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Stefano Borghi

Il Nuovo Mondo Albiceleste

Argentina-Uruguay è stata la prima partita di Bauza sulla panchina Albiceleste. E anche quella del…

Non è che l’inizio, perciò come si dice: calma e gesso. Eppure il derby del Rio de la Plata tra Argentina e Uruguay andato in scena solo pochi giorni fa, una partita molto “old fashioned” per spirito, carica ambientale e livello di intensità agonistica, è già eloquente nel nuovo corso dell’Albiceleste.

 

Doveva essere, ed è stata, la partita d’esordio del Patón Bauza sulla panchina dell’Argentina. Poi, però, è finita per essere qualcosa di più. La ventata di novità è tutta nel messaggio arrivato dalla testa e dai cuori di un gruppo che, dopo tre finali perse in tre anni, si è trovato di fronte al bivio: lasciare o raddoppiare. E che sembra aver scelto di rilanciare, alla ricerca di quel “click” che, secondo quanto pare abbia detto Ibrahimovic a Sergio Romero, basterebbe per sbloccare  l’Argentina, farle conquistare il primo trofeo dopo un quarto di secolo e innescare una reazione a cascata inarrestabile.

 

 

Il nuovo Messi

 

È stata, soprattutto, la partita del suo vecchio, ma in un certo senso nuovo, numero ‘10’. E se c’è qualcosa che la partita “maradoniana” di Messi vuole dirci, è che giugno 2016 è stato un momento di cambio epocale, e che da adesso sta partendo un quadriennio nel quale la “Pulga” vuole chiudere i conti, cancellare qualsiasi altra figura mai apparsa sui campi di calcio e immolarsi sulla vetta dell’Olimpo calcistico.

 

Un rientro (sic) in grande stile.

 

Messi ha segnato il gol della vittoria, ma prima ancora ha confermato come il suo modo di giocare sia nuovo. Quella che era una velocità fantasmagorica, soprattutto se rapportata a una sensibilità tecnica ineguagliabile da piedi umani, è diventata una sorta di voluttuosità maligna: leggera, sublime, ma anche visibilmente arrabbiata.

 

Messi ha scelto altre zone di campo e si è autoassegnato altri compiti: il gol è sempre il suo piatto principale, ma il ricchissimo contorno è dato da evoluzioni, imbastiture, costruzioni altruistiche e grande, grande grinta. Quella di un leader che per la sua squadra gioca, segna, fa spettacolo e anche protesta per difendere la causa comune. Come Maradona, appunto.

 

È questo il nuovo Messi, il Messi post-East Rutherford. Ma soprattutto leader collettivo, nel gioco e nella postura. L’ultimo passo che gli manca da compiere per spegnere qualsiasi dibattito, e aprire un orizzonte abbacinante.

 

Voluttuosità maligna, e la solita magnifica minestra.

 

 

Una faccia vecchia e una faccia nuova

 

L’aspetto interessante è che questa Argentina sembra assestarsi sulla stessa lunghezza d’onda. Fatto apparso evidente tra le righe della partita giocata da due individualità come il “Jefecito” Mascherano e Lucas Alario.

 

“Mas-que-raro” (un neologismo che mi viene naturale appiccicargli addosso dopo l’ennesima prestazione esorbitante) è il motore totale della squadra: nel primo tempo ha scardinato il compattissimo blocco difensivo della “Celeste”, distribuendo palloni di qualità in ogni angolo della metà campo avversaria; nel secondo si è sfiancato in un pressing continuo e precisissimo, uscendo molto spesso addirittura fra i piedi di Diego Godín, posizionato piuttosto lontano da lui però chiaramente incaricato di essere il primo regista di un Uruguay che sta pagando a caro prezzo l’assenza (o la latitanza, querido Vecino?) di un nuovo Gargano. Il “Jefecito” ha lo status del baluardo, i valori tecnici del top-player e l’umiltà del comandante di campo, quella che lo porta a giocare stabilmente (e benissimo) fuori ruolo nel suo club, nonostante sia uno dei volanti bassi migliori del pianeta.

