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Fabrizio Gabrielli

Innamorati di Federico Redondo

Questa volta ci siamo innamorati di un figlio d'arte.

Nel febbraio del 2003 Fernando Redondo è un uomo sereno. Gli ultimi due anni lo hanno temprato, reso più saggio di quanto già non fosse – in fin dei conti è sempre passato per essere un ragazzo più maturo della sua età. Dopo aver alzato la Octava con la maglia del Real Madrid nel 2000, l’anno delle prestazioni monstre, del taconazo all’Old Trafford, di Jorge Valdano che vede in quella partita l’occasione perfetta «per quelli a cui non piace Redondo per spiegarci perché», si è trasferito al Milan. Sembra il coronamento di un sogno, ma in allenamento si infortuna seriamente ai legamenti. Per due anni non vede il campo, si autosospende lo stipendio, crea i presupposti affinché i tifosi possano cullare un intimo culto per la sua figura, un culto fatto di riconoscenza e rimpianto. Nell’intervista che segue il suo ritorno in campo il giornalista chiede, tra le altre cose: 

 

«Fernando, che effetto ti fa che si dica “Fulanito (la maniera argentina per dire Tizio, nda) è un cinque tipo Redondo”? Hai creato un modello, uno stereotipo di centrocampista…».

 

Fernando si schernisce. «Non ci credo, ma per niente».

 

Nel tentativo di risultare più esplicativo, il giornalista incalza: «“Un cinque tipo Redondo” sarebbe un cinque che accarezza la palla, che sa un po’ giocare…».

 

«Che sa un po’ giocare?», risponde Fernando. Poi ride. «Beh mi piacerebbe. No, seriamente. Io mi sento un rappresentante del fútbol argentino in tutto e per tutto, senza dubbio».

 

Fernando Redondo è stato un sacco di prime volte. Un cinco paradigmatico, che ha portato il ruolo oltre la dimensione dei Grattín, dei Giusti. Che ha rifiutato la convocazione in Nazionale con Passerella perché contrario al diktat del taglio dei capelli per farne parte. L’emanazione più profonda, al Tenerife, dell’idea di calcio di Ángel Cappa, il più menottiano dei post-menottiani.

 

Ma nel 2003, al culmine della propria carriera, e nel pieno della maturità della sua vita privata, Fernando Redondo riesce ancora a trovare il modo per sperimentare altre prime volte. Tornare in campo dopo un infortunio in seguito al quale avrebbe potuto non farlo mai più, tanto per cominciare. E poi è appena diventato padre del terzo figlio: a Fernando e Luciana si è aggiunto Federico, nato a Madrid, dove la sua famiglia è rimasta.

 

Il cinque è pura commistione di linee rette e curve, angoli e sezioni. Ha una numerologia potente, simbolica, quasi sacra. Nel calcio argentino la sovrapposizione tra la narrativa del cinco, l’estetica del cinco, la semplice geometria del cinco e la fisica della cifra è quasi completa: il cinco tratteggia fraseggi, cambia direzione, poi disegna un’iperbole che taglia il campo. Tanto faceva Fernando, tanto avevan fatto prima di lui i suoi padri, e i padri dei suoi padri.

 

Così come i figli non possono scontare le colpe dei padri, alla stessa maniera non è detto – e forse neppure giusto – che ne assorbano i tratti distintivi. Ogni generazione finisce per ripetersi, ma quanti riescono a farlo in maniera davvero compiuta? La reincarnazione è solo un abbaglio, un orpello concettuale, una giustificazione mistico religiosa? Non puoi davvero parlare di reincarnazione fino a quando non vedi scendere in campo con le stesse movenze, lo stesso approccio al gioco, la stessa presenza scenica un cinco che si chiama Redondo, vent’anni dopo quel cinco che si chiamava Redondo.

 

«Ho un leitmotiv», ha detto lui. «Cercare di mantenere uniti attacco e difesa. Il mio compito è quello: cerco sempre il passaggio che taglia le linee avversarie, che accelera il gioco. Uso molto il passaggio corto per attrarre gli avversari» – le linee rette del numero cinque – «e poi cerco il filtrante, o il lancio» – la parabola. 

 

Federico ama il centro del campo: è il suo luogo d’elezione, il suo ricovero dell’anima, e anche il suo brodo cosmico. Tiene il baricentro della squadra alto, perché «se sei con la squadra nella metà campo avversaria puoi recuperare più velocemente». Il suo compito è mantenere la posizione, una caratteristica concettuale, di visione che insieme ad altri tratti più marcatamente fisici – l’altezza, la sinuosità da canna di bambù che si piega al vento – hanno scomodato paragoni con “Busi” Busquets.

 

«Se sei ben posizionato corri meno e recuperi più palloni». Nel calcio, il vantaggio più importante è quello che si ha sul tempo: «se sei posizionato bene, eserciti un buon controllo, ti fai trovare nella zona di campo in cui devi farti trovare per ricevere il passaggio, se ti accerti di esserti guardato intorno prima di ricevere il pallone, stai facendo il giusto». Alcuni dei virgolettati che sto usando sono di Federico; altri di Fernando. Eppure sembra che a pronunciare queste frasi sia sempre la stessa persona (e in qualche modo è esattamente così).

