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Jack McCallum

Sette secondi al massimo

Pubblichiamo un estratto da “Sette secondi al massimo. I Phoenix Suns di Nash e D’Antoni”…

Pubblichiamo un estratto da “Sette secondi al massimo. I Phoenix Suns di Nash e D’Antoni” di Jack McCallum, che esce oggi per 66thand2 tradotto da Dario Costa. Potete acquistarlo qui.

 

 

Da quando Nash è arrivato a Phoenix (la squadra che l’aveva scelto al draft del 1996 e per cui aveva giocato le sue prime due stagioni da professionista, prima di essere spedito a Dallas) nell’estate del 2004, presentandosi alla conferenza stampa di introduzione con un paio di scarpe da golf (le uniche con la suola rigida nel suo guardaroba), è diventato il volto della franchigia, un volto così popolare che un giorno l’assistente allenatore Alvin Gentry ha aperto un pacco a lui indirizzato contenente una palla da basket, una fotocamera usa e getta, e un foglio con su scritto: «Per favore, puoi far autografare la mia palla a Steve Nash e scattargli una foto mentre lo fa?».

 

Non ci sono facce come la sua in tutto lo sport professionistico americano. Nash ricorda un teppistello di strada più che un giocatore da playground: occhi scavati, naso affilato, capelli lunghi e lisci che si toglie dagli occhi e sistema dietro alle orecchie, a volte nel bel mezzo di un’azione di gioco. Nash legge libri, è politicamente esposto a sinistra, ha un adesivo che recita BOICOTTA LA CARNE DI VITELLO attaccato al suo Suv e non disdegna qualche massima Zen di tanto in tanto. «Non mi piace disegnare mappe» mi ha detto un giorno in allenamento, dopo che gli avevo chiesto quali fossero i punti del campo da cui preferiva tirare. È anche canadese, il che lo legittima automaticamente a essere un anticapitalista amante della pace. E così, attorno a Nash, e di conseguenza attorno ai Suns, si è creata un’atmosfera un po’ da controcultura.

 

Anche se l’idea di Nash come simbolo di qualcosa – il playmaker indie, il primo Mvp dalla controcultura – in effetti oscura la verità di fondo, ovvero che è prima di tutto un topo da palestra, un fanatico dell’allenamento. Non gioca bene a basket perché legge Karl Marx; legge un po’ Karl Marx e tira un milione di volte in sospensione. Solo un giocatore del genere poteva guidare la rivoluzione di D’Antoni. Durante le estati della sua adolescenza, D’Antoni, figlio di un celebre allenatore a livello high school in West Virginia e fratello minore di un gran giocatore che ora è nel suo coaching staff, giocava per sei ore al giorno. Il che significava tre ore in totale solitudine durante le quali si concentrava sul controllo della palla e sul tiro – la parte più difficile dell’allenamento, che lui adorava – prima di dedicarne altre tre, la sera, a partitelle improvvisate. Lewis D’Antoni non ha mai spronato il figlio più giovane né gli ha mai insegnato granché – il fratello maggiore Dan ha provveduto a fare entrambe le cose – ma lo ha sempre lasciato libero dai lavoretti estivi in modo che potesse dedicarsi al basket. Quando Mike è arrivato alla Marshall University, ha cominciato da subito a radunare i compagni di squadra durante la pausa estiva, insistendo affinché si presentassero in palestra alle tre in punto di ogni pomeriggio per giocare una partitella.

 

Vent’anni dopo, Nash faceva la stessa cosa a Santa Clara University. Lui e i suoi amichetti se ne stavano lì la sera a rilassarsi chiacchierando di sport, musica e donne, e quando andava in onda SportsCenter, quello era il segnale che era arrivato il momento di alzare le chiappe. «Non mi sentivo a mio agio a stare comodo,» dice Nash «chiamavo il team manager, mi facevo dare le chiavi della palestra, chiamavo qualche compagno e ce ne andavamo a tirare per un paio d’ore».

 

Le carriere di un giocatore e di un allenatore difficilmente scorrono parallele. Nash ha massimizzato il suo talento, rinforzato il suo corpo e la sua mente e, durante le ultime due stagioni, ha giocato da playmaker a un livello raggiunto in precedenza solo dai grandi passatori del passato, come Magic Johnson, Bob Cousy e John Stockton. D’Antoni, anche lui un playmaker, ha giocato solo 150 partite in Nba, oltre a cinquanta per i St. Louis Spirits della vecchia American Basket Association, rimpiangendo la mentalità troppo indulgente di quella lega, e anche un gioco perimetrale non proprio perfetto, caratteristiche che gli hanno impedito di fare una carriera diversa.

