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Fabrizio Gabrielli

La vita americana di Nico Lodeiro

Promessa mai davvero sbocciata, talento incompreso, calciatore di eccezionale ordinarietà, e adesso eroe di Seattle.…

Sulle sponde del Río Uruguay, uno dei corsi fluviali più lunghi del Sudamerica, si erge la cittadina di Paysandú. Nicolás Lodeiro, che ci è nato, ama pescare: da ragazzino, quando non giocava a calcio, o a pallavolo, era il suo passatempo preferito. Il Río Uruguay attraversa tre nazioni: lo stato che gli dà il nome, e poi Brasile e Argentina. Lodeiro non poteva sapere che la sua carriera si sarebbe dipanata sulle stesse rive lambite dal fiume, e oltre.

 

Nico Lodeiro sarebbe potuto diventare molte cose, e anche quando ha scelto di diventare calciatore, e non pescatore, è finito per incarnarsi in molti calciatori: del pescatore però ha conservato la pazienza, e la perseveranza; la fiducia incrollabile nell’assunto che prima o poi la preda ambita arriverà, è solo questione di tempo.

 

Oggi, a 27 anni, ha trascinato i Seattle Sounders verso la prima storica finale di MLS Cup.

 

È arrivato in medias res, praticamente a metà stagione: eppure in sole diciotto partite è riuscito a risollevare i Sounders dalla palude dei bassifondi di Western Conference fino ai Playoff, e poi alla finale di Conference (vinta contro Colorado).

 

Il pesce con il quale sta lottando è molto più grande di quanto avesse potuto immaginare.

 

 

Se siete tra quelli convinti che la MLS non possa davvero essere considerato un banco di prova attendibile per un calciatore, per stabilire fin dove può spingersi il suo livello di talento, personalità e impatto sull’economia di una squadra, e poi di un intero campionato, e anzi ancora di più, di un movimento calcistico, non disperatevi: siete in buona compagnia. Se non riuscite a godere appieno delle giocate di gente come Giovinco o, nella stessa misura, Lodeiro (una questione cui ha peraltro già accennato Emanuele Atturo in questo pezzo sulla Formica Atomica), forse è bene che vi fermiate qui, anziché continuare a leggere.

 

 

Deus ex machina

 

Brian Schmetzer è il coach dei Sounders: di Lodeiro ha detto che «dà fiducia al gruppo» e che «ha scombussolato positivamente tutti i piani», riuscendo a racchiudere in due frasi il senso dell’intera stagione di Seattle e l’apporto sensazionale di linfa riversatasi sul campo del Century Link Field con l’arrivo di Nico.

 

Quando Schmetzer ha preso il posto di Sigi Schmid, del quale era assistente, i Sounders erano penultimi in Western Conference. Schmid è stato il solo e unico allenatore dei Sounders da quando esistono, artefice di una storia comune tutto sommato soddisfacente, ma mai veramente di successo. Nessuno poteva prevedere cosa sarebbe accaduto con il suo esonero: ma se non avessero raggiunto i Playoff, quella di Seattle sarebbe stata la prima assenza in quasi dieci anni dalla fondazione.

 

Con Dempsey alle prese con un problema di aritmia cardiaca (lo staff medico lo avrebbe poi bloccato a settembre) e Oba Martins trasferitosi in Cina nel mercato estivo, Seattle aveva bisogno di un Designated Player che si prendesse la squadra sulle spalle non solo in campo, ma anche nell’atteggiamento. Qualcuno che riportasse serenità e potesse fare da chioccia a Jordan Morris, un po’ l’astro nascente della lega.

 

Lodeiro ha svolto esattamente questo compito senza mai abbandonarsi alla pigrizia del calciatore che, ricco di una supremazia tecnica conclamata sul contesto di riferimento, si limita alla giocata ad effetto.

 

Perché NL è anche quel tipo di giocatore amante dell’art pur l’art: qua per esempio manda a spasso gente per mezzo Wesside.

 

In meno di quattro mesi ha perfezionato la sua personalissima concezione del ruolo dell’enganche, portando a maturazione qualcosa già inscritto nel suo corredo cromosomico e raffinato attraverso quasi due lustri di apprendistato agli ordini del suo vero mentore, cioè Oscar Washington Tabárez.

 

Nico Lodeiro oggi recupera palla, si propone sulla fascia per il cross, salta l’uomo e pennella filtranti con la fluidità del Rio Uruguay quando sta per tuffarsi nel Rio de La Plata. È il barometro e il pericardio della squadra. Semplifica il gioco: con un tocco particolarmente ispirato o con un movimento senza palla lo rende più agile.