 

Di Fernando si diceva che fosse lento. Che ragionasse troppo. Là, al centro del campo, crocevia di ogni cammino, il ragionamento è un prerequisito fondamentale per il gioco: la posizione da cinco ti obbliga a leggerlo, a capire quando rallentarlo e quando accelerarlo. Devi saper prendere decisioni, e farlo in tempi rapidi: «La maggior parte delle decisioni che prendo le prendo guidato dall’istinto», dice Federico, come se la capacità di ragionare possa diventare un riflesso pavloviano, un talento innato. «Se ti fermi a pensare, al ritmo in cui si gioca oggi, ti si mangiano». 

 

Di Federico si dice che sia rapido, ma di pensiero, mentalmente. Una skill che ha appreso, digerito, interiorizzato nel baby fútbol, ai tempi della militanza nell’Estrella de Maldonado – dove ha diviso il campo con il figlio di Marcelo Gallardo –; in spazi corti devi prendere decisioni rapidamente, abituarti all’uso della suola, posizionare il corpo affinché nessuno ti possa rubare il possesso. Sviluppare, insomma, abilità che peraltro lo hanno reso perfetto per il gioco posizionale che richiedono i due tecnici con cui si confronta in questa fase della sua carriera, vale a dire Gabi Milito che lo allena al Bicho e Mascherano in Albiceleste. Ovvero due compagni di squadra di Busquets al Barcellona. 

 

Se proprio volessimo scovare un primo punto di discrepanza tra Redondo e Busquets dovremmo partire dal modulo in cui Federico si trova incastonato all’Argentinos Juniors, dove Milito preferisce giocare con il 3-4-2-1, il che fa di Federico uno dei due pivote di centrocampo. 

 

Nel Bicho di Milito, Moyano è il distruttore di gioco; Redondo l’ispiratore, la mente, il geometra, l’accentratore. Osservare l’Argentinos Juniors è un buon esercizio stilistico per rendersi conto non solo di quanto ogni pallone passi tra i suoi piedi, ma anche di quanto sia bravo a orientare il corpo, a farsi ricettore invitante e rassicurante a un tempo. Arsène Wenger una volta ha detto che a rendere un calciatore davvero eccezionale è la quantità di volte in cui riesce a leggere il gioco nei dieci secondi precedenti al primo controllo. Federico, prima di ricevere il pallone, studia il posizionamento di compagni e avversari, si comporta con il pallone come fa con i semafori sulla strada: prima di attraversare bisogna guardare più volte da una parte e dall’altra. E lo stesso fa Redondo prima di ricevere il pallone.

 

Forse per questa scrupolosità, per questo lavorio meticoloso, è raro che sbagli la scelta da fare. Il suo gioco, al pari di quello del padre, non è mai didascalico, ma neppure barocco. Semplicemente è funzionale

 

Un pesce grande in una pozzanghera? O è ancora troppo presto?

L’Argentinos Juniors ha una tradizione ferrea e florida in quanto ai cinco. Dal Bicho sono partiti Cambiasso, Ledesma, lo stesso Fernando Redondo che si è aggregato alla squadra giusto l’anno successivo alla vittoria in Libertadores nel 1985. Poi ha spiccato il volo verso Tenerife, dove ha conosciuto Natalia, che ha poi sposato, la madre dei suoi tre figli, e dove ha giocato agli ordini dell’Indio Solari, che di Natalia è il padre. Solari diceva, citando Renato Cesarini, che ogni squadra è come un bandoneón, una fisarmonica. Quando una parte si stira, l’altra deve accompagnare il movimento.

 

Federico Redondo, il ruolo del mantice, lo sa svolgere molto bene, nonostante la giovane età: si direbbe in una maniera già matura per l’Europa. Attacca l’avversario, recupera palla, e subito sprimaccia la squadra – o dovremmo dire che guida la carica del bandoneón. Controlla, organizza, e imprime l’accelerazione con un filtrante. Gioca, insomma, da Redondo.

 

Mentre scrivevo questo pezzo mi sono posto una domanda alla quale, a tutta prima, ho faticato a darmi una risposta. Mi sono chiesto se innamorarsi di Federico Redondo, in fondo, in qualche modo, non sia innamorarsi dell’idea che possa tornare a esserci – è già con noi, cammina con noi e parla con noi – un Redondo, fatto a forma di Redondo, pieno della sua redondità, l’interpretazione più redondiana del redondismo

 

E mi sono chiesto, anche: Federico può diventare qualcosa di diverso dalla cover edulcorata della dagherrotipia stinta di ciò che è stato il padre? Poi l’ho rivisto giocare, ed ho avuto una folgorazione, mi è scattata una scintilla. Un Redondo fatto a forma di Redondo, con tutta la sua Redondietà, con lo stile Redondiano di Redondo, ma come ho fatto a non pensarci prima, esiste già; e si chiama Federico. 

 

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Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012) e "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019). Scrive sull'Ultimo Uomo dal 2013.