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Giuseppe Pastore

Perché abbiamo dimenticato Carlo Carcano?

Carlo Carcano è stato uno degli allenatori più vincenti nella storia della Serie A, eppure…

Cosa si regalano i torinesi a Natale nel 1934? Nei riquadri che incorniciano le dieci pagine della Stampa del 20 dicembre abbondano i buoni consigli. Da Avigdor, vicino Piazza Castello, vendono “strenne e regali signorili e di buon gusto”: damaschi, velluti, tendaggi, cretonnes. Alla Bottega del Caffé di via Garibaldi “arrivano giornalmente i panettoni Motta, i famosi cioccolattini Querio e l’insuperabile Miscela Sublime che vi servirà a preparare un’eccellente tazza di caffé”. Per gli amanti dell’hi tech un terzo annuncio dal tono più imperativo: “Regalate i fonografi brevettati dalla Fabbrica Italiana Macchine Parlanti!”.

 

Da oltre un anno, invece, la donna più elegante e ammirata della città si è regalata una nuova casa da 60mila spettatori: lo Stadio Comunale, intitolato – secondo la moda del tempo – a Benito Mussolini. E da una decina di giorni, anche un nuovo allenatore. In altre città meno felpate e discrete, l’uscita di scena dell’allenatore ininterrotto campione d’Italia dal 1930 avrebbe scatenato frenetiche illazioni, se non proprio moti di piazza. Ma i sabaudi, raffinati come pochi, hanno saputo interpretare nel modo giusto le reticenze del quotidiano di casa FIAT, che ha liquidato con uno scarno trafiletto l’uscita di scena senz’anticipazione alcuna del grande Carlo Carcano.

 

Più in alto di tutti

La statura tecnica di Carcano sta nei numeri: è tuttora l’unico allenatore della storia della Serie A ad aver vinto quattro scudetti consecutivi (e forse dovremmo dire cinque). Non c’è riuscito Trapattoni, né Lippi, né Capello; potrebbe farcela quest’anno Massimiliano Allegri, che però ha avuto il lavoro agevolato dalla macchina di lusso lasciatagli in eredità dal predecessore che a sua volta, proprio alla vigilia del quarto tentativo, era stato sconfitto dal logorio mentale prima ancora di poter iniziare il lavoro. Tra uno scudetto e l’altro, Carcano ha trovato il tempo di fare da assistente di Vittorio Pozzo ai Mondiali di Italia 1934, naturalmente vinti. È stato maestro di tattica e preparazione fisica e mentale, grande giocatore di carte, uno dei precursori nello studio della squadra avversaria, ha saputo governare per anni con piglio sicuro uno spogliatoio di italiani e sudamericani di talento pari alla personalità. È una follia che il suo nome non sia lassù in cima a fare compagnia ai Grandissimi; è vergognoso il modo in cui fu trattato dal potere politico e sociale del nostro Paese, prima ancora che dal nostro calcio.

 

Nato a Varese ma alessandrino d’adozione, per dieci anni bandiera dei Grigi e anche loro primo calciatore di sempre a giocare in maglia azzurra, Carlo Carcano è il classico centromediano destinato a diventare un grande allenatore, tanto che – in un periodo di transizione per il nostro calcio, prima che inizi l’era Pozzo – si ritrova persino ct della Nazionale, anche se per sole sei partite. Nel primo campionato di Serie A a girone unico, stagione 1929-30, siede sulla panchina dell’Alessandria, condotta a un onorevolissimo sesto posto. «Che si possa riporre pienamente fiducia in elementi nostrani per la disciplina, l’insegnamento e l’organizzazione del gioco, è dimostrato da un esempio per tutti: Carcano», scrive il suo mentore Pozzo già nel 1928, su una pubblicazione di nome Lo Sport Fascista.

 


Carcano, di spalle, in tuta, assiste Vittorio Pozzo poco prima dell’inizio dei supplementari della finale mondiale 1934 Italia-Cecoslovacchia.