 

In pressing su Giménez. 😱

 

Lucas Alario è invece un ragazzone di Santa Fé, che compirà 24 anni fra poco e che fino a una quindicina di mesi fa non era conosciuto nemmeno in patria, finché Marcelo Gallardo non ha puntato a sorpresa su di lui per la fase finale della Libertadores 2015: il River aveva perso Teo Gutiérrez, e il Muñeco ha convinto la dirigenza a puntare su questo numero 9 che giocava nel Colón e aveva fatto qualcosa di buono in seconda divisione. Lo ha preso, lo ha lanciato subito ed è stato ricambiato con due centri in quattro partite fra semifinali e finali, valsi una coppa che il popolo millonario aspettava da diciannove anni.

 

Alario fa il centravanti, e in questo momento è tra i migliori del calcio argentino senza troppe discussioni. Bauza a Mendoza lo ha fatto debuttare in Nazionale spedendolo in campo a venti minuti dalla fine, con l’Argentina in dieci, piuttosto stanca e pressata da un Uruguay che andava all’assalto senza molto raziocinio, senza tantissima forza ma con quel cuore e quell’ostinazione che ha solo chi indossa la maglia della Celeste. Solo un piccolo problema: Alario è entrato per fare il terzino destro aggiunto, visto che in quel momento il 4-4-1 barricadero della Selección prevedeva Messi come unica punta e due linee a quattro con l’imperativo di resistere.

 

Dopo aver seguito fin dentro la sua area Lodeiro (nella prima parte dell’azione), Alario intercetta l’avversario al limiti della sua area e esce con la palla come un laterale basso navigato. E in quella posizione si cristallizza, lui che tecnicamente sarebbe un nueve.

 

Il “Pipa” ha risposto presente, ha difeso il settore destro come se fosse l’ultimo angolo di terra libera al mondo, lo ha fatto con abnegazione ma anche con tutta la qualità che gli appartiene, intesa sia come uscite del pallone pulite e preziose, sia come attenzione nei movimenti, mai sbagliati nonostante sia abituato a farli circa sessanta metri più avanti. Tutti sintomi di uno spirito di squadra e di una voglia di imporsi che raramente si sono visti nelle Argentine degli ultimi tre anni.

 

Anche l’episodio dell’espulsione di Dybala, abbattuto dalla sfortuna e dalla tensione per l’esordio da titolare, ci ha suggerito qualcosa del rinnovato spirito di gruppo dell’Albiceleste. La sua partita è stata una mezz’ora rigidissima in cui è rimasto stritolato nei cunicoli minati della zona centrale della trincea uruguagia. Poi è arrivato un lampo tipicamente suo, tanto bello quanto maledetto, perché di solito una carambola del genere premia l’attaccante.

 

Poco dopo l’azione sfortunata, appena prima dell’intervallo, sono però arrivati il cartellino rosso, le lacrime immediate e dirompenti, la pacca di Messi, l’abbraccio di Mas, il bacio di Di Maria.

 

Come volessero sussurrargli: «Ci vediamo alla prossima, non ti preoccupare. Qua ci pensiamo noi.».

 

 

Cosa può dare Bauza

 

Questo è ciò che si è trovato tra le mani  il “Patón” Bauza, uno che può metterci del suo, soprattutto instradando questo nuovo flusso nei giusti canali.

 

Bauza è di Rosario, come il Tata Martino, o come Bielsa, ma a differenza loro è un simbolo del Central, uno che in carriera ha badato molto di più alla pratica che non alla teoria. Sono scelte, quel che invece è oggettivo è il suo curriculum.

 

Se oggi il “Patón” Bauza è da considerare uno dei migliori allenatori del calcio sudamericano (se non il migliore, io per esempio non mi farei molti problemi a dirlo) è perché è riuscito a vincere la Libertadores prima con la LDU di Quito, primo club ecuadoriano della storia a ottenere un trofeo internazionale, poi con il San Lorenzo, la squadra del Papa ma anche l’unica grande d’Argentina che mai prima del 2014 era riuscita a prendersi la Copa più importante di questo emisfero, trasformandola in una vera e propria ossessione.

