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Andrea Beltrama
Ostinatamente Thibodeau
09 ott 2015
09 ott 2015
Ossessivo, maniacale, inflessibile. Ritratto di Tom Thibodeau in 8 frasi, per colmare il buco lasciato nella NBA, che per la prima volta in vent'anni inizia senza di lui.
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Andrea Beltrama
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Estate 2010. A pensarci, tempi strani. Carlos Boozer, con la faccia cattiva, capeggiava dai cartelloni pubblicitari della Interstate 90/94, pochi chilometri a ovest di downtown Chicago. Distrazione dalla noia nel tratto più denso di traffico di tutto il Midwest. Boozer era la novità, l’atteso

, l’uomo da doppia-doppia che avrebbe garantito il salto di qualità, liberando Rose dai venticinque isolamenti a partita che Vinny Del Negro, il coach precedente, vedeva come unica soluzione offensiva per l’attacco dei Tori.

 

E poi c’era un’altra novità. Importante, sostanziale. Ma in qualche modo passata sotto traccia. La panchina sarebbe stata affidata a Tom Thibodeau, misterioso uomo dal cognome francofono, che non si capiva bene se bisognava scriverlo con o senza la “x” alla fine. Il suo nome era ben presente nel radar di addetti ai lavori e appassionati, dopo una carriera ventennale da assistente con specializzazione difensiva e un titolo vinto a Boston nel 2008 con Doc Rivers. Competenze tecniche mostruose, curriculum impeccabile, stima incondizionata di tutto l’ambiente. Ma a livello personale, l’esposizione era stata troppo poca per giustificare aspettative particolari.

 

Cinque anni dopo, sembra un’altra epoca. Ci sono state vittorie, infortuni, polemiche, imprevisti, beffe. Fino al surreale comunicato stampa che ha sancito la fine della storia. Ma mai, nemmeno per sbaglio, Tom Thibodeau ha accettato un ruolo di secondo piano. Anzi, l’arte di allenare l’ha presa

—anche quando le circostanze, o anche solo gli interessi, avrebbero suggerito un approccio più morbido. E così, mentre lui

vivisezionando rotazioni difensive davanti a qualche schermo, la stagione NBA parte con un senso di vuoto. Con una sfumatura di contrappasso per un uomo che odiava il microfono, abbiamo deciso di colmarlo attraverso alcune sue frasi, celebri e meno celebri. Ciascuna delle quali ricorda un lato di un personaggio che è stato tutto, tranne che banale.

 

https://www.youtube.com/watch?v=NKg7O9fmQYo

 



Quarta giornata di regular season e quarta partita in carriera da head coach, 4 novembre 2010. I Bulls, dopo due vittorie consecutive, perdono male in casa con i Knicks di Mike D’Antoni. Più della sconfitta, però, è un altro fatto a catturare l’attenzione. Né Derrick Rose né Joakim Noah mettono piede in campo negli ultimi 9 minuti di partita. Se ne accorgono anche i tifosi, che, all’unico accenno di rimonta dei Tori, cantano: «We want Rose»—senza peraltro venire accontentati.

 

Dopo la partita Thibs spiegherà, con il suo tipico tono a metà tra la seccatura e il disagio verso la telecamera, che la sua era stata esclusivamente una scelta tecnica. «Le riserve stavano giocando meglio. Difendevano meglio sui loro tiratori, pensavo potessero darci la chance migliore per vincere». Parole stringate, rivelatrici di una meritocrazia talebana che i tifosi di Chicago avrebbero presto imparato a conoscere.

 

Gioca chi si è meritato fiducia, e si merita fiducia chi sul campo ha fatto quello che gli era stato chiesto. A prescindere da status, stipendi, convocazioni per l’All-Star Game. E condizioni fisiche. E così, l’episodio contro i Knicks fu solo il primo di una lunga serie.

 

Pochi mesi dopo, i Bulls avrebbero giocato scampoli decisivi della finale di conference con i primi Miami Heat dei Big Three schierando in campo Omer Asik e Kurt Thomas, quarto e quinto lungo della rotazione—con Carlos Boozer, l’uomo del cartellone autostradale, a sventolare asciugamani. E sarebbe successo anche dopo le partenze di Asik e Thomas, per la cronaca.