 

Nell’estate del 1930, mentre in Uruguay si disputa il primo Mondiale di calcio a cui l’Italia non ha ritenuto di partecipare, il presidente della Juventus Edoardo Agnelli si trova alle prese con la grana del cambio di allenatore: nonostante il carattere gioviale, lo scozzese William Aitken non ha legato con i senatori dello spogliatoio, che gli contestano allenamenti massacranti (per l’epoca) e, da buon britannico, una cieca fedeltà al Sistema inventato da Herbert Chapman.
I bianconeri non sono affatto in disarmo: sono arrivati terzi, a cinque punti di distacco dall’Ambrosiana di Arpad Weisz, e hanno in rosa gente come Combi, Rosetta, Caligaris, Varglien, Orsi: l’ossatura dell’Italia futura campione del mondo. Mentre Aitken se ne va in Costa Azzurra, al Cannes, Agnelli e il suo vice Giovanni Mazzonis, un austero e severissimo barone che sta al presidente più o meno come Boniperti starà all’Avvocato, decidono di portare in città il buon “Carlìn”, che aderisce al Metodo e si fa subito apprezzare per le doti da fine psicologo, qualità tutt’altro che comune nel calcio un po’ tagliato con l’accetta dei primi anni Trenta.

 

E il regalo di benvenuto lo fa lui alla Juve, portando con sé la formidabile mezzala sinistra Giovanni Ferrari “a parametro zero”, grazie a un patto da gentiluomini con l’Alessandria che gli aveva promesso di liberarlo a fine stagione. Scoperto casualmente da Carcano qualche anno prima a un allenamento delle giovanili dell’Alessandria, Ferrari è tuttora – con i suoi otto titoli nazionali vinti tra Juventus, Inter e Bologna – il giocatore più scudettato della storia del calcio italiano insieme a Virginio Rosetta, Beppe Furino e Gianluigi Buffon, altre tre leggende della storia della Juve. Ma, a loro differenza, è l’unico ad aver fatto en plein: cinque stagioni “vere” in bianconero, cinque scudetti (ci tornerà nel 1941-42 da allenatore-giocatore, ma per sole sei partite).

 

La prima Juventus di Carcano riesce nella curiosa impresa di vincere il campionato 1930-31 pur senz’avere né la miglior difesa né il miglior attacco. Lo fa con una robusta operazione di resilienza, termine che fortunatamente nel 1930 non era così invadente. Vince le prime otto partite, record tuttora imbattuto per un debuttante sulla panchina della Juventus; ha un momento di flessione in inverno, perde clamorosamente i due scontri diretti a Roma (0-5) e Bologna (0-4), ma non drammatizza: semmai stimola, pungola l’orgoglio dei veterani, gioca sottilmente con le lune dell’ondivago fuoriclasse Cesarini, l’unico giocatore della rosa che occorre sorvegliare per i suoi orari latino-americani. Difficilmente impartisce punizioni: essendo stato giocatore fino a qualche anno prima, sa che raramente portano a qualcosa. Vince con prudenza e pragmatismo, totalizzando 31 punti su 34 in casa, un rendimento da Juventus Stadium anche se le partite casalinghe vengono giocate nel più modesto impianto di Corso Marsiglia, il primo in Italia a essere dotato di illuminazione artificiale.

 

Da lì in avanti è una marcia trionfale che dura un quadriennio in cui la Juventus di Edoardo, seguendo una strada diversa da quella attuale di Andrea, decide di apportare solo correttivi minimi a una rosa che nello spirito di appartenenza ha la solidità del cemento armato. Dunque nel 1931 arriva dall’Argentina Luis Monti detto “doble ancho” (armadio a due ante), l’unico calciatore della storia ad aver disputato due finali mondiali con due Nazionali diverse (Argentina 1930, Italia 1934). Nel 1932 Carcano lancia come centrattacco un formidabile diciassettenne figlio e fratello di ex juventini, Felice Placido Borel, detto “Farfallino” per il curioso movimento delle braccia e delle mani durante la corsa: alla prima stagione da professionista segna 29 gol in 28 partite, record tuttora imbattuto.

 


Carcano e Borel.

