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Fabrizio Gabrielli

Innamorati di Valentín Barco

Questa volta è stato l'esterno argentino a rubarci il cuore.

Quando dalla Doce si alza quel coro che fa “jugadoreeees, la concha de su madreee..” significa che alla Bombonera, per il Boca Juniors, le cose si stanno mettendo piuttosto male. Si tratta di un coro che si propaga presto per tutto il perimetro dello stadio, “a ver si ponen huevos, que no juegan con nadie”, “vediamo se ci mettete le palle visto che non state giocando contro nessuno”. Un coro in cui la delusione, con un processo di fotosintesi clorofilliana che passa per il respiro del pubblico, dovrebbe trasformarsi in carica. Spesso fa effetto. A metà aprile del 2023 ha fatto effetto.

 

Gli xenéizes ospitano il Deportivo Pereira per la seconda giornata della Copa Libertadores. Sulla panchina siede, per la prima volta, Jorge Almirón, tecnico che ha assunto l’incarico dopo mesi di turbolenze. Il Boca non riesce a imporre il suo gioco, va in svantaggio con i colombiani. Il pubblico è spazientito, i giocatori sono nervosi, sbagliano l’ovvio: tutti, tranne uno.

 

Indossa la maglia numero 19, è un laterale con spiccate doti offensive, prodotto del semillero, all’esordio in Libertadores. Si chiama Valentín Barco e in poco tempo si trasforma nel faro della squadra. Ci mette personalità in ogni giocata: i fischi non lo scalfiscono, gli applausi lo rinvigoriscono. Reclama il pallone, punta gli avversari, li salta. È sfrontato, accarezza il pallone in maniera maleducata, crea disordine per instaurare l’ordine. Ed è lui a scatenare “la dinamica dell’impensato” che, come scrisse Dante Panzeri – più citato che letto –, è l’essenza stessa del calcio. Instancabile affonda sulla fascia sinistra, fin quando – all’ultima proiezione – pennella un cross teso che Varela trasforma nel gol che capovolge il risultato.

 


Barco ha esordito con il Boca nel 2021, appena sedicenne, il quarto più giovane nella storia degli xenéizes, sotto la gestione di Miguel Angel Russo, che gli ha comunicato la sua scelta solo pochi minuti prima di lasciare l’hotel, per non caricarlo di pressioni. Dopo tre presenze è tornato a maturare nella Reserva.

 

Il Getafe ha provato ad accaparrarselo, nell’interregno tra l’esordio e l’esplosione con Almirón, ma Barco – e il Boca – resistono alle tentazioni, anche per una questione di devozione, di attaccamento identitario. Il Boca, insomma, ha fatto con Barco quel che si fa con i Metodo Classico: dopo averlo fatto fermentare nelle giovanili, e dopo averlo raffinato nel 2021, lo ha finalmente messo in cantina a fargli prendere valore, trasformandolo nel giocatore che è finito per diventare.  

 

Una folta capigliatura rossiccia, il viso pieno di lentiggini, occhi da paraculo: il piccolo Barco, cresciuto nella suburra bonaerense, arriva a La Candela, la Masia boquense a San Justo, quando ha solo 9 anni, scoperto da Ramón Maddoni, uno per le cui mani sono passati Cambiasso, Tévez, Aimar, Gago, Riquelme. La nostalgia di casa, però, è troppa: i genitori decidono allora di sobbarcarsi l’impresa di portarlo agli allenamenti, quattro volte a settimana, percorrendo il tragitto tra San Justo e 25 de Mayo, sei ore di viaggio al giorno, con una Renault 12. Non se la passano bene, i Barco: hanno a sufficienza i soldi per la benzina e i caselli. A fine allenamento, a La Candela, ai ragazzini danno un succo di frutta e un panino. Valentín ne lascia sempre metà per la madre.  

 

Gioca da enganche, Barco, fin quando in occasione di un Superclásico nelle Infantiles Diego Martínez, oggi tecnico dell’Huracán, per rimpiazzare un esterno infortunato lo lancia in quella posizione. A Barco piacciono gli uno contro uno, è un appassionato della gambeta, dell’arte per l’arte: si trasforma, lentamente, in un “tre” che conserva, però, al suo interno, germinazioni da diez.

 

In un altro Superclásico, di qualche anno più tardi, Barco è nella Reserva insieme a Valentini e al “Changuito” Zeballos, altre promesse poi approdate in prima squadra. Nella giocata del suo gol c’è il giocatore che è e che sarebbe diventato, fino all’incarnazione della quintessenza boquista.

