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Foto di Doug Pensinger/Getty ImAges
NBA Fabrizio Gilardi 28 gennaio 2016 10'

Rip City Blues

Dovevano perdere, invece rischiano di andare ai playoff: l’intrigante parabola dei Portland Trail Blazers di Damian Lillard e CJ McCollum.

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Premesso che, come già sottolineato a proposito dei Philadelphia 76ers e del discusso operato di Sam Hinkie, una ricetta unica non c’è, nella costruzione di un roster NBA bisogna tenere conto di molteplici aspetti e parametri. Quale dirigente non vorrebbe avere una squadra esperta, ma allo stesso tempo non anziana, fresca atleticamente, e anche non troppo giovane? E giocatori eccellenti in una delle due fasi ed almeno sufficienti nell’altra? Che a un elevato talento sportivo abbinino qualità umane e relazionali? Stelle altruiste? Un roster profondo e versatile e pieno di gregari che antepongano i risultati del gruppo alla propria individualità, in termini di minuti, possessi, tiri, etc? Il tutto magari a costo controllato, con sconti vari ed eventuali in sede di firma/rinnovo contrattuale?

 

Gli Utopia Smashers (o mettete voi il nickname che più gradite), però, non esistono. E sir Thomas More non occupa nessun posto in un front office NBA. La sfida che un General Manager e i suoi collaboratori affrontano quotidianamente è quella di cercare ogni spiraglio per guadagnare tutto ciò che è possibile guadagnare — si tratti di competitività, assets o flessibilità contrattuale, cedendo il meno possibile secondo i medesimi criteri. Semplificando ulteriormente, si può ridurre la faccenda a due categorie principali, che si condizionano continuamente e che rendono il tutto estremamente complicato: ciò che si può (provare a) controllare e ciò che non si può in alcun modo controllare.

 

Maledetto [ma·le·dét·to], agg.: su cui grava o è invocata la maledizione divina; dannato.

Cosa accomuna Larry Bird, Michael Jordan e Kevin Durant? Lo stesso filo conduttore che accompagna Mychal Thompson (il papà di Klay), Sam Bowie e Greg Oden: in sede di Draft, i Portland Trail Blazers avrebbero potuto scegliere i primi, ma hanno scelto i secondi, rispettivamente nel 1978, 1984 e 2007.

 

Aggiungete il fatto che Clyde Drexler, il giocatore più importante della storia della franchigia, ha vinto l’unico anello della propria carriera a Houston — 4 mesi dopo aver chiesto e ottenuto ai Blazers di essere ceduto. E che l’unico ad aver portato un titolo nell’Oregon è Bill Walton, talento infinito e dominatore assoluto, ma martoriato dagli infortuni al punto da disputare solo 468 partite in 13 stagioni, tre delle quali (quelle del proprio teorico prime, come se non bastasse) in totale inattività. Come Brandon Roy, che… non ce la faccio, troppi ricordi.

Uno dei momenti più toccanti dell’NBA recente. Partite giocate da Roy in maglia Blazers dopo questa serata indimenticabile: gara-5 e gara-6 di quella stessa serie contro i Mavs. Stop.

 

Per fortuna non ho idea di che rumore possa provocare la rottura del tendine d’Achille. Però temo di sapere che rumore possano aver fatto i cuori dei tifosi di Portland il 5 marzo, quando questo infortunio è toccato a Wes Matthews (a margine: contro Dallas. Di nuovo. Ora capisco perché Wes abbia accettato la ricca offerta di Cuban: Se non puoi batterli, unisciti a loro.) e quali pensieri possano aver attraversato le loro teste. Sì, sono la settima squadra per percentuale di vittorie totale (53,3%) e per frequenza di partecipazione ai playoff (31 volte in 46 stagioni). Ma le bastonate ricevute nel corso degli anni non si contano. E se nemmeno un Iron Man come Wes è immune bisogna arrendersi. Maledetti.

 

In quel momento i Blazers erano al terzo posto nella classifica della Western Conference, alle spalle di Warriors e Spurs. In quel momento la loro stagione è finita. In quel momento probabilmente LaMarcus Aldridge ha deciso che avrebbe lasciato la squadra alla scadenza del proprio contratto.

 

In quel momento il GM Neil Olshey ha deciso che era tempo di cedere Nicolas Batum, lasciare andare Robin Lopez e ripartire con un nuovo nucleo di giocatori. La sfiga esiste. Fa parte di ciò che non si può in alcun modo controllare.