 

Nel 1933-34 arriva il poker nel nuovo stadio, lo scudetto più esaltante del ciclo, vinto in rimonta sull’Ambrosiana grazie a un rush finale di sei vittorie consecutive. Ai Mondiali che iniziano in estate gli juventini sono addirittura nove (Bertolini, Borel, Caligaris, Combi, Ferrari, Orsi, Monti, Rosetta, Varglien) più il preparatore atletico, il padovano Guido Angeli (colui che si era incaricato di far dimagrire Monti, giunto in Italia sovrappeso di oltre dieci chili, portandolo a correre al Parco di Stupinigi con tre maglioni di lana addosso), e naturalmente Carcano, consigliere del ct. Com’è noto vinceremo, non senza ombre, in capo a cinque partite massacranti sia fisicamente che psicologicamente che presenteranno il conto nella stagione successiva.

 


Travolgente in Italia, la Juve di Carcano non ebbe la stessa fortuna in Europa, dove non andò oltre qualche semifinale. Qui vediamo alcuni stralci di Juventus-Sparta Praga 2-1, andata dei quarti di finale della Coppa Mitropa 1931, giocata allo stadio di Corso Marsiglia. Notate le divise senza numeri di maglia, che saranno ufficialmente introdotti solo nel 1939.

 

Una stagione particolare

La Juve affronta da favoritissima anche il campionato 1934-35, anche se i senatori danno comprensibili segnali di logorio. Orsi annusa una brutta aria e a marzo se ne tornerà in Argentina, terrorizzato dall’idea di poter essere chiamato sotto le armi per la guerra in Etiopia. Caligaris e Rosetta vanno per i 33 anni, Combi ha deciso di ritirarsi al culmine della carriera, dopo aver sollevato al cielo di Roma la Coppa Rimet; il posto tra i pali è stato preso dalla riserva Cesare Valinasso.

 

Il rendimento è comunque più che soddisfacente: dopo otto partite, a inizio dicembre, la Juventus ha perso solo una partita (5-3 in casa della Lazio di Silvio Piola) ed è seconda a due punti dalla Fiorentina, con situazione ampiamente sotto controllo. Invece, la mattina di lunedì 10 dicembre, con il campionato che è fermo per l’amichevole della Nazionale a Milano contro l’Ungheria, tutti i tifosi della Juve – che a Torino sono tanti, ma stanno aumentando anche nel resto del Paese – vengono colti di sorpresa dal classico fulmine a ciel sereno. «Carlo Carcano ha lasciato in questi giorni la carica di allenatore della Juventus», si legge su La Stampa, «a dirigere la parte tecnica della squadra i dirigenti bianconeri hanno officiato Carlo Bigatto, che già aveva ricoperto queste funzioni nel periodo della gita a Londra della nazionale azzurra». Seguono lunghe righe di celebrazione del nuovo arrivato, ex giocatore e capitano juventino fino al 1931 e simbolo ineguagliabile di valore e gagliardia (se ne ricorda “il capo calvo coperto dalla reticella marrone”, una specie di Chiellini anni Venti). Ma il quotidiano di casa FIAT non si sofferma neanche per una riga sull’allenatore uscente.

 


Il trafiletto della Stampa sull’esonero di Carcano.

 

Quattro giorni dopo il nome di Carcano ricompare quasi clandestinamente in un trafiletto di quattro righe a pié di pagina, protagonista di una notizia ancora più clamorosa della precedente. «Questa mattina Carlo Carcano, l’ex allenatore della Juventus, ha firmato il contratto che lo lega al Genova per la stagione in corso». D’altra parte il Genoa, a cui il fascismo ha imposto la penultima “v” per tenerlo alla larga da tentazioni anglofile, non avrebbe alcun bisogno di un nuovo allenatore: è primo in classifica in Serie B e a fine stagione sarà serenamente di ritorno in massima divisione sotto la guida – più che di Carcano – di Renzo De Vecchi, il leggendario “figlio di Dio” divenuto allenatore a cui Carlìn ha accettato di fare da secondo.