 

Il raffronto tra cosa fosse Seattle prima e dopo Schmid (e quindi prima e dopo Lodeiro, sostanzialmente) spiega bene il cambio di marcia non eclatante ma per certi versi rivoluzionario apportato da Nico: nella prima metà di stagione i Sounders segnavano 1 gol a partita, tirando in porta quasi 13 volte nell’arco dei 90 minuti, con quasi 5 tiri nello specchio della porta; con Nico in campo hanno praticamente raddoppiato lo score di gol per partita e innalzato del 20% la pericolosità offensiva.

 

La spinta offerta alle dinamiche di squadra risulta evidente quando si specchia nelle statistiche individuali: giocando solo 1526 minuti, Lodeiro ha inanellato 0.6 assist per partita (in media comunque più di Giovinco) e soprattutto 2.8 key-passes. In totale è stato coinvolto in 44 chances da gol dei suoi: soltanto una in meno di Sasha Kljestan, che però ha ispirato l’attacco dei NY RedBulls per tutta la stagione.

 

Matthew Doyle, l’analista principe del sito della MLS, da cui provengono tutte le statistiche che ho elencato sopra, ha fotografato in una specie di heatmap più sofisticata le zone di influenza di Lodeiro durante tutto l’arco della regular season. In qualche modo rispecchiano quelle della sua prima uscita stagionale (se il buon giorno si vede dal mattino non c’era da aspettarsi niente di diverso dalla performance contro LA), e sono interessanti nella misura in cui ci restituiscono la controprova di un’intuizione:

 

Più scuro è l’esagono, maggiori sono stati i tocchi di palla in quella zona.

 

Nico è diventato la summa empirica tra l’enganche e il doble cinco, cioè il volante deputato all’impostazione bassa del gioco.

 

I meno sorpresi, secondo me, sono chi lo segue dall’inizio, oltre ovviamente a Tabárez.

 

 

Enganche fin nel midollo

 

Non dovrebbe sorprendere che Lodeiro, quando giocava a pallavolo, lo facesse da libero: compatto fisicamente, agile e scattante, completo nella tecnica. Il corrispettivo calcistico del libero, interpretato nella sua variante più pura e cristallina, è l’enganche: è in quella posizione che Nico si disimpegna fin da piccolissimo, prima nel Barrio Obrero e poi nel Nacional, che lo sceglie tra centinaia di altri durante uno stage a Salto.

 

A tredici anni Lodeiro vive in una stanzetta sotto la tribuna centrale del Parque Central, lo storico stadio del Bolso. Durante le partite di Libertadores fa il raccattapalle, poi a fine match gli fanno pulire tribune e spogliatoi. Non esce mai, perché Montevideo «è pericolosa».

 

«Mi piaceva dribblare tutti e fare gol di tacco quando stavamo vincendo. Però nel Nacional mi hanno insegnato a giocare in una posizione, che non puoi fare come ti pare in campo».

 

Tra gli insegnamenti metabolizzati durante l’apprendistato al Nacional c’è quello che essere un enganche significa anche asservirsi agli attaccanti, e allo stesso tempo provare a convincerli a fidarsi di lui. Condivide il campo, per tre stagioni nelle giovanili, con Luis Suárez. Quando el pistolero, dopo una parentesi al Groningen, esplode definitivamente nell’Ajax suggerisce a Martin Jol e ai quadri dei lancieri quel giovanissimo connazionale, che ha fatto le fiamme nel Sudamericano Sub20.

 

Nel gennaio del 2010 Lodeiro è quindi un giocatore dell’Ajax: sembra sul punto di esplodere definitivamente. Sceglie la maglia numero 46 perché la 14, il suo feticcio, nel club di Amsterdam è un tabù. Dopo due mesi ha le prime opportunità di mettersi in mostra: contro i Go Ahead Eagles, in Coppa d’Olanda, segna la sua prima rete europea.

 

Luis guadagna la punizione, sistema la palla, finta il tiro, sistema i pianeti affinché tutto il sistema solare possa sorridere a Lodeiro: Nico segna, ma neppure ringrazia. La sua avventura europea è appena all’inizio ma non sembra propriamente felice.

 

All’Ajax Lodeiro impara a giocare senza palla, a generare spazi, a conformarsi ai dettami dell’allenatore: «Se volevo giocare dovevo fare questo, perché la priorità era l’ordine tattico», racconterà poi. «Solo che non mi piaceva».

 

Pur di giocare si sacrifica a scendere in campo fuori ruolo, spesso come falso nove, ma le sue caratteristiche sono altre e comincia a pensare che forse il suo contesto ideale è un altro, uno più libertino. Forse, semplicemente più americano.

 

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Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012) e "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019). Scrive sull'Ultimo Uomo dal 2013.