarico. È ovviamente Brunson a dettare il ritmo dell’attacco dei Knicks: decide lui il tipo di conclusioni da prendere, è maturo abbastanza e ha una connessione tale con i compagni da capire subito quando non è il caso di insistere e lasciare che sia magari Anunoby a cercare un canestro servendolo sul taglio.



Anche perché, quando le energie scarseggiano, Brunson tira fuori qualcosa di extra. È stato più che evidente nel momento topico di gara-3: da una parte Embiid è apparso logorato e a malapena capace di trascinarsi su e giù per il campo, mentre dall’altra parte Brunson aveva la forza per sfidarlo in uno contro uno e, con il cronometro dei 24 praticamente scaduto, segnargli in faccia il +3 decisivo. 

 

 

Un colpo importante tanto sul punteggio quanto sul morale delle due squadre e sulla dinamica intera della partita.


Più che una partita di basket, quella di ieri sera è sembrata un incontro di pugilato tra due squadre stanche morte, che si trascinavano per il ring senza smettere di colpirsi. Brunson è stato quello che ha cercato il colpo del KO con più ostinazione, ma sono serviti anche i rimbalzi offensivi di Hart, le letture difensive di Achiuwa e Anunoby, il motore instancabile di McBride e DiVincenzo. 

 

Negli ultimi 5 minuti di partita mentre i Sixers non riuscivano più a segnare in nessun modo, Brunson ha avuto la lucidità di chiudere la partita con due canestri decisivi, prima facendo a fette la difesa e appoggiando la palla a canestro, poi con un altro sottomano nel pitturato. È stato quello il canestro dell’allungo decisivo dei Knicks, a cui si aggiungono i due liberi finali, buoni per battere il record di Bernard King e assicurare il 97-92 finale.

 

I Knicks sapevano che, prima o poi, la partita da supernova di Brunson sarebbe arrivata e forse non è un caso che sia arrivata nel momento più delicato, la seconda partita in trasferta. Quella di Brunson è una prestazione che ha scritto la storia di una delle squadre storiche della NBA e anche solo per questo va celebrata. Lui che è cresciuto accompagnando il padre Rick, giocatore dei Knicks, al Madison Square Garden e avendo il giovane Thibodeau, allora assistente allenatore della squadra, a tenerlo d’occhio mentre si avventurava nei corridoi. 

 

Brunson ha scelto i Knicks perché era sicuro che era il posto giusto per fare un salto di qualità, prendersi lo status di “giocatore franchigia”. Neanche nelle più rosee previsioni, però, ci si poteva immaginare che sarebbe andato oltre diventando, di fatto, già oggi uno dei migliori Knicks di sempre. Nessun giocatore con questa maglia, prima di lui, aveva chiuso una partita di playoff con almeno 40 punti e 10 assist, neanche Patrick Ewing o Carmelo Anthony. Nessuno prima di lui ne aveva segnati addirittura 47. Il record di franchigia erano i 45 di Bernard King e resistevano da 40 anni. 


Dagli spalti, tra il terzo e il quarto periodo, si è alzato il coro “M-V-P! M-V-P!” mentre Brunson era in lunetta. Sebbene in trasferta, si è scoperto, l’arena era piena di tifosi Knicks. Certo, tra le due città ci sono solo un paio d’ore di distanza, ma la cosa ha sorpreso tutti, ma per l’NBA è una rarità, soprattutto considerando che l’arena di Philadelphia è un feudo per i suoi tifosi. L’episodio ha sorpreso tutti, tanto che ne hanno parlato a fine partita sia Joel Embiid che lo stesso Brunson: «La tifoseria di Philadelphia è molto agguerrita, molto passionale, io sono un tifoso degli Eagles, lo so… Vedere i tifosi Knicks qui, sentire i tifosi Knicks qui è stato molto bello. È stato fantastico!». Brunson ha risvegliato uno dei giganti dormienti della NBA e l’ha fatto non soltanto con prestazioni come questa, ma per quello che rappresenta.

 

 

Dopo aver vissuto tutti gli anni senza una point guard all’altezza anche a Spike Lee non pare vero e ha ormai adottato Brunson a idolo personale, vestendo quasi esclusivamente la sua canotta numero 11.



Tra i tifosi il sentimento comune è di star assistendo alle esibizioni del miglior giocatore dai tempi di Ewing, della point guard più forte da Walt Frazier. In generale questo gruppo costruito attorno a Brunson, e che ne riflette carattere e mentalità, è già ora la squadra più amata dai tifosi sotto i 40 anni, quelli che non hanno vissuto il periodo d’oro degli anni ‘90. Parliamo di una tifoseria dall’anima “blue collar”, diremmo in Europa “operaia” o “proletaria”, una tifoseria che vuole innanzitutto vedere impegno in difesa, ferocia a rimbalzo e canestri sporchi ma pesanti. E questo sono i Knicks allenati da Thibodeau, ancora di più ora che Randle è fuori e tutto il peso offensivo ricade sulle spalle di Brunson.

 

Anche perché questa non è soltanto una squadra costruita attorno al talento di Brunson, come potevano essere di Melo Anthony una dozzina di anni fa; è che il talento stesso di Brunson esalta e alza il resto del gruppo, toccando i tasti che fanno vibrare l’animo dei tifosi dei Knicks.

 

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Daniele V. Morrone, nato a Roma nel 1987, per l'Ultimo Uomo scrive di calcio e basket. Cruyffista e socio del Barcellona, guarda forse troppe partite dell'Arsenal.