 

Lo ritroviamo a luglio 1935, passeggero del piroscafo “Augustus” su cui ha accompagnato in Italia cinque calciatori sudamericani di (relative) belle speranze, e poi più nulla fino al 29 dicembre 1936, per una voce che lo vuole vicino al ritorno all’Alessandria in crisi. Non se ne farà nulla; tornerà su una panchina soltanto nel 1941, addirittura in serie C alla Sanremese, nella sua seconda cittadina d’adozione. In pochi mesi la carriera del più grande allenatore italiano di club è stata stroncata, ad appena 43 anni e senza motivazioni apparenti; il suo nome è stato cancellato, i contorni della figura sbiadiscono giorno dopo giorno e si abbandonano all’oblio.

 

Ritratto di Signora

C’è un curioso libro del 2016 che si chiama Vincere o morire e racconta la fittissima storia degli intrecci e delle commistioni tra calcio e politica nell’Italia fascista dal 1926 al 1938, fino al secondo titolo mondiale vinto a Parigi. È curioso non tanto come libro in sé, ma perché è stato scritto dal bolognese Enrico Brizzi, che negli anni Novanta era assurto appena ventenne a clamorosa fama con il romanzo generazionale “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” e per qualche altra divertente mattana, tipo aver fatto vincere da giurato di Sanremo un Festival ad Anna Oxa, pilotando le votazioni finali della giuria di qualità.

 

Da qualche anno Brizzi si è convertito in saggista sportivo, con una predilezione per l’epoca e l’epica dei pionieri. Brizzi ha il pregio di fissare su carta la versione più chiacchierata e accreditata sulla brusca fine di Carcano, una versione che si interseca fatalmente con le filosofie del Ventennio.

 

«Una delle cause più frequenti di licenziamento d’un allenatore va ricercata nelle rivolte di spogliatoio, magari capeggiate da qualche nuova stella che rompe gli equilibri in essere. Neppure questa ipotesi, però, sembrava tenere: gli uomini agli ordini di Carcano erano i fedelissimi che aveva saputo portare alla vittoria per un quadriennio filato. Cosa, allora? I giornali non ne scrissero una riga, ma pian piano venne fuori che l’allontanamento del tecnico era legato ad aspetti della sua vita privata, giudicati incompatibili con la serena conduzione della squadra. Cosa mai poteva avere combinato, per minarsi all’improvviso la reputazione dalla mattina alla sera? E come mai questi misteriosi aspetti della vita privata, sino a quel giorno, non avevano dato fastidio a nessuno e anzi erano andati bene persino al quadrato Vittorio Pozzo? La verità restava appannaggio del diretto interessato, di Edoardo Agnelli, del barone Mazzonis e di pochi altri consiglieri, e presto qualcuno se la sarebbe portata nella tomba. Solo a parecchi anni di distanza chi indagava sul giallo dell’esonero avrebbe trovato qualche timido indizio, basato non su confessioni ma su spifferi di corridoio, ai quali le personalità coinvolte non avevano alcun interesse a dar credito. La direzione nella quale indagare, si suggerì, era quella delle preferenze sessuali del mister. Non l’avevano notato, come era attento alla forma e all’eleganza? Con quale vezzo, già arrivato alla mezz’età, indossava ancora il suo giacchetto di daino?».

 

Nell’Italia del 1934 non esistono omosessuali, o per meglio dire – secondo il vocabolario corrente – invertiti, sodomiti, pederasti, uranisti. Non come nell’amica Germania, dove nell’estate 1934, in occasione della Notte dei Lunghi Coltelli, Adolf Hitler ha ordinato l’uccisione di Ernst Rohm, uno dei suoi più stretti confidenti, uno dei pochi autorizzato a dargli del tu. Al di là delle motivazioni politiche, viene dato in pasto alla folla l’alibi perfetto: Rohm era omosessuale, così la sua eliminazione porta rapidamente a una tragica escalation.

 

Nel 1935 il paragrafo 175 viene inasprito, allargando il novero dei comportamenti omosessuali punibili e sanzionandoli fino a 10 anni di reclusione. Nel 1936 Heinrich Himmler istituisce l’Ufficio Centrale del Reich per la Lotta all’Omosessualità e all’Aborto, e i gay vengono inseriti tra le categorie da inviare nei campi di concentramento, da bollare con il triangolo rosa. Si stima che ne siano stati arrestati circa 100 mila, inviati nei lager o internati negli ospedali psichiatrici.

