Quando nella NBA viene annunciato uno scambio, i termini della trade possono essere valutati in tre momenti diversi: nel breve periodo (nei giorno o addirittura nelle ore appena successive); nel medio periodo (diciamo dopo un anno, o quantomeno dopo che tutti i giocatori coinvolti sono scesi in campo per un ragionevole numero di partite); e nel lungo periodo (quanto tutto si è ormai concluso e i giocatori coinvolti sono stati scambiati di nuovo oppure sono andati via in free agency).
Ovviamente, analizzando lo scambio che ha portato Jimmy Butler e la scelta numero 16 al Draft (Justin Patton) a Minnesota in cambio di Zach LaVine, Kris Dunn e la numero 7 (Lauri Markkanen), ci troviamo nella prima di queste casistiche, anche se è già passato qualche giorno dalla notte del Draft. Eppure è difficile trovare un consenso così universale nelle valutazioni della trade: tutti quelli che ne hanno parlato o scritto hanno sostanzialmente definito “un furto” quello perpetrato da Tom Thibodeau nei confronti della sua ex squadra, portando via il suo giocatore-feticcio per “50 cents on the dollar” — cioè pagandolo molto meno di quello che è effettivamente il suo valore.
Cosa stanno facendo i Chicago Bulls?
Questo pezzo era nato con l’idea di analizzare come Butler si inserirà nei nuovi & rinnovati Timberwolves e che effetti possa avere non solo sulla squadra ma anche sull’intera conference, ma è inevitabile spendere almeno qualche paragrafo su quanto fatto dalla dirigenza di Chicago. Partiamo da un presupposto: scambiare Jimmy Butler è del tutto legittimo, anzi forse si potrebbe dire che Gar Forman e John Paxson sono perfino in ritardo sulla tabella di marcia di una ricostruzione che ora è stata ufficialmente varata. Le due squadre erano infatti vicine a concludere lo stesso scambio (Butler a Minnesota in cambio di LaVine e Dunn) già nello scorso Draft, anche se ancora non è chiaro chi abbia detto il “no” definitivo tra le due parti in causa. Con il senno di poi, scambiare un anno fa avrebbe permesso ai Bulls di avere una direzione decisamente più chiara, che con ogni probabilità non avrebbe portato alle firme cervellotiche di Rajon Rondo e Dwyane Wade, magari avrebbe permesso di muovere il contratto di Robin Lopez alla deadline, forse avrebbe dato maggior tempo a Fred Hoiberg per modellare i giocatori ricevuti e con ogni probabilità avrebbe portato a una scelta in top-5 al Draft, visto che difficilmente un roster del genere avrebbe vinto chissà quante partite.
Invece i Bulls si sono auto-condannati a un anno di purgatorio in cui sono usciti al primo turno dei playoff e dovuto affrontare un sacco di inutile “drama” nello spogliatoio, con Wade e Butler che accusavano i compagni più giovani di scarso impegno e Rondo che rispondeva “My vets” su Instagram. Quello che la dirigenza non è riuscita a capire è che nell’ultimo anno, però, il valore dei vari pezzi coinvolti nello scambio è decisamente cambiato: Jimmy Butler ha avuto la miglior stagione individuale della sua carriera, affermandosi come un giocatore da top-15 nella lega (tanto da essere incluso nel terzo quintetto All-NBA) e facendo vedere i sorci verdi ai Boston Celtics nelle prime due partite del primo turno di playoff (eppure, ciò nonostante, non è mai stato davvero considerato come il giocatore franchigia dalla dirigenza). Dall’altra parte, Zach LaVine si è rotto il legamento crociato anteriore dopo un inizio offensivamente incoraggiante ma difensivamente traumatico (tanto è vero che i T’Wolves sono andati meglio dopo il suo infortunio…), mentre Kris Dunn ha chiuso la peggior stagione al tiro (43.2% di percentuale reale) per qualsiasi giocatore impegnato in campo per almeno 1.000 minuti, pur mostrando lampi difensivi intriganti.