 

Si può invece investire in scouting, tecnologia, innovazione, strutture, sviluppo dei giocatori e risorse umane, mantenere buoni rapporti con i colleghi/rivali, pianificare ogni sfumatura a breve, medio e lungo termine anche per quanto riguarda le scadenze dei contratti dei giocatori, ma ad un certo punto non si può prescindere da un occhio di riguardo da parte di Τύχη. Non necessariamente in termini di fortuna, perché guai a far passare il messaggio che i vincitori siano “fortunati”… ma quantomeno serve l’assenza di sfortuna. Perché magari un avversario troppo forte ti blocca continuamente. O perché un giocatore di cui avresti tremendamente bisogno si rende disponibile sul mercato quando hai appena speso tutto quel che potevi spendere. O…

 

La ricostruzioni nascono sempre in estate

Ecco a voi i Portland Trail Blazers 2015/16. Che in un modo (meriti propri) o nell’altro (sfighe altrui, siamo sempre lì) si stanno giocando l’accesso ai playoff e che in questo momento occupano l’ottava posizione ad ovest.

 

Nella recente apparizione a The Vertical — il podcast di Adrian Wojnarowski che in poche settimane è diventato un must listen assoluto per ogni appassionato — Olshey ha parlato a lungo del processo di ricostruzione che la franchigia ha attraversato in estate, ponendo particolare enfasi sulla necessità di mantenere il piede in due scarpe fino alla decision di LaMarcus Aldridge. Leggendo tra le righe in realtà il messaggio era abbastanza chiaro: riprendere controllo di tutto ciò che si può controllare. Se poi Aldridge avesse deciso di dimenticarsi che si trattava dei Blazers e che quindi si poteva dar loro una mano, tanto meglio. La squadra sarebbe comunque stata competitiva, anche se chiaramente non all’altezza di quel paio di maledetti mostri che girano per la Western Conference. Ma… sono i Blazers. Che Aldridge avrebbe preferito altre destinazioni lo sapevano anche i muri, quindi era tempo di voltare pagina.

 

Primo passo: l’obbligatorio rinnovo di contratto per Damian Lillard, di fatto stella della squadra e unico giocatore a poter assomigliare almeno lontanamente ad un franchise player. La sfiga però continua a vederci benissimo e mentre altrove un pariruolo di livello quantomeno comparabile come Kyrie Irving ha ricevuto il massimo salariale secondo i parametri della “vecchia” NBA — cioè salary cap a quota 70 milioni e max contract a partire da 16,4 milioni nel primo anno — Lillard cadrà nella “nuova” NBA, quella con cap a 90 milioni e stesso tipo di max contract pari a 21 milioni circa. Perché… sì. O anche perché Portland.

 

Interrompiamo le trasmissioni per offrire un piccolo momento di gioia ai cuori spezzati dei tifosi Blazers

 

Le prime due vere mosse di Olshey hanno riguardato la frontline: la cessione di Batum a Charlotte (pronta a sacrificare un asset di valore per dare la caccia ad un posto ai playoff… e altra vittima prediletta di sfighe, karma negativo e affini) ha portato a Portland Noah Vonleh, talento giovanissimo e grezzissimo che fa parte dei piani a lungo termine della franchigia. A prescindere dal rendimento, che per ora è abbastanza poco rilevante, ottenere una ex scelta numero 9 in cambio di un giocatore in scadenza contrattuale (e abbastanza propenso all’infortunio) come l’ala francese è un piccolo miracolo. E solo il primo dell’estate.

 

Poche ore dopo, altra ala in uscita e altro lungo in entrata: Rondae Hollis-Jefferson, appena scelto al Draft, finisce a Brooklyn in cambio di Mason Plumlee. Dal punto di vista del valore di mercato, per una squadra in ricostruzione, cedere un rookie in cambio di un giocatore al terzo anno di contratto (e quindi prossimo ad un costoso rinnovo) è apparentemente un controsenso, anche se il pedigree del Plumlee di mezzo giustifica ampiamente una scelta simile. Dal punto di vista tecnico invece la decisione è inappuntabile, soprattutto alla luce dei movimenti successivi: in regalo (letteralmente) da Orlando arriva Maurice Harkless, mentre durante la free agency vengono firmati con contratti pluriennali a costo contenuto Al-Farouq Aminu ed Ed Davis, i veri capolavori del front office.