 

https://www.youtube.com/watch?v=t_seDXGyOAQ

 



Urlato mille volte, con il volto livido e l’ascella sudata, davanti a un microfono. Quello che amplifica i rumori a bordocampo però, non certo quello ufficiale di una conferenza. È il grido di battaglia della sua difesa, figlia di un principio di semplicità assoluta, eppure di difficilissima realizzazione pratica, come possono confermare tutti i giocatori che sono stati chiamati a impararlo da zero. Su ogni pick and roll sul lato, il difensore del palleggiatore

, impedendo di fatto l’esecuzione del gioco a due—e quindi “ghiacciandolo”, tenendolo fermo su quel lato. Il difensore del bloccante, intanto, si prepara a chiudere la penetrazione in aiuto, pronto però a fare due passi indietro per recuperare sul suo uomo.

 

Il rischio calcolato è concedere un tiro dalla media al bloccante, o presunto tale; il vantaggio è togliere ritmo al palleggiatore senza costringere il lungo a strafare in aiuto, evitando nel contempo sanguinose rotazioni da altre zone del campo. Ha funzionato alla grande per i primi tre anni, esaltando la furiosa mobilità di Noah e di Gibson rispetto all'atteggiamento più statico di Boozer, prima di perdere vigore negli ultimi due, complici anche le condizioni fisiche disastrate dei due lunghi.

 

Ma soprattutto, ha dato il via a una rivoluzione in tutta la Lega, spingendo altri allenatori—tra cui Gregg Popovich—ad adottare idee simili, con tutte le varianti del caso, ma rendendola

per la più letale situazione offensiva contemporanea. Per i tifosi dello United Center, però, quel grido a voce roca rimane innanzitutto il marchio di fabbrica dell’atteggiamento irrequieto di Thibodeau, uno dei pochissimi allenatori NBA a seguire la partita perennemente in piedi, camminando nervosamente davanti alla panchina come un coach delle giovanili. E senza disdegnare due passi in mezzo al campo, quasi a voler ricordare ai suoi giocatori di essere sotto perenne, meticolosa osservazione. Come se loro non lo sapessero già.

 



Il tormentone divenne di moda nella sua terza stagione, nel 2012-13. La prima iniziata con Derrick Rose a fare riabilitazione, invece che a tagliare difese sul campo. Doveva stare fuori fino all’inverno. Poi si slittò a primavera. Infine la stagione finì, e lui non tornò mai, completando uno degli incidenti di pubbliche relazioni più grossolani degli ultimi anni di NBA. Anche perché, senza nessun comunicato a ufficializzare l’indisponibilità della sua stella, la vita pubblica di Thibodeau si trasformò in un incubo.

 

Ogni prepartita, ogni intervista dopo allenamento scatenava la domanda:

E lui, tenendo sotto controllo una frustrazione che raggiungeva livelli viscerali, sempre con la solita risposta:

. Doveva essere una strategia per sviare il discorso. Divenne un mantra. Non solo perchè quelle interviste diventarono presto un teatrino, con piena consapevolezza delle parti. Ma anche, e soprattutto, perché in quelle parole c’era tutto l’approccio di Thibodeau: l’ostinata ricerca del miglioramento, l’attaccamento ossessivo alle responsabilità, il rifiuto di riconoscere che potessero esserci altri Arbitri Del Destino all’infuori della qualità del lavoro in palestra.

 

Anche quando il tuo giocatore più forte, uno dei migliori al mondo, il più giovane MVP di sempre, è fuori da un anno—e sai benissimo che per vincere serve ben altro oltre a quello che hai. Tre anni dopo, nessuno è mai riuscito a capire cosa pensasse veramente. Se quel mantra fosse una provocazione, un trucco retorico, o se veramente, tra una vasca e l’altra scavata davanti alla panchina, pensasse che, con un paio di rotazioni eseguite meglio, quei Bulls sarebbero potuti arrivare fino in fondo.

 

https://youtu.be/1G8yTscgOnw

Per un intero anno, D-Rose lo abbiamo potuto seguire solo qui.