Il timing della scelta
Questo per dire che, a un anno di distanza dalla proposta di trade del 2016, il valore di Butler era andato in crescendo e quello dei due T’Wolves era precipitato, e quello che effettivamente è stato un pick swap tra la 16 e la 7 non è un asset tale da colmare l’enorme distanza tra le due parti. Perché allora i Bulls hanno dovuto fare lo scambio adesso? Anche il timing della scelta di scambiare Butler, oltre al pacchetto ricevuto, lascia perplessi: con due anni pieni di contratto ancora da giocare, Butler non è solo uno dei migliori two way player della lega, ma anche uno di quelli col miglior contratto. Nelle proiezioni di Kevin Pelton di ESPN, il tre volte All-Star produrrà 50 milioni di “extra-valore” nei prossimi due anni, creando vittorie per un totale 90 milioni (dietro solo a Curry e LeBron) contro i 40 che effettivamente riceverà prima di uscire dal contratto nel 2019. Può anche darsi che i Bulls non volessero concedergli la Designated Veteran Player Exception da 200+ milioni che attente Butler se si confermerà su questi livelli nei prossimi due anni, ma in qualche modo sono riusciti a far passare quello che era un’enorme posizione di vantaggio (quella della scadenza nel 2019) come una posizione di svantaggio, mostrando una fretta incomprensibile nel scambiarlo ora per questo pacchetto.
I Bulls avrebbero potuto aspettare anche solo dieci giorni — specialmente se i T’Wolves avessero scelto loro stessi Lauri Markkanen come ipotizzato da diversi Mock Draft — e vedere come e se si sarebbe risolta la situazione legata a Paul George, perché con tutte le squadre interessate ai suoi servigi (Boston, Cleveland, San Antonio, Houston) almeno una sarebbe arrivata a bussare alla porta di Chicago una volta fallito l’assalto a PG13. Poi può anche essere che la dirigenza dei Bulls fosse semplicemente innamorata del pacchetto offerto da Minnesota, visto che il vice presidente Paxson ha detto chiaramente di aver ricevuto «tre scelte in Lottery» con questo scambio. Eppure qualcosa continua a non tornare nel timing della scelta di scambiare Butler, che aveva anche informato i Cavs di non voler essere scambiato a Cleveland (complice il caos della situazione legata all’addio di David Griffin e l’incombente free agency di LeBron James nel 2018).
Il pacchetto ricevuto
Paxson ha anche detto che con questo scambio la squadra avrà una direzione chiara, che dobbiamo dedurre sia quella di ricostruire attraverso i giovani (cioè perdere un sacco di partite) e il sistema di Hoiberg (evidentemente preferito a Jimmy Butler nonostante abbiano cercato di sabotarlo un anno fa con l’esperimento dei Tre Alphas). Il problema è che questa ricostruzione comincia senza una pietra angolare attorno alla quale costruire e senza un volto da poter mettere in copertina per i tifosi: LaVine è ancora in convalescenza dopo la rottura del crociato — un infortunio da prendere con molta cautela per un giocatore che fa dell’atletismo il suo punto di forza, come peraltro gli stessi Bulls dovrebbero sapere bene dopo l’esperienza con Derrick Rose… — e dal 1 luglio sarà possibile estendere il suo contratto. Con ogni probabilità LaVine finirà per costare più di Jimmy Butler, senza però poter ambire a essere il giocatore che il numero 21 era specialmente nella metà campo difensiva, dove LaVine probabilmente sarà sempre una liability. Così come si può dire per gli altri due giocatori, con lui il rischio è che si tratti solamente di uno che gioca una sola metà campo, e non al livello tale da giustificarne le mancanze dall’altra parte. Il che rende già di per sé dubbio l’intera ricostruzione, visto che parte da dei giocatori con dei chiari limiti se proiettati a un’eventuale finale NBA, che poi deve essere l’obiettivo ultimo di ogni squadra della lega.