 

L’intento era chiaro: formare un nucleo di giocatori in vista del proprio prime (Davis è del 1989, Lillard, Plumlee e Aminu del 1990, gli altri in pratica tutti più giovani), con potenziale inespresso e sotto contratto per almeno due stagioni, così da poter valutare su chi contare per ritentare l’assalto ai playoff.

 

Essere “padroni del proprio destino” significa anche essere consapevoli che una ricostruzione diversa da quelle che prevedono la caccia alle primissime scelte assolute (= tanking), facendo tabula rasa di ciò che c’era fino a poco tempo prima, difficilmente porta alla creazione di un roster da titolo. Ma anche che a un certo punto, anziché sperare di pescare un jolly e illudersi che sia la volta buona, può convenire abbassare le pretese e le aspettative e godersi quel che arriva — nel qual caso, la bastonata fa meno male.

 

Inoltre — e in fase di ricostruzione è un argomento troppo spesso sottovalutato — a indicare la strada migliore per ripartire contribuiscono i conti: per Forbes, che ogni anno pubblica un report sul business del basket NBA, i Blazers sono al 15° posto per valore, appena inferiore al miliardo di dollari, ma al quartultimo per attivo, appena 4,2 milioni, meglio solo di Hornets (il che aiuta a capire la trade per Batum di cui sopra), Wizards… e dei Nets, unici in passivo e caso decisamente a parte.

 

In sostanza sono pericolosamente vicini al non potersi permettere stagioni eccessivamente perdenti e/o deludenti, costretti a mantenere vivo l’interesse di tifosi e sponsor. E, se possibile, devono puntare ad abbassare i costi di gestione senza penalizzare il prodotto finale — obiettivo meravigliosamente centrato da Olshey e soci grazie al payroll più basso della lega, 49 milioni di dollari, seguito a distanza dai 60 dei 76ers e dai 62 dei Jazz, anche se in realtà il salary floor prevede che ogni squadra spenda almeno 63 milioni (il 90% del cap) e che quindi, in mancanza di scambi che modifichino la situazione, ogni membro del roster riceva in media un milione di “bonus” per far tornare i conti.

 

Junior Splash Brothers

Date queste infinite premesse, ai nastri di partenza della stagione i Blazers sembravano esclusi abbastanza nettamente dalla lotta per l’accesso ai playoff. Solo che poi sono successe quattro cose: una totalmente inattesa; una della quale, forse colpevolmente, si era appena grattata la superficie; due già note. Nell’ordine: il livello di competitività media dell’ovest è crollato; C.J. McCollum; Damian Lillard e Terry Stotts. Il primo aspetto rientra nella categoria di ciò che non si può controllare, ovviamente. McCollum invece è, semplicemente, il secondo miglior giocatore della NBA a crearsi un tiro dal palleggio. E quale sia il primo non è necessario specificarlo.

McCollum (gif)

Grazie a Chart Side, McCollum al tiro: totale nella prima slide, dopo uno o più palleggi nella seconda, dopo due o più palleggi nella terza. Oh my God. OH MY GOD. OH. MY. GOD.

 

Sì, era candidato quasi unico al premio per il Giocatore Più Migliorato, quindi la sua esplosione è tutto tranne che inattesa. Sì, probabilmente averlo dimenticato in panchina per la stragrande maggioranza della scorsa stagione è stato un discreto errore (e lo stesso vale per Will Barton, ora a Denver). Però nessuno poteva immaginarsi una roba del genere. Via Synergy, in oltre un terzo delle sue situazioni offensive è impegnato da portatore di palla nel pick and roll; risultato: 87esimo percentile, élite assoluta, zona James Harden o Tony Parker. E il rendimento è eccellente anche nelle altre fonti principali del suo gioco: tiri piazzati (16% di frequenza, 69esimo percentile) e isolamenti (12%, 81esimo percentile), in cui spiccano 1.26 punti per possesso quando parte verso destra (top-10 NBA) e 1.13 ppp negli ultimi 4 secondi del cronometro di tiro (idem). NBA.com invece ci informa che, nei 685 minuti in cui non è stato in campo, il Net Rating di squadra è stato di -8.0 (nettamente il peggiore del roster) mentre nei 1.581 giocati il dato è positivo (unico a roster insieme ad Aminu), +1.5. Insomma, un mostro.