 

Nell’Italia del 1934 invece i gay non esistono. La prima bozza del Codice Rocco del 1927 riservava originariamente ai reati omosessuali l’articolo 528 e prevedeva pene da uno a tre anni di carcere, ma la Commissione Ministeriale presieduta dal magistrato Giovanni Appiani elimina a sorpresa l’articolo e il conseguente reato, con motivazioni che oggi suonano insieme tragiche e comiche – insomma, squisitamente italiane: «La previsione di questo reato non è affatto necessaria, perché per fortuna e orgoglio dell’Italia il vizio abominevole che ne darebbe vita non è così diffuso tra noi da giustificare l’intervento del legislatore. […] È noto che per gli abituali e i professionisti del vizio, per verità assai rari e di impostazione assolutamente straniera, la Polizia provvede fin d’ora, con assai maggior efficacia, mediamente l’applicazione immediata delle sue misure di sicurezza e detentive». Il Codice definitivo entra in vigore il 1° luglio 1931 ed è dunque quello che regola la vita sociale degli italiani che – come così chiaramente illustrato – sono fatti per il 100% di eterosessualità.

 

Eppure il fuoco cova sotto la cenere. In molti vengono spediti in confino a Ustica, alle Isole Tremiti o in provincia di Nuoro come succede a Gabriele, l’ex speaker radiofonico dell’EIAR (l’antenata della RAI, se così si può dire) interpretato da Marcello Mastroianni nel magnifico “Una giornata particolare” (1977) di Ettore Scola. Tanti anni dopo, con gran parte dei protagonisti passati a miglior vita, sarà l’ex difensore Pietro Rava a svelare quanto così ostinatamente tenuto a tacere per decenni: «Carcano aveva tendenze omosessuali. Il fatto era risaputo e il barone Mazzonis, severissimo, ne era assai disturbato e faticava ad accettare certi atteggiamenti».

 

Allora non ci resta che provare a mettere insieme i pezzi del puzzle, collegando stralci e ritagli di quest’articolo o quella testimonianza. Continua Brizzi: «A quanto si mormorava, il mister non sarebbe stato l’unico “perverso uranista” di quella squadra invincibile. Secondo qualche voce mai confermata, erano stati toccati dalla medesima accusa anche il gladiatorio Luisito Monti e Mario Varglien, accusati da anonimi dirigenti bianconeri di essere interessati alle grazie di “Farfallino” Borel».

 

Gli stessi due nomi erano stati tirati in ballo da Gianni Brera, nella risposta a un lettore pubblicata su Repubblica nel settembre 1986: «Di esteti pedatori ne ricordo uno, Carcano, centromediano milanese dell’Alessandria. In pensione presso la famiglia Ferrari, allevò Gionnin e lo volle con sé in Juventus. Ebbe seri fastidi quando scoppiò lo scandalo intorno a Farfallino Borel, denunciato per gelosia da un consigliere ‘nu poco ricchione. La cosa più divertente di quella Juventus fu la scoperta dei vizi montiani. Il mio amico Ippolito, centravanti della rappresentativa torinese (io ero centromediano di quella milanese), mi riferì d’un goffo litigio fra Monti e Varglien I, due gagliarde checche, a suo dire».

 

Il giornalista catanese Alfio Caruso, a pagina 139 di Un secolo azzurro, la sua monografia sui cent’anni della Nazionale, dedica un paragrafo alla vicenda: «L’omosessualità di Carcano era diventata un problema. Un suo calciatore raccontava sorridente nei ritrovi torinesi: mai abbassarsi i pantaloni davanti a lui. A far esplodere il caso la denuncia di alcuni dirigenti bianconeri: accuse di pederastia a Carcano, Mario Varglien, Monti e a un paio di consiglieri. Hanno sostenuto che attentavano alla virtù di Borel. Nella realtà pare che proprio gl’indignati difensori della morale ambissero alle grazie di Felicino. Agnelli jr. ha avuto la forza di evitare lo scandalo, il regime ha però preteso che venisse cancellata l’onta».