 

In entrambi i casi, Bauza ha agito allo stesso modo: ha messo ordine, ha sistemato tessera dopo tessera in un mosaico sobrio e molto concreto, ha valorizzato le figure a sua disposizione e semplicemente ha vinto. Sempre lavorando sulla traccia del 4-2-3-1, chiaramente il punto di partenza prediletto, da cui ha scelto di iniziare anche l’avventura più importante e difficile della sua carriera. Lo svantaggio, rispetto alle esperienze passate, è che stavolta non parte da outsider. Al contrario, si ritrova alla guida di una squadra sempre favorita ma zavorrata da un fardello di fallimenti seriali. Il vantaggio innegabile del suo nuovo status, però, e a sensazione è quello che gli interessa di più, è che a differenza di ogni esperienza pregressa ora può scegliere tra il miglior materiale calcistico che ci sia in giro.

 

Il gioco avvolgente dell’Argentina di Bauza parte dal pivote basso, dal cinco (in questo caso Biglia) e si allarga spesso sulla fascia. Poi la palla arriva a Messi.

 

Conteranno molto le sue scelte: coraggiosa e intelligente è stata contro l’Uruguay quella di partire con Pratto, uno che conosce alla perfezione le dinamiche di questo calcio e che poteva essere mandato al fronte con la garanzia di impegno massimo. In più, questa mossa ha dato un’iniezione di vecchio dna argentino a una formazione che aveva bisogno di riaggrapparsi alle radici del proprio calcio per uscire dal tunnel. Piazzare Pratto al centro dell’attacco da titolare  in questa partita è stato un po’ come rispolverare figure del calibro di Martin Palermo o del Beto Acosta: numeri ‘9’ puramente criollos, che in una partita con l’Uruguay, da non sbagliare per nessun motivo, sanno sempre dire la loro. Ecco per esempio uno dei suoi classici movimenti: viene incontro alla palla, la appoggia a Dybala, si propone in profondità con la grazia di un cammello in havaianas sulla terra battuta di Roland Garros.Dybala poi gli preferisce Messi, l’occhiata che riceve in cambio è fulminante.

 

Poi il progetto si svilupperà diversamente, perché in questa squadra ci sono da impiantare come minimo Higuaín e Agüero, che potrebbero ambire senza problemi alle maglie indossate a Mendoza da Pratto e Dybala. Poi magari ci sarebbe da trovare un numero 10 classico, perché se Messi vuol per forza partire largo allora il calcio di Bauza ha bisogno di un fantasista che raccordi il tutto nella zona centrale a suon di tocchi di classe. Un nome che ha preso a girare recentemente È quello del “Mudo” Vazquez, selezionabile perché con l’Italia ha giocato solo due amichevoli.

 

Voce del verbo “Impostare dal basso”. La mezzala perfetta per il gioco di Bauza è “El Mudo”?

 

Per non parlare di tutta la fila di talenti che aspettano il proprio turno, da Lamela a Gaitán e Correa, passando per altre figure di difesa o centrocampo.

 

D’altra parte, all’Argentina degli ultimi vent’anni non sono mai mancati i giocatori. Piuttosto, è spesso mancato un blocco di giocatori. E un leader di massimo valore tecnico che li portasse alla gloria.

 

La sensazione, anche se può sembrare prematuro dirlo, è che ora ci siano e abbiano finalmente trovato lo spirito giusto.

 

E che il “Patón” possa semplicemente essere, ancora una volta, l’uomo giusto al momento giusto.

 

 

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Stefano Borghi è da anni una delle principali voci del calcio sudamericano in Italia. Ex telecronista di Sportitalia, è ora a Fox Sports dove commenta le partite di calcio internazionale, e della Liga spagnola in particolare.