 

A fargli compagnia nel backcourt più creativo della lega c’è ovviamente Damian Lillard. Meno efficiente del compagno di reparto a causa della maggiore attenzione delle difese e del diverso carico di lavoro (31 di Usage Rate contro 19 di McCollum), gli resta molto vicino nei punti di forza: moltissimo pick and roll (42% del suo attacco, 86esimo percentile) e parecchi isolamenti (16%, 85esimo percentile). Nonostante entrambi creino per conto loro le proprie conclusioni (solo il 31% dei Lillard derivano da assist dei compagni, 35% per McCollum) e prediligano altri bersagli per i propri passaggi (45 assist da Damian a C.J., 26 sulla tratta inversa) la loro contemporanea presenza in campo produce 107 punti per 100 possessi, rating offensivo che collocherebbe l’attacco dei Blazers al quarto posto nella lega (dietro Warriors, Spurs e Thunder), al punto che Mike Prada in un eccellente articolo li ha definiti “Junior Splash Brothers”, grazie alla capacità di mettere pressione alle difese avversarie, allargarle e costringerle a scoprire spazi.
Lillard (img)

Suggerimento spassionato: contro Damian non conviene passare dietro ai blocchi…

 

Da ormai un lustro l’allenatore dei Blazers Terry Stotts delizia gli occhi dei tifosi con creatività, schemi in uscita dai timeout da incubo per le difese e altre genialità sparse. Stavolta ha trasformato Mason Plumlee in un insospettabile passatore dal post alto (16,1 AST%, 5° in NBA tra i C) e Aminu in un tiratore più che presentabile (35% da 3 indifferentemente dagli angoli e frontali, dopo una carriera sotto il 30% e con pochissimi tentativi), identificato chiaramente in Lillard-McCollum-Aminu-Plumlee il nucleo della squadra (739 minuti in campo insieme, +4.2) e costruito l’8° miglior attacco della lega ottimizzandolo in modo quasi scientifico alla ricerca delle soluzioni più efficaci (19% di frequenza sia per situazioni di pick n’roll sia di tiro piazzato, nelle quali i Blazers sono rispettivamente al 3° e 5° posto per efficienza).

 

I punti di domanda sul futuro, ma senza ansia

Ai più attenti non sarà sfuggito un assente illustre, in questo pezzo e nella stagione di Portland: la difesa, tra le peggiori 10 della lega. Ma in fondo se il record recita 21-26 un motivo ci sarà. E soprattutto i biglietti li vendono gli attacchi, quindi per ora questo basta e avanza. Però per ora, perché la domanda più grossa resta: e poi che si fa? Ha senso provare fino in fondo a lottare per ottenere il privilegio di essere distrutti dai Golden State Warriors (o dai San Antonio Spurs) al primo turno dei playoff? Cosa può insegnare l’esempio dei Phoenix Suns, che si sono scoperti competitivi quasi senza rendersene conto e poi convinti di avere creato una base solida… prima di svegliarsi bruscamente e ritrovarsi alle prese con un stagione di tanking spinto? Non c’è il rischio di diventare i Celtics dell’ovest, troppo forti per il proprio bene e costretti a galleggiare nel limbo, senza però un gentile fornitore di iniezioni di talento come i Nets? Non sarebbe meglio allontanarsi fischiettando, lasciarsi scivolare indietro di qualche posizione e sperare che il Draft porti qualche soddisfazione?

 

La risposta logica sarebbe sì. O forse no, perché Portland: le soddisfazioni sarebbero effimere e nessuno ha più voglia di crederci. O forse le due scarpe cui faceva riferimento Olshey erano queste. Lui in fondo ha già vinto in ognuno dei due casi, uscendo a testa altissima da un disastro, creando un roster flessibile, con giocatori appetibili sul mercato e nessun contratto ingombrante. Chi ha perso invece sono i cardiologi dell’Oregon, che rischiano di trovarsi disoccupati per un bel pezzo.

 

A volte godersi quel che arriva, senza illudersi troppo, è meglio per davvero.

Tags : damian lillardnbaportland trail blazerssplash brothers

Fabrizio Gilardi ha perso la propria via nel 1994 davanti a una figurina di Penny Hardaway. Nel tentativo di ritrovarla ha incontrato la NBA League Pass. E ha perso definitivamente anche il sonno. Dal 2005 infesta forum e social network, dal 2011 conduce Ball Don’t Lie, podcast semiserio sul basket NBA.

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