 

Si parla di pederastia perché, all’epoca dell’accaduto, Borel aveva vent’anni ed era dunque ancora minorenne per gli standard dell’epoca. Non sfuggano i continui riferimenti anche ad altri, imprecisati dirigenti e consiglieri juventini, nella più classica delle situazioni da operetta degli equivoci in cui il nostro Paese eccelle da secoli. Di quale alto papavero della Juventus e della città Carlo Carcano è foglia di fico? Carlo Fruttero e Franco Lucentini, straordinari cesellatori delle ipocrisie della borghesia torinese, non hanno inventato niente. Vero è che il caso di Carcano non sembra isolato neanche nel gagliardo e virilissimo Calcio Fascista.

 

Sempre Caruso racconta per esempio di Eraldo Monzeglio, per nove stagioni terzino del Bologna e campione del Mondo 1934 e 1938: «[Omosessuale] non dichiarato, visto il rigore montante del fascismo; attentissimo, anzi, a dissimulare la propria natura in ogni frangente, però troppo dandy ed effeminato in un ambiente votato alla rudezza e alla sguaiataggine». Monzeglio divenne ottimo amico di Vittorio e Bruno Mussolini e personale maestro di tennis del loro papà Duce, premurandosi di farlo vincere nelle lunghe partite a Villa Torlonia e rimanendo così al riparo da qualsiasi tipo di ostracismi, tanto da seguirlo anche – come tuttofare di Donna Rachele – nella tragica avventura della Repubblica di Salò.

 


Una rara testimonianza audio di Eraldo Monzeglio, che racconta di quella volta che chiamò a casa Mussolini per spiegare ai figli del Duce le ragioni per cui aveva scelto di andare alla Roma invece che alla Lazio.

 

Il ciclo della Grande Juventus di Edoardo Agnelli si concluse bruscamente il 14 luglio 1935 nella maniera più tremenda, con il Presidente rimasto decapitato dall’elica dell’idrovolante che stava ammarando sul porto di Genova. Aveva 43 anni, la stessa età in cui Carcano era stato accompagnato alla porta. L’Italia fascista seguì di lì a poco.

 

Venne la Guerra, in molti cercarono precipitosamente di rifarsi una verginità. Caddero in disgrazia coloro che avevano avuto l’unica colpa di essere stati grandi nel ventennio sbagliato: su tutti Vittorio Pozzo, tolto di mezzo dalla Federazione nel 1948 e colpito da damnatio memoriae anche postuma, come testimonia la volontà di non intitolargli lo stadio Delle Alpi nel 1990.

 

La Juventus non vinse più scudetti per quattordici anni e la supremazia cittadina passò saldamente nelle mani del Torino, prima che un’altra terribile sciagura aerea sovvertisse gli equilibri per sempre, già a cominciare dalla stagione 1949-50.

 

Carcano vivacchiò serenamente nell’amata Sanremo, dedicandosi soprattutto ai ragazzi con la fondazione dei Carlin’s Boys che si tolsero parecchie soddisfazioni a livello giovanile. Allenò l’Inter per qualche partita, poi l’Atalanta, poi fu direttore tecnico dell’Alessandria e della Sanremese. I giornali si occuparono raramente di lui, e quasi mai per motivi tecnici. Nel 1950 rimase ferito insieme a un allievo in un incidente d’auto in cui riportò la frattura dello sterno.

 

Quando morì nel 1965, a 74 anni, dopo un malore che l’aveva colto durante un bagno in mare, questo misero rettangolo di pochi centimetri fu tutto quel che seppe produrre il quotidiano della città della squadra che aveva fatto grande. Nel 2014 è stato inserito nella Hall of Fame del calcio italiano, ma è viva la sensazione che rimanga un nome scomodo, da omaggiare, va bene, ma frettolosamente, prima che la sala si riempia e tutti sentano. Nel 2018, ottantaquattro anni dopo, il sito ufficiale della Juventus parla ancora di “dimissioni”.

 

 

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Giuseppe Pastore fa il giornalista. Appassionato di sport, di cinema, di gente.