La speranza è che Dunn non sia così brutto come visto nella sua prima stagione, ma bisogna tenere in considerazione che ha già 23 anni, ha subito in maniera brutale il salto di qualità fisico e atletico della NBA rispetto al college (dove poteva mangiarsi gli avversari a piacimento) e ha tantissimi passi da fare in termini di tiro e playmaking per poter diventare anche solo una point guard titolare in NBA, figuriamoci un All-Star. Evidentemente però la dirigenza dei Bulls è convinta che possa riuscirci (dopo aver scambiato per Michael Carter-Williams e Cameron Payne solamente nell’ultimo anno, ma questa è un’altra storia…): dalla sua crescita dipende gran parte della valutazione di questa trade perché è quello con la maggiore varianza tra quello che è e quello che potrebbe diventare dell’intero lotto ricevuto, dal quale però manca comunque una scelta futura che avrebbe reso i termini quantomeno più digeribili.
La giuria su Lauri Markkanen, invece, è ovviamente ancora in attesa di vedere come si comporterà in campo: il suo profilo da sette piedi che tira come una guardia anche in situazioni difficili dovrebbe anche tornare utile a un coach come Fred Hoiberg, ma ci sono grossi punti di domanda sulla sua consistenza mentale, difensiva e a rimbalzo, con il dubbio che anche lui possa dimostrarsi una liability attaccabile dagli avversari, specialmente se non riuscirà a compiere la transizione da stretch 4 a playmaking 5 che ormai viene richiesta a tutti i lunghi nella NBA moderna per chiudere le partite. Markkanen ha dalla sua il fatto che è più abituato a difendere sul perimetro che nel pitturato, ma il rischio è che non rispetti la prima regola sacra per poter rimanere in campo con profitto, ovverosia quella di marcare quantomeno la propria posizione. Il fit con Robin Lopez (pachidermico quando chiamato a marcare sul perimetro cambiando sui piccoli) rende Chicago fin troppo lenta in un reparto che sta diventando sempre più atletico, specialmente dal lato difensivo. In tutto questo, i Bulls non ci hanno mai parlato faccia a faccia né fatto un provino privato con il finlandese, cosa che lascia sempre un po’ perplessi quando si prende una decisione di tale importanza.
Tutti i difetti del prodotto di Arizona.
L’insensatezza delle altre due scelte
Quello che davvero risulta incomprensibile a tutti è per quale motivo la dirigenza dei Bulls abbia dovuto includere la scelta numero 16 al Draft, quando partiva da una posizione di assoluta potenza nello scambio (il miglior asset di tutti, e di gran lunga, era quello che stavano cedendo loro) ed è improbabile che Minnesota — la quale manca i playoff da 13 anni consecutivi, la striscia più lunga della NBA — non accettasse di chiudere lo scambio solamente per la mancata inclusione di un asset come la 16. È anche da questi particolari che bisogna giudicare una trade: se si fossero limitati alle «tre scelte in lotteria», lo scambio sarebbe stato “solo” molto brutto; senza l’aggiunta di una scelta futura e con l’inclusione della 16, questo scambio assume i contorni di una farsa. Ad aggiungere ulteriore beffa al danno c’è anche la cessione della scelta numero 38 (l’intrigante Jordan Bell) ai Golden State Warriors in cambio di 3.5 milioni di dollari: non avevano cominciato la ricostruzione neanche da un paio d’ore che già un giocatore giovane su cui poter puntare veniva scambiato esclusivamente per soldi. Come se i Bulls, che fanno 20.000 spettatori ogni singola sera, hanno uno dei brand sportivi più famosi del mondo e raramente sono andati in luxury tax nell’era post-Michael Jordan, ne avessero bisogno.