 

In un’altra epoca, tuttavia, anche a Nash, forse, sarebbe toccato prendere la strada meno battuta percorsa da D’Antoni per conquistarsi un posto tra i grandi del basket. D’Antoni era approdato in un campionato con sole diciassette squadre (ce ne sono trenta ora) e pochi, preziosi posti a disposizione nei vari roster. È stato un buon giocatore per due stagioni, è andato nell’Aba poco prima della fusione con l’Nba, poi è tornato con i San Antonio Spurs ma è stato tagliato. Il suo futuro nel basket professionistico gli è passato davanti agli occhi – una carriera di scampoli di partita a risultato già deciso e allenamenti in cui simulare l’attacco degli avversari alla guida del secondo quintetto, e questo a patto che trovasse una squadra.

 

Così D’Antoni, che di italiano aveva giusto il cognome, ha fatto le valigie ed è partito verso l’Italia per ricaricare le sue batterie cestistiche. Era già tornato per provare di nuovo a giocare in Nba, per poi andarsene di nuovo, all’improvviso e senza più guardarsi indietro. Ha trascorso i successivi dieci anni facendo conoscere il suo nome su tutti i parquet d’Europa, il Magic Johnson dell’Olimpia Milano, la squadra più famosa del campionato italiano. Non assomigliava per niente a Nash – con il suo aspetto giovanile e l’atteggiamento un po’ schivo ma alla mano tipico di chi arriva dal West Virginia, altro che alone di mistero canadese – ma, come Nash, aveva quello che potremmo definire stile. L’Italia l’ha amato. Lui ha amato l’Italia. E, più di ogni altra cosa, lui ha amato giocare a basket. Il suo allenatore, Dan Peterson, aveva coniato l’espressione «sputare sangue» per descrivere come voleva che giocasse la sua squadra. D’Antoni sputava sangue. Nash sputa sangue.

 

Per quanto si piacessero e si rispettassero, e avessero interessi al di fuori dello sport, il basket era al centro di tutto ed era davvero l’unica connessione tra D’Antoni e Nash. E quando si sono trovati a lavorare insieme per la prima volta nella stagione 2004-2005, il risultato è stato elettrizzante. Senza Nash, i Suns avevano segnato 94,2 punti di media nella stagione 2003-2004; con Nash al timone dell’attacco ideato da D’Antoni, ne hanno segnati 110,4, primi della lega. Nel 2003-2004 i Suns avevano vinto ventinove partite; con Nash al comando dell’attacco di D’Antoni ne hanno vinte sessantadue. Si è trattato di una delle svolte più clamorose nella storia dell’Nba, architettata da un playmaker arrivato dalla terra dell’hockey e da un allenatore che aveva trascorso gran parte della sua vita professionale in un paese noto per la pasta e per i pizzicotti sul culo.

 

Quando Stoudemire, che aveva realizzato poco meno di ventisette punti di media la stagione precedente, si è infortunato al ginocchio durante il training camp di ottobre, l’impressione era che i Suns non sarebbero stati in grado di segnare con la stessa continuità. D’Antoni insisteva nella sua convinzione che avrebbero segnato 110 punti di media, ovvero quanto necessario per avere successo. I traguardi fissati consistevano in cinquanta partite vinte in regular season e nel conseguente accesso ai playoff. Di partite ne hanno vinte cinquantaquattro, quarto miglior record dell’Nba, e hanno sfiorato l’obiettivo dei 110 punti a partita, segnandone 108,4, il miglior attacco della lega, stabilendo il record di ogni tempo per tiri da tre punti tentati e segnati.

 

Non è che D’Antoni avesse inventato alcunché; piuttosto aveva riadattato uno stile tutto corri-e-tira parecchio in voga alla fine degli anni Ottanta. È incredibile quanto può essere modesto il livello di comprensione di come funziona l’Nba da parte di un appassionato casuale. Convinto che allenare significhi poco più che lanciare dei palloni ai propri giocatori, per l’appassionato casuale l’Nba non è altro che un’accolita di falliti alquanto pigri che corrono per il campo senza meta, prendendosi brutti tiri, ignorando i rudimenti del palleggio e del passaggio, e trattando la difesa come se fosse il piatto speciale a base di carne pressata che di solito conviene evitare quando si mangia in un fast food. In verità, stava succedendo l’esatto contrario: troppa poca corsa, troppa difesa dalle maniere forti, troppi schemi offensivi – un prodotto troppo cerebrale che aveva privato il gioco di buona parte della sua spontaneità, premiando invece gli isolamenti pensati per dare la palla in mano a un solo giocatore e trasformare i suoi quattro compagni in statue. D’Antoni voleva cambiare tutto ciò. E quindi è diventato il profeta della nuova versione del corri-e-tira, mentre Nash si è trasformato nell’apostolo che portava il messaggio alle masse. La nostra miglior occasione di segnare consiste nel farlo prima che il cronometro dei 24 secondi arrivi a 17. Ciò significa che, una volta entrati in possesso della palla, l’obiettivo è lasciare partire un tiro in sette secondi al massimo.

 

 

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Jack McCallum è un giornalista sportivo e scrittore. Si è occupato principalmente di NBA e il suo libro più conosciuto è Dream Team.