 

 

L’Argentina non è mai stata terra di terzini puri, e non è un caso che neppure Barco lo sia: la china presa dalle moderne declinazioni del calcio richiede l’attitudine al pressing, la propensione offensiva, il controllo orientato, che sono più caratteristiche da ala, e in fin dei conti anche nell’Albiceleste campione del mondo quella porzione di campo era appannaggio dell’Huevo Acuña, in effetti un ex-ala. Ciò che fa di Barco un giocatore totalmente nuovo, però, sotto questo punto di vista, è la sua capacità di applicare le doti da ala – il tempismo, l’inclinazione alla giocata rischiosa, una dribblomania mai lasciata al caso – anche in chiave difensiva. Più che un terzino che attacca, per farla semplice, Barco è un’ala che difende.

 

 

Barco è un giocatore sanguigno (e forse non è un caso che il taglio di asado che preferisce sia il ventriglio, interiora, quinto quarto). Con l’eroicità scapestrata della gioventù, gioca come vive, vale a dire con l’attitudine del tifoso, con la guappezza del pibe de barrio, con il sentimento del potrero: pisaditas, cambi di direzione repentini, pause, scavetti, doppi passi, no look, mezze rabone, veroniche, nel suo campionario c’è tutta l’argentinità che un laterale filiforme e roscetto possa contenere.

 

 

«Mi viene da dentro, non lo faccio per irridere gli avversari. Ho sempre giocato così, chi mi conosce da piccolo lo sa che non lo faccio per schernire nessuno, lo faccio perché so giocare così»In Barco si incontrano, fondendosi più che scontrandosi, lo spirito ludico del gioco e l’arditezza dell’ambizione, che lo mettono in condizione di prendere piena coscienza dei propri mezzi – e a volte, magari, un po’ sì, sentirsi irriverentemente onnipotente.

 

In questo minuto e mezzo di ribollente magma calcistico contro il Palmeiras, nella semifinale di ritorno della Libertadores, Barco non manda soltanto al manicomio i brasiliani spuntando in ogni angolo d’attacco, cercando un gol olimpico o dettando i tempi delle ripartenze, ma anche difendendo, spesso rientrando dalla metà campo offensiva avversaria. Eppure rimarrà impresso il momento in cui, riprendendo il gesto di Yeferson Soteldo di qualche giorno prima, si è issato con entrambi i piedi sul pallone, un gesto che però non sembra così di scherno quanto quello del venezuelano, ma più, appunto, di onnipotenza.

 

Omar Sivori, da poco in Italia, una volta, contro la Roma, dopo che gli avversari lo avevano preso a calci per tutto il tempo, si defilò sulla fascia palla al piede. Una pisadita, un’altra. Fece come per tirare fuori dai pantaloncini un pettine, fingendo di pettinarsi. Un avversario gli si fece incontro come per spaccarlo in due, e lui taac, con un’altra pisadita morbida lo mandò fuori tempo, scappando. Al giornalista de El Gráfico al quale stava raccontando questa storia, una volta finito, confessò: «Un peccato di gioventù».

 

Valentín Barco è esattamente quel tipo di giocatore che non si pente dei suoi peccati di gioventù, che restituisce al pubblico il senso dello spettacolo, l’essenza primigenia del fulbo. «Sa fare tutto molto bene», ha detto di lui Riquelme, che nel frattempo è diventato presidente del Boca e non ha fatto poi molto per trattenerlo, sacrificandolo sull’altare della realpolitik economica. Certo, c’è rischio che si bruci: il carico di responsabilità forse è ancora troppo pesante per le sue spalle, e la sbiadita finale di Libertadores, con il Fluminense a novembre scorso, sembra esserne una testimonianza piuttosto eloquente. La Premier poi lo sappiamo cosa fa ai calciatori che non si dimostrano subito pronti.

 

Barco, se lasciato maturare con i tempi di fermentazione necessari, ha comunque tutti gli attributi per diventare un calciatore di quelli che segnano le epoche: che sia lui il primo vero grande terzino che il calcio Albiceleste non ha mai avuto? Un calciatore d’élite, ma anche un terzino contemporaneo, uno di quelli che definiscono l’estetica e il gioco di una squadra. Uno di quelli dei quali, tra qualche anno, ci ricorderemo gli esordi dirompenti, l’affinamento docile, la maturazione compiuta. 

 

Una di quelle crush per le quali, quando ripenseremo ai nostri peccati di gioventù, non proveremo rimpianto, ma di cui al contrario potremo andare, in qualche maniera, orgogliosi.

 

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Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012) e "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019). Scrive sull'Ultimo Uomo dal 2013.