 



Un altro tormentone. Questa volta personalizzato su misura per Jimmy Butler, il suo più grande successo a livello individuale. Arrivato a fine primo giro, dopo quattro anni di college solidi ma senza picchi clamorosi, l’uomo da Marquette è stato il giocatore che più direttamente ha incarnato i principi del coach. Generoso, instancabile, disposto a provarci anche quando il fisico regala segnali di sfinimento. Perché quella è la cosa giusta da fare. È emerso gradualmente, guadagnando una fiducia incondizionata che forse solo Luol Deng, nel corso degli anni, ha saputo meritarsi.

 

Con lui, Thibodeau è stato più paziente che con altri. Nelle serate storte, invece di toglierlo e sommergerlo di urlacci, lo sommergeva di urlacci e basta, lasciandolo in campo. «Deve capire da solo come ci si cava d’impiccio. Deve imparare a leggere le partite» era il suo commento per chi, agli inizi, gli chiedeva lumi di quei minutaggi enormi, anche quando la prestazione non sembrava giustificarli. Come quella volta in cui lo ha fatto giocare 60 minuti in una partita di regular season finita al triplo overtime e ha commentato solamente con: «È il mio show televisivo preferito», riferendosi al ben più famoso

di CBS. Pochi anni dopo, la convocazione all’All-Star Game e il premio di Giocatore più Migliorato sono le migliori risposte.

 



L’originale non la sappiamo, e mai la sapremo. Perché venne detta in un angolo di spogliatoio, lontano da microfoni e telecamere, nel momento cruciale della stagione. Per la traduzione ringraziamo Marco Belinelli, e la sua gentilezza nel renderci partecipe di un momento difficile da dimenticare. 2 maggio 2013, primo turno di playoff. È l’anno del

per intenderci. I Bulls vanno avanti 3-1 contro gli sfilacciati Nets di PJ Carlesimo, ma durante la serie le tegole continuano a cadere.

 

Luol Deng è in ospedale con una misteriosa influenza: si sarebbe scoperto dopo—troppo tempo dopo—che era stato ricoverato d’urgenza per una perdida di liquido dal midollo spinale, occorsa durante un prelievo andato male. Kirk Hinrich, prosciugato da 60 (!) minuti di utilizzo nel triplo supplementare di Gara-4 (

), ha i muscoli ridotti a brandelli. I Nets vincono Gara-5. Gara-6, allo United Center, sembra l’ultima occasione buona per chiudere la serie.

 

Thibodeau, con tutti gli alibi del mondo, concede 28 minuti

alla propria panchina. Quattro titolari ne giocano 42 o più. Il meno utilizzato è Boozer, con 33. Viene fuori una partita intensa, feroce. Ma Chicago, nonostante i 22 punti di Belinelli e una serata offensiva nemmeno malvagia, arriva corta al traguardo. 95-92 Brooklyn, serie pareggiata, si va a Gara-7 in trasferta. L’occasione migliore per trovare alibi, accampare scuse. Abbandonarsi al destino di una stagione troppo travagliata per essere vera.

 

Ma è qui che, ancora una volta, Thibs interviene. Le scuse non esistono.

. «Ci siamo guardati. Abbiamo capito tutto», dirà poi Beli ripensando a quei momenti. Due giorni dopo, si sarebbe consumata forse la recita più bella dei Bulls negli anni di Thibodeau. Una vittoria schiacciante, il passaggio del turno, le Big Balls. E una serenità così bella da durare solo una sera. Mai sarebbe stata ritrovata.

 

https://youtu.be/gHAKN0i1MuM

La prima serie di playoff NBA vinta da un giocatore italiano. E in che modo.



 



Dove i minuti non sono i timeout, ma proprio il tempo trascorso sul campo. 15 marzo 2015. I Bulls perdono a Oklahoma City una partita tirata, ma che si poteva vincere. La lotta per la griglia playoff è in pieno furore. Joakim Noah, dopo un’eccellente partita, rimane a sedere per quasi tutto l’ultimo quarto. Questa volta, però, la “second unit” non c’entra. A tenerlo seduto nella fase decisiva è il limite di 32 minuti a partita imposto dai piani alti, con la motivazione ufficiale di voler preservare la salute del giocatore dopo una stagione piena di acciacchi e un intervento chirurgico alla fine della stagione precedente.

 

Un editto che la dice lunga sulla fiducia reciproca tra management e coach—anche se, in verità, ordini del genere in casa Bulls risalgono ai tempi del primo Michael Jordan. Questa volta, però, qualcosa non quadra. Primo, perchè Noah è stato usato oltre il limite già 22 volte in stagione. Secondo, perchè nella logica dei comuni mortali, se c’è un tetto di minuti si cerca di lasciarne qualcuno per l’ultimo quarto, giusto per provare a vincere la partita. Ma Thibodeau, appunto, non è una persona normale. E quando gli vengono chiesti lumi della scelta, risponde così, semplicemente: «Avevo finito i minuti».

 

Siamo alla fine del cammino. La rottura con il GM Gar Forman e il vice presidente esecutivo John Paxson è insanabile, e affiora in pubblico con frequenza preoccupante. Eppure, resta difficile capire se la scelta di gestire Noah in quella maniera fu una becera provocazione verso un provvedimento che il coach disprezzava o se, invece, fu davvero dettata da ragioni tecniche. Quello che rimane è l’ennesimo episodio bizzarro di una stagione intrisa di fraintendimenti. Ed è significativo che, all’origine del polverone più grosso ci sia la gestione di cambi e minutaggi, da sempre uno dei punti di contrasto più forti tra Thibs e i suoi superiori.

 

Da una parte, un coach schiacciato dal presente, con un’ossessiva attenzione sulla singola partita e su cosa serva per vincerla, a prescindere dalle condizioni dei giocatori e dal fatto che si tratti di preseason o di finale di conference. Dall’altra, due persone con il compito di tenere assieme un progetto e un investimento che, tra guai fisici e imprevisti, ha rischiato più volte di affondare, e non ha comunque fruttato tanto quanto avrebbe dovuto. Normale che i punti di vista divergano. Meno normale che, nel corso degli anni, si arrivi a episodi di dissenso così macroscopici. E infatti è durata finchè è durata.

 



15 maggio 2015. Chicago è appena stata distrutta da Cleveland ben al di là del 4-2 finale. La stagione è finita, con un’eliminazione in semifinale di conference che non può soddisfare nessuno. Il destino di Thibs è segnato. Eppure lui, con un ultimo guizzo di testardaggine, si rifiuta di ammetterlo. «Resto qui, fino a che qualcuno non mi dice di andare via» dice in conferenza stampa. Pochi secondi prima, però,

, ricordando a tutti l’handicap di una stagione in cui il quintetto base è sceso in campo assieme per meno di 20 partite. Prendere le parti dei suoi uomini è suo costume. Non lo è, però, trovare loro una scusa in una serata di basket pessima.

 

https://www.youtube.com/watch?v=a3-gnsaED9g

 

Per quello, indirettamente, quell’ultima conferenza profumava già di addio. L’ufficialità sarebbe arrivata due settimane dopo, con un

intriso di veleni in cui si parlò di mancanza di fiducia, di intenti divergenti, di decisione inevitabile alla luce della cultura Bulls. I ringraziamenti vennero sbattuti alla fine, una frase prima del commiato. L’ultimo affondo di una battaglia dove, da ambo le parti, si è visto di tutto tranne che diplomazia.

 



Le parole di circostanza con cui, due mesi dopo l’addio ai Bulls, Thibs è tornato sui suoi anni a Chicago. Le ha dette da Las Vegas, impegnato come assistente allenatore della Nazionale USA. Il passatempo di un uomo che, al di fuori del proprio lavoro, non conosce svaghi. «Ho imparato molto. Le cose belle sono state molto di più di quelle brutte» ha detto ai giornalisti di Chicago che lo hanno seguito fino in Nevada, dopo averci avuto a che fare praticamente ogni sera per gli ultimi cinque anni.

 

I bilanci verranno. Dipenderanno molto, in verità, anche da quanto riuscirà a fare Fred Hoiberg, al suo esordio come allenatore NBA, con un gruppo sostanzialmente identico a quello avuto da Thibodeau. Nel frattempo, restano 255 vittorie di regular season, la prima stagione da 60 successi dai tempi di Michael Jordan, una finale di conference, cinque qualificazioni ai playoff, un titolo di Coach dell’Anno. Risultati tutt’altro che banali, anche se vivranno sempre all’ombra del titolo che non è mai arrivato. Se poi davvero ci fosse davvero

, non lo sa nessuno. Probabilmente nemmeno lui, anche se non lo ammetterà mai